1953 – LEZIONI DA BERLINO

SETTANT’ANNI DALLA RIVOLTA DEGLI OPERAI TEDESCHI CONTRO IL CAPITALISMO DI STATO

Condividiamo sul blog un nostro articolo pubblicato nel n. 112 di Prospettiva Marxista


Il 17 giugno 1953, settant’anni fa, scoppiava la rivolta operaia di Berlino Est e, a dire il vero, stupisce un poco il silenzio a “sinistra” su questo anniversario.

Ovviamente non ci riferiamo alle poche mosche necrofore dello stalinismo e del maoismo, che continuano a banchettare e a deporre uova sulla carcassa ormai imputridita dello “Stato-guida del socialismo” e che ancora oggi ronzano a proposito di una “provocazione fascista”. Da costoro, il silenzio è più che benvenuto.

La perplessità si concentra su altre soggettività politiche che si richiamano al marxismo, al comunismo, all’internazionalismo proletario. È comprensibile la ritrosia di alcune di queste sigle – a volte dalle denominazioni altisonanti e tendenti ad accreditarsi ed a farsi accreditare come “uniche depositarie” dell’internazionalismo rivoluzionario – ad affrontare una questione tanto spinosa mentre sono magari indaffarate a collaborare con gli eredi di quello stesso “nemico” con cui pretendono di aver “saldato i conti”. Tuttavia, comprendere non è giustificare.

Per altri poi, pronti ad inneggiare agli operai qualunque cosa facciano, ma preferibilmente quando sono inquadrati da borghesie putride per farsi scannare in presunte “lotte di liberazione nazionale” – autentiche guerre imperialiste –, la rivolta operaia di Berlino Est, violenta ancorché disarmata, diretta contro la propria borghesia e contro il proprio Stato capitalistico prima che contro una potenza imperialista straniera, costituisce verosimilmente un imbarazzante non-evento.

A fronte di questo vuoto, non sarà inutile per gli operai coscienti una sommaria ricostruzione degli eventi del giugno ’53.

Nel febbraio di quell’anno, il governo della Repubblica Democratica Tedesca, guidato dagli stalinisti tedeschi Otto Grotewohl e Walter Ulbricht è alle prese con l’esigenza di “costruire il socialismo” in Germania orientale – leggasi: estorcere plusvalore dal proletariato tedesco e soddisfare le richieste, imperialiste par excellence, di riparazioni di guerra da parte della “Russia socialista”.

Walter Ulbricht e Nikita Kruscev

Con questo nobile scopo vengono innalzate per gli operai le quote di produzione, sulla base delle quali sono calcolati dei “premi” che, dati i bassissimi salari di base, si rendono necessari per superare il minimo di sussistenza. Dal momento che le difficoltà di approvvigionamento delle materie prime nell’industria determinano rallentamenti e interruzioni nella produzione, l’aumento di produttività è pressoché impossibile, rendendo di fatto l’aumento del 10% delle quote un semplice espediente per ridurre i già magri salari senza che i “premi” possano integrarli adeguatamente. Con l’introduzione delle nuove norme il salario di un operaio sarebbe passato da 20-24 marchi a soli 13-16 marchi al giorno.

A questa spudorata politica antioperaia del “governo degli operai” si aggiunge in aprile l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità come carne e zuccheri e l’abolizione del calmiere sui biglietti dei mezzi pubblici per i lavoratori.

Richiamati all’ordine dall’URSS, preoccupata per il fallimento complessivo della politica economica tedesco-orientale e per le sue possibili conseguenze a livello sociale che avrebbero potuto rendere più difficoltoso il controllo russo sulla Germania dell’Est, in maggio, i gerarchi della SED revocano gli aumenti dei prezzi, ristabiliscono le tessere annonarie per i lavoratori autonomi, restituiscono aziende industriali e commerciali ai loro ex-proprietari alle quali erano state requisite per inadempienze fiscali, restituiscono le terre ai contadini ricchi ai quali erano state sequestrate oppure li gratificano di un indennizzo, restituiscono alle varie congregazioni religiose le loro proprietà, concedono crediti statali alle aziende private.

E agli operai? Gli operai devono accontentarsi della reintroduzione del calmiere sul costo dei mezzi pubblici, mentre l’aumento delle quote di produzione non viene minimamente scalfito. Per tutta risposta, nello stesso mese, scoppiano scioperi a Eisleben, Chemnitz-Borna, Finsterwalde, Furstenwalde e in altre città.

Il 16 aprile 1953, nella centrale elettrica di Zeitz, vicino ad Halle, viene organizzata un’assemblea di tutti i lavoratori dell’impianto per discutere a proposito di una revoca del sistema dei “premi”. Secondo un resoconto pubblicato su un giornale locale «un operaio di nome Walter si è alzato e ha detto: “Compagni, quello che sta succedendo ora è assolutamente umiliante per la classe operaia. Karl Marx è morto da 70 anni, e qui stiamo ancora discutendo dei nostri bisogni più elementari…”»[1].

