LA GUERRA RIVOLUZIONARIA

Dalla postfazione al testo “Millenovecentoventi, la ‘marcia sulla Vistola’ e la rivoluzione alle porte dell’Europa

Una situazione nella quale il proletariato di un paese, dopo aver vinto la rivoluzione, possa trovarsi nelle condizioni di combattere armi alla mano contro gli eserciti degli stati in cui il dominio della borghesia è ancora abbastanza saldo non è mai stata esclusa da Marx e da Engels, anzi è stata esplicitamente considerata come una vera e propria necessità, data l’implausibilità di una vittoria della rivoluzione socialista contemporaneamente in tutti i paesi capitalistici.

Già nel 1845 Engels scrive che

[…] il membro di una [società comunista] nel caso di una guerra, la quale d’altronde potrebbe aversi soltanto contro nazioni anticomuniste, ha da difendere una patria reale, e dunque combatterebbe con un entusiasmo, con una tenacia, con un coraggio, di fronte ai quali il macchinale addestramento di una moderna armata finirebbe per disperdersi come paglia al vento; considerino quali miracoli ha fatto l’entusiasmo delle armate rivoluzionarie dal 1792 al 1799, che pure combattevano per una illusione, per una patria apparente, e non si potrà non comprendere quale deve essere la forza di un esercito il quale si batta non per una illusione, ma per una realtà palpabile.[1]

Marx, nel 1849, quando le prospettive di una rivoluzione proletaria in Francia non sembravano ancora tramontate, scriveva che

l’Inghilterra sembra la roccia contro cui naufragano le onde della rivoluzione […]. L’Inghilterra domina il mercato mondiale. Un rivolgimento della situazione economico-politica in ogni paese del continente europeo, senza l’Inghilterra, è la tempesta in un bicchier d’acqua. […] La liberazione dell’Europa, sia la conquista dell’indipendenza delle nazionalità oppresse, sia la caduta dell’assolutismo feudale, dipendono quindi dall’insurrezione vittoriosa della classe operaia francese. Ma ogni rivolgimento sociale in Francia naufraga necessariamente di fronte alla borghesia inglese, di fronte al dominio industriale e commerciale della Gran Bretagna sul mondo. Ogni parziale riforma sociale in Francia, e sul continente europeo in generale, è e rimane, quanto alla sua possibilità di essere definitiva, un pio e vuoto desiderio. E la vecchia Inghilterra non sarà rovesciata che da una guerra mondiale che sola può fornire al partito cartista, al partito operaio inglese organizzato, le condizioni per una rivolta vittoriosa contro i suoi giganteschi oppressori. I cartisti alla testa del governo inglese: solo in questo momento la rivoluzione sociale passerà dal regno dell’utopia al regno della realtà. Ma ogni guerra europea nella quale sia coinvolta l’Inghilterra, sarà una guerra mondiale. Essa sarà condotta in Canada come in Italia, nelle Indie orientali come in Prussia, in Africa come sulle sponde del Danubio. E la guerra europea è la prima conseguenza della rivoluzione operaia vittoriosa in Francia. Come ai tempi di Napoleone, l’Inghilterra si troverà alla testa degli eserciti controrivoluzionari, ma dalla stessa guerra sarà gettata alla testa del movimento rivoluzionario e riscatterà il suo debito contro la rivoluzione del secolo XVIII. Insurrezione rivoluzionaria della classe operaia francese, guerra mondiale: ecco il sommario dell’anno 1849.[2]

È evidente che la guerra di cui scrive Marx è una guerra rivoluzionaria. Una guerra scatenata da una Francia nella quale abbia vinto la rivoluzione operaia, contro l’assolutismo feudale europeo e per la liberazione delle nazionalità oppresse, e soprattutto contro il decisivo bastione del capitalismo mondiale, la cui sopravvivenza pregiudicherebbe le conquiste della rivoluzione: l’Inghilterra. È in virtù dell’estensione mondiale dell’impero britannico che la guerra della Francia rivoluzionaria assume per Marx la sua dimensione di guerra mondiale.

Facciamo questa precisazione per rimarcare che in questo scritto di Marx la guerra mondiale non è intesa nel senso di una rottura dell’equilibrio internazionale tra potenze borghesi. Quello che Marx tratteggia è, piuttosto, il ruolo della rivoluzione esportata per mezzo della guerra, il ruolo della guerra rivoluzionaria, conseguenza della rivoluzione operaia vittoriosa in un paese, la Francia, che deve fornire al partito operaio d’Inghilterra le condizioni per una rivolta vittoriosa contro la propria borghesia.