Il 12 giugno gli operai carpentieri in sciopero dell’officina C-sud della Stalinallee vengono redarguiti da funzionari di partito e bonzi sindacali che “spiegano” loro come non abbia senso “uno sciopero in una fabbrica del popolo, che è una vostra proprietà. Se scioperate state scioperando contro voi stessi”. Un operaio risponde: “Non scioperiamo per divertimento e sappiamo esattamente quello che state facendo”[2].

Operai edili al lavoro sulla Stalinallee

Il 15 giugno tutti gli operai edili della Stalinallee, scendono in sciopero per ottenere la revoca dell’innalzamento delle quote di produzione e, tramite comitati di sciopero eletti dagli operai, formalizzano le loro rivendicazioni in una lettera a Otto Grotewohl. Analoghi comitati si costituiscono nella fabbrica di cavi del quartiere di Kopenick e nella regione di Lipsia.

Il 16 giugno 1953, dopo che il sindacato di regime FDGB risponde che non è possibile revocare l’innalzamento delle quote, gli operai edili si mettono in marcia per le strade di Berlino verso la sede del governo della DDR. Gli operai dei cantieri di tutta la Stalinallee si uniscono al corteo che si ingrossa sino a raggiungere la cifra di circa 700 manifestanti davanti alla sede del governo.

Fritz Selbmann, ministro dell’industria pesante, prova ad interloquire con gli operai ed esordisce con un: “Cari colleghi…” viene immediatamente interrotto dagli operai che gli gridano: “Non sei un nostro collega, sei una merda e un traditore”. Il suo annuncio della revoca dell’innalzamento delle quote di produzione quasi non viene ascoltato. Ormai è tardi per le mezze misure[3].

Il ministro dell’industria pesante Fritz Selbmann

Nella folla comincia a circolare la parola d’ordine di uno sciopero generale da indire per l’indomani. Agli operai che attraversano il centro per tornare verso la Stalinallee si uniscono migliaia di giovani mentre una macchina munita di altoparlante proclama lo sciopero generale e una manifestazione alle 7 del mattino seguente, presso la Strausberger Platz.

Una delegazione di operai si reca presso la RIAS, l’emittente radio americana di Berlino ovest, chiedendo di diffondere le rivendicazioni dei lavoratori e l’appello allo sciopero generale. La radio acconsente a trasmettere in tutto il paese le rivendicazioni degli operai: aumento dei salari al livello precedente all’innalzamento delle quote di produzione, immediata riduzione dei prezzi dei generi di prima necessità, immunità per i manifestanti e per i loro rappresentanti, ma si guarda bene dal trasmettere l’appello allo sciopero.

Alle 5:36 della mattina del 17 giugno la radio trasmette un messaggio di solidarietà ai cittadini di Berlino est da parte di Ernst Scharnowski, presidente della federazione berlinese del Deutscher Gewerkschaftsbund, il maggiore sindacato tedesco occidentale, anche in questo caso senza nessun riferimento allo sciopero generale, vietato dalle autorità Alleate occidentali tanto quanto nella DDR.

Nel corso della manifestazione, oltre a quelle economiche, emergono rivendicazioni politiche: dimissioni del governo, libere elezioni, riunificazione della Germania. Alle 7:45 la Volkspolizei, la famigerata “polizia del popolo” tenta invano di sgomberare la piazza. La massa di manifestanti si sposta allora verso la Leipziger Straße, in direzione della sede del governo. Nel frattempo, scioperi, manifestazioni, occupazioni delle fabbriche si susseguono e si alternano le une agli altri. Gli operai in corteo si dirigono verso le fabbriche convincendo gli esitanti ad unirsi allo sciopero ed alla manifestazione.

Si creano nuovi concentramenti alla Porta di Brandeburgo e nell’Alexanderplatz. Alle 8 di mattina i manifestanti nel centro di Berlino sono circa 10.000. Il governo della DDR definisce i manifestanti “provocatori fascisti provenienti dal settore ovest”. Si verificarono scontri con la Volkspolizei e diversi funzionari della SED vengono riconosciuti e picchiati al grido: “siamo noi i veri comunisti!”.

Agenti della Volkspolizei in assetto antisommossa

La sede del governo, accortamente evacuata dai membri della SED, viene occupata e devastata mentre altri manifestanti assaltano i veicoli della polizia e della Stasi e danno fuoco ai check-point al confine con Berlino ovest. Nelle strade e nelle sedi di partito vengono stracciati i ritratti di Stalin e di Ulbricht mentre quelli di Marx non vengono toccati[4].

A questo punto scende in campo l’esercito russo. Alle 11 viene interrotto il trasporto pubblico per evitare che altri manifestanti dalle periferie e dall’hinterland raggiungano il centro cittadino. Alle 11:30 appaiono i primi carri armati sulla Leipziger Straße e sulla Potsdamer Platz che aprono il fuoco sulla folla, causando morti e feriti. Alle 13 le truppe russe cacciano i dimostranti dalla sede del governo e dichiarano lo stato di emergenza a Berlino est.