È altrettanto evidente che per Marx quella della Francia del 1849 avrebbe avuto la natura di una guerra rivoluzionaria socialista e non di una guerra democratico-borghese o nazionale. Tra il febbraio 1848 e il gennaio 1849 si pone infatti il giugno di sangue, nel quale le contraddizioni di classe della società capitalistica si sono manifestate per la prima volta nella storia in tutta la loro chiarezza, ponendo il proletariato parigino, in armi, solo, in campo aperto contro la borghesia.

La posizione di Lenin sulla guerra rivoluzionaria socialista è altrettanto chiara:

L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo all’inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si solleverebbe contro il resto del mondo capitalista, attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, spingendole ad insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici ed i loro Stati. La forma politica della società nella quale il proletariato vince abbattendo la borghesia, sarà la repubblica democratica che centralizzerà sempre più la forza del proletariato di una nazione, o di più nazioni, per la lotta contro gli Stati non ancora passati al socialismo. Impossibile è la soppressione delle classi senza la dittatura della classe oppressa, del proletariato. Impossibile la libera unione delle nazioni nel socialismo senza una lotta ostinata, più o meno lunga, fra repubbliche socialiste e Stati arretrati.[3]

In questo articolo Lenin afferma che a causa della differenza dei livelli di sviluppo economico nelle diverse aree del pianeta, il capitalismo può essere più o meno maturo in alcuni paesi piuttosto che in altri, che però – in accordo con quanto scritto da Marx ed Engels ne L’Ideologia tedesca – vengono ugualmente trascinati dalle interconnessioni del mercato mondiale nel vortice delle contraddizioni tipiche del capitalismo maturo.

Ciò comporta due osservazioni. La prima è che la rivoluzione politica socialista può scoppiare prima nei paesi capitalisticamente arretrati, che rappresentano l’anello debole della catena imperialistica mondiale; la seconda è che la trasformazione economica socialista può iniziare anche in un solo paese, dopo che vi sia scoppiata la rivoluzione, ma solo ed esclusivamente a condizione che esso sia capitalisticamente avanzato. È evidente dallo svolgimento dell’articolo di Lenin, anche se non chiaramente esplicitato, che il definitivo affermarsi del modo di produzione socialista non può realizzarsi in un solo paese, come teorizzato dalla controrivoluzione staliniana, ma può concretizzarsi esclusivamente sulla base della divisione mondiale del lavoro e sulla base delle risorse economiche messe a disposizione dalla rivoluzione internazionale. Se per Lenin fosse stato possibile il socialismo in un solo paese non si spiegherebbe perché il rivoluzionario russo insista sulla sollevazione del proletariato vittorioso in un solo paese contro il resto del mondo capitalistico, sulla lotta degli stati proletari contro quelli borghesi. Questa è una prospettiva di assoluta incompatibilità e di stato di guerra permanente e senza quartiere, per quanto più o meno intervallato da momentanee tregue d’armi, non certamente una prospettiva di coesistenza durevole.

Questa incompatibilità dello stato proletario con il resto del mondo capitalista è ribadita da Lenin:

Lo sviluppo del capitalismo avviene nei diversi paesi in modo estremamente ineguale. E non potrebbe essere diversamente in regime di produzione mercantile. Di qui, l’inevitabile conclusione: il socialismo non può vincere simultaneamente in tutti i paesi. Vincerà dapprima in uno o in alcuni paesi, mentre gli altri rimarranno, per un certo periodo, paesi borghesi e preborghesi. Questo fatto provocherà non solo attriti, ma anche l’aperta tendenza della borghesia degli altri paesi a schiacciare il proletariato vittorioso dello Stato socialista. In tali casi la guerra da parte nostra sarebbe legittima e giusta. Sarebbe una guerra per il socialismo, per l’emancipazione degli altri popoli dall’oppressione della borghesia.[4]

Lenin analizza concretamente il caso in cui il proletariato rivoluzionario prenda il potere in Russia, uno dei paesi coinvolti in un conflitto imperialistico:

Alla domanda che cosa farebbe il partito del proletariato se la rivoluzione lo portasse al potere durante la presente guerra, rispondiamo: noi proporremmo la pace a tutti i belligeranti a condizione che venisse data la libertà alle colonie e a tutti i popoli dipendenti e oppressi che non godono dei pieni diritti. Con gli attuali governi né la Germania, né l’Inghilterra, né la Francia accetterebbero questa condizione. Allora noi dovremmo preparare e condurre una guerra rivoluzionaria, cioè dovremmo non soltanto attuare completamente con le misure più decisive tutto il nostro programma minimo, ma dovremmo sistematicamente spingere all’insurrezione tutti i popoli ora oppressi dai grandi russi, tutte le colonie e i paesi soggetti dell’Asia (India, Cina, Persia, ecc.), e anche – e prima di tutto – incitare il proletariato d’Europa all’insurrezione contro i suoi governi e nonostante i suoi socialsciovinisti. Non vi è alcun dubbio che la vittoria del proletariato in Russia creerebbe condizioni straordinariamente favorevoli per lo sviluppo della rivoluzione sia in Asia che in Europa.[5]

Per lo stato proletario la guerra rivoluzionaria socialista è una permanente necessità potenziale che può trasformarsi in una realtà fattuale dalle forme più diverse, da quella di una guerra difensiva per salvaguardare la rivoluzione dal soffocamento a quella di una guerra offensiva per soccorrere o scatenare la rivoluzione in altri paesi. In ogni caso, l’opportunità o meno di intraprendere la guerra è sempre subordinata alle forze materiali disponibili in un dato momento.

Nell’ipotesi in cui la rivoluzione vinca in un paese nel corso di una guerra che lo veda contrapposto ad altri stati, suo primo compito sarebbe di proclamare la solidarietà con i proletari degli stati nemici e di sollecitarli alla rivoluzione contro la propria borghesia. Ma nel caso in cui l’agitazione e l’incitamento all’insurrezione negli altri paesi in guerra non sortisca l’effetto sperato o se il moto rivoluzionario in questi paesi venga sconfitto senza indebolirne lo stato e l’esercito, si presentano le condizioni per le quali per impedire il soffocamento dello stato proletario può essere necessario intraprendere una guerra rivoluzionaria difensiva.

Questa guerra, anche se apparentemente condotta contro gli stessi nemici del rovesciato governo borghese, non sarebbe più una guerra imperialista ma una guerra di classe in cui la vittoria dello stato proletario potrebbe contribuire all’estensione della rivoluzione internazionale.

Lenin non si oppose al principio della guerra rivoluzionaria neanche quando fu costretto a firmare nel 1918 la pace di Brest Litovsk. In questo caso il suo rifiuto della guerra rivoluzionaria contro la Germania era determinato unicamente dalla valutazione oggettiva della possibilità di condurre una simile guerra in quel preciso momento, nelle condizioni date e con le forze allora disponibili.

In quel momento il proletariato russo era completamente in ginocchio, e si era appena proclamata la fine della guerra imperialista. La rivoluzione proletaria in Germania e nell’Europa occidentale era considerata imminente e per questo occorreva salvaguardare il potere conquistato in attesa di una rivoluzione europea alla quale unirsi nella lotta all’imperialismo mondiale.

Una guerra veramente rivoluzionaria sarebbe in questo momento la guerra che la Repubblica socialista condurrebbe contro i paesi borghesi, ponendosi lo scopo preciso, approvato pienamente dall’esercito socialista, di abbattere la borghesia negli altri paesi. Ma è certo che nel momento attuale non possiamo ancora prefiggerci questo scopo.[6]

Tuttavia, quando inizialmente le trattative di pace a Brest Litovsk saltarono, e l’esercito tedesco avanzò sul territorio russo, la guerra non era più un’opzione che si potesse rinviare ad un momento più propizio.

Lenin rimarcò il carattere di classe della guerra rivoluzionaria che in quel momento era imposta alla Russia sovietica dall’imperialismo tedesco e negò qualsiasi carattere nazionale a questa guerra:

Dal 25 ottobre 1917 noi siamo difensisti. Siamo per la “difesa della patria”, ma la guerra per la difesa della patria verso la quale noi ci avviamo è una guerra per la patria socialista, per il socialismo diventato patria, per la Repubblica sovietica come distaccamento dell’esercito mondiale del socialismo. “Odio verso il tedesco, dàgli al tedesco” – questa era ed è rimasta la parola d’ordine del patriottismo ordinario, cioè borghese. Ma noi diremo: “Odio verso le belve imperialiste, odio verso il capitalismo, morte al capitalismo”.[7]

Alle perplessità sulla liceità o meno del fatto che il proletariato del paese in cui la rivoluzione ha vinto debba battersi contro altri proletari arruolati negli eserciti degli stati borghesi, il marxismo oppone la constatazione che la borghesia ha sempre impiegato e continuerà ad impiegare i membri del proletariato meno coscienti dei propri interessi di classe per difendere i suoi privilegi. Nella maggior parte dei casi, il proletariato rivoluzionario trova fra i difensori del dominio capitalistico proprio altri elementi della sua stessa classe, contro i quali deve combattere con l’arma della persuasione e con la persuasione armata.

Con il cambiamento del contenuto sociale dello stato, operato dalla rivoluzione proletaria, per Lenin muta anche la natura delle guerre che questo stato può condurre:

Il carattere sociale della guerra, il suo vero significato non sono determinati dalla posizione che occupano le truppe nemiche (come credono i socialisti-rivoluzionari e i menscevichi, abbassandosi fino alla volgarità di un mugik ignorante). Quale politica fa continuare la guerra («la guerra è la continuazione della politica»)? Qual è la classe che conduce la guerra e per quali fini la conduce? Sono questi i problemi che determinano il carattere della guerra.[8]

Il mutato carattere sociale di una guerra alla quale il proletariato, vincitore in uno o più paesi, partecipi come fattore indipendente e consapevole, perseguendo il proprio fine di emancipazione internazionale, determina ovviamente le scelte tattiche dei comunisti dei vari paesi coinvolti. Scelte tattiche che ovviamente non possono essere confuse con l’insieme dei princìpi alla base della lotta rivoluzionaria.

Nel 1923, quando le nubi di una possibile guerra tra Germania e Francia si addensavano sull’orizzonte europeo, Amadeo Bordiga scriveva che

Negato il principio della «difesa nazionale» il pensiero e il metodo rivoluzionario comunista vi contrappongono non il principio del disfattismo, ma quello dell’impiego delle forze reali politiche a determinare la guerra di classe e la rivoluzione proletaria. Il disfattismo dunque non è un principio, ma un mezzo, uno dei mezzi, coi quali si può far svolgere rivoluzionariamente la situazione creata dalla guerra. Mezzo che può non essere sempre utilmente applicabile, poniamo per la poca forza del partito proletario del dato paese, o perché ve ne sia uno migliore. Quando noi ci poniamo il problema dinanzi a una possibile guerra nel 1923, cominciamo, come nel 1914, a spazzare via dalle nostre file chi voglia apportarvi il criterio della concordia nazionale e della difesa della patria […]. Quindi guardiamo lo scenario del conflitto, e constatiamo che vi è qualche cosa di mutato. Tra i mezzi che non respingiamo per principio, come vi è il disfattismo e il sabotaggio della guerra, vi sono anche dei mezzi politici e storici atti sommamente al nostro fine e che si chiamano armi, eserciti e Stati. Nella situazione storica di oggi vi è uno Stato proletario, un esercito proletario. Ecco l’elemento fondamentale della nostra valutazione.[9]

Vediamo qui come giustamente Bordiga sottolinei il fatto che la negazione del principio della difesa nazionale, doveroso per i socialisti rivoluzionari, non implichi affatto l’affermazione di un principio disfattista. Il disfattismo è infatti una delle possibili risposte tattiche all’esigenza della trasformazione della guerra imperialista in rivoluzione socialista. Uno strumento che può non essere sempre applicabile.

La soluzione del problema esige, come sempre per l’analisi marxista delle relazioni internazionali, una visione d’insieme del quadro generale che tenga conto della natura di classe degli Stati in guerra, dei loro reciproci rapporti di forza economici e politici e del peso dei vari partiti rivoluzionari proletari. L’esistenza di uno o più stati proletari ad esempio, modifica sostanzialmente il quadro sul quale si basa l’analisi delle guerre fra stati. Ovviamente in questa eventualità è fondamentale stabilire l’autentica natura di classe degli stati che si definiscono proletari.

Nel suo articolo Bordiga continua illustrando la corretta posizione marxista domandandosi come si schiererebbe lo stato proletario russo in un possibile conflitto militare tra stati borghesi:

[…] seguitando a negare il principio della difesa della patria, e chiamando alcuni partiti comunisti ad impiegare il mezzo del disfattismo senza esclusione di colpi, noi potremo benissimo indicare un’altra via ad altri partiti se lo Stato del loro paese si trovasse, poniamo, a fianco dello Stato proletario. Si può escludere una tale possibilità storica? No, certamente. E si convinca, chi ha qualche dimestichezza col Socialismo, che non esiste nemmeno alcun principio che escluda la eventualità di un simile cammino dei fatti storici, e la legittimità per i partiti proletari di scegliere quella azione che meglio può accelerarlo. La politica dello Stato Proletario e della Internazionale rivoluzionaria si fonda sul principio di svolgere dalla situazione di crisi del mondo capitalistico la guerra e la vittoria rivoluzionaria di classe. Il fatto stesso che oggi sono in presenza Stati borghesi e Stati proletari dà la possibilità che date fasi della lotta si presentino come una guerra degli Stati. In questo caso tutte le forze rivoluzionarie saranno dalla parte dello Stato proletario. E potrà darsi che un Partito Comunista, e il suo Stato borghese, che esso tende programmaticamente a rovesciare, si trovino sulla stessa linea di azione in una guerra a fianco dello Stato proletario: oggi la Russia. Non vogliamo qui svolgere il lato concreto del problema, ma solo sgombrare il campo da equivoci di ordine dottrinale su di esso, e chiarire che non si è dinanzi a rinunzie o a mutamenti di indirizzo, ma a conclusioni logiche che ognuno può trarre dai principî genuini del Socialismo rivoluzionario. […] La obiezione che i comunisti verrebbero a trovarsi su di un piano di azione comune collo Stato borghese, non significa nulla. Il fatto, non impossibile, ma che sarebbe accompagnato da molte complicazioni e darebbe luogo in ogni caso al più instabile equilibrio nella politica interna, che uno Stato borghese sostenga la Russia in una guerra, e che il Partito Comunista sostenga la stessa causa bellica e militare, non cancellerebbe l’antitesi tra quello Stato ed il Partito rivoluzionario.[10]

Vediamo che l’irrompere di uno stato proletario all’interno della rete mondiale degli stati capitalistici, altera il quadro dei rapporti tra questi stati, e ripropone in un certo senso alcuni contenuti dello schema tattico proposto nel 1891 da Engels nel caso di una guerra della Germania contro la Russia zarista e la Francia sua alleata.

Nel corso di una guerra che veda contrapposta allo stato proletario una coalizione di stati imperialistici può verificarsi la circostanza, dovuta agli inevitabili contrasti interimperialistici tra gli stati borghesi, che uno o più di uno di questi ultimi si trovino in oggettiva convergenza di interessi con lo stato proletario contro altri stati borghesi. In un caso simile l’interesse del proletariato mondiale e della rivoluzione internazionale condurrebbe i partiti rivoluzionari di questi ultimi paesi a seguire l’indicazione pratica di non sabotare lo sforzo bellico del proprio stato borghese, mantenendo però saldamente la massima indipendenza nei suoi confronti, la stessa intransigente opposizione di classe e lo stesso obiettivo di rovesciarlo quando se ne presentino le migliori possibilità.

Bordiga dichiara esplicitamente che

Noi siamo per la guerra rivoluzionaria. Si emozionino pure i fessi, ma si può scrivere senza fare nessuno strappo alla nostra ortodossia marxista che noi, meritevoli già dell’epiteto di «caporettisti», se il Governo italiano partisse in guerra contro gli Stati che avessero assalito la Russia… non faremmo nulla per impedirgli il successo.[11]

A maggior ragione questo atteggiamento del partito rivoluzionario è giustificato nel caso in cui ad esempio lo stato borghese “alleato” dello stato proletario stia combattendo una guerra rivoluzionaria dal contenuto democratico-borghese, contro potenze coloniali e imperialiste.

Continua…


[1] Friedrich Engels, Due discorsi ad Elberfeld, 1845, in OCME, Editori Riuniti, vol. IV, pagg. 569-570.

[2] Karl Marx, Il movimento rivoluzionario, 1849, OCME, Editori Riuniti, vol. VIII, pagg. 211-213.

[3] Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, 23 agosto 1915, Opere complete, Roma, Editori Riuniti, Vol. XXI, pag. 315.

[4] Lenin, Il programma militare della rivoluzione proletaria, 1916, Opere complete, Roma, Editori Riuniti, Vol. XXIII,  pag. 77.

[5] Lenin, Alcune tesi,13 ottobre 1915, Opere complete, Roma, Editori Riuniti, Vol. XXI, pag. 370.

[6] Lenin, Tesi sulla conclusione di una pace immediata, separata e annessionista, 20 gennaio 1918, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1976, pag. 1049.

[7] Lenin, Il compito principale dei nostri giorni, 12 marzo 1918, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1976, pag. 1084.

[8] Lenin, La catastrofe imminente e come lottare contro di essa, settembre 1917, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1976, pag. 833.

[9] Bordiga, Comunismo e guerra, 13 gennaio 1923, Scritti 1911-1926, Fondazione Amadeo Bordiga, 2019, pag.

[10] Bordiga, Comunismo e guerra, 13 gennaio 1923, Scritti 1911-1926, Fondazione Amadeo Bordiga, 2019, Vol. VIII, pag. 58.

[11] Ibidem.

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