La proclamazione dello stato di emergenza e del coprifuoco

Alle 14:30 i russi arrivano alla Porta di Brandeburgo, dove aprono nuovamente il fuoco contro la folla inerme. Nel frattempo, la RIAS esorta i manifestanti a evitare scontri con le truppe sovietiche, mentre le truppe Alleate e la polizia del settore occidentale chiudono il confine nel centro cittadino per impedire agli operai di Berlino ovest di unirsi agli scontri. Non spetta agli operai liberarsi della propria oppressione.

Nelle stesse ore, il movimento si estende al resto della Germania orientale.

Anche a Lipsia, alle rivendicazioni economiche come l’abolizione dei “premi” e l’aumento dei salari base del 30% si aggiungono richieste politiche come le dimissioni del governo e libere elezioni in una Germania riunificata.

A Niedersedlitz, un quartiere di Dresda, il 17 giugno entrano dapprima in sciopero gli operai del complesso industriale elettromeccanico VEB Kombinat Elektromaschinenbau, i quali, in un’assemblea congiunta con i lavoratori della vicina industria siderurgica VEB Sächsischer Brücken-und Stahlhochbau, eleggono un comitato di sciopero diretto da Wilhelm Grothaus, un ex dirigente comunista locale caduto politicamente in disgrazia. L’assemblea chiede le dimissioni del governo, libere elezioni, la liberazione dei detenuti politici e la riduzione dei prezzi nei magazzini di Stato.

Nel pomeriggio dello stesso giorno a Jena un corteo di 200/300 minatori, in parte armati, arriva in città a bordo di camion e bus e tenta di assaltare le sedi delle organizzazioni staliniste e della Stasi.

A Wolfen, nelle prime ore del mattino, sempre del 17 giugno, centinaia di operai partono in corteo dal locale colorificio, si uniscono ad altre migliaia di lavoratori che si sono concentrati nella fabbrica della Agfa, e si dirigono verso il complesso elettrochimico Elektrochemisches Kombinat di Bitterfeld, dove si tiene un’assemblea. In pomeriggio, il comitato di sciopero di Bitterfeld chiede in un telegramma al governo della DDR la “formazione di un governo provvisorio composto da operai rivoluzionari”[5].

Ad Halle, dal quartiere periferico di Ammendorf, parte un corteo di circa 2000 operai della fabbrica di vagoni VEB Waggonbau Ammendorf che si dirige verso il centro cittadino. Lungo il percorso si uniscono alla manifestazione altri lavoratori.

La sera del 18 giugno, 800 “poliziotti del popolo” occupano militarmente le miniere di carbone di Zwickau e Delsnitz e vengono affrontati da 15.000 minatori che chiedono il rilascio dei loro compagni arrestati. Nelle fabbriche di Leuna 300 poliziotti si schierano con gli operai mentre la fanteria russa apre il fuoco occupando gli edifici delle fabbriche. Lo stesso giorno scoppia la rivolta nella zona mineraria di Ertsgebergte. 80.000 minatori entrano in sciopero, scendono in strada e prendono d’assalto gli uffici aziendali. Furiose battaglie di strada vengono combattute con la polizia e con le truppe russe pesantemente armate, a Johanngeorgenstadt, Marienberg, Eibenstock, Falkenstein e Oberschlema[6].

Il giorno successivo nell’intera regione mineraria i partecipanti allo sciopero e alle manifestazioni sono circa 110.000. Almeno 65 pozzi di uranio vengono sabotati facendoli esplodere o allagandoli. I russi in questa zona sono costretti a dispiegare forze maggiori di quelle impiegate nel 1945 per la conquista di Berlino. Nonostante arresti e fucilazioni, la rivolta continua. Quando il 21 giugno l’assedio delle truppe russe aumenta di intensità, gli operai linciano alcuni poliziotti. Dopo giorni di furiosi combattimenti le truppe russe riprendono il controllo[7].

Si stima che le rivolte in Germania orientale abbiano coinvolto tra le 500.000 e il milione di partecipanti in centinaia di città, cittadine e paesi. Fuori da Berlino il movimento si protrasse più a lungo, anche dopo l’intervento dell’esercito russo, tanto che in alcune zone gli scioperi dureranno fino al 21 giugno.

Le vittime della repressione furono 52, tra le quali 4 donne. Circa 14.000 furono gli arrestati, 7 i manifestanti processati e condannati a morte e 42 i condannati all’ergastolo dai tribunali militari russi e da quelli civili della DDR di Ebert-Grotewohl e Noske-Ulbricht. Dall’anonima massa dei rivoltosi emergono i nomi dei proletari caduti nella lotta contro il capitalismo di Stato:

Horst Bernhagen, 21 anni, tecnico per le telecomunicazioni

Edgar Krawetzke, 20 anni, disoccupato

Werner Sendsitzky, 16 anni, garzone

Gerhard Schulze, 41 anni, disoccupato

Gerhard Santura, 19 anni, elettricista

Willi Göttling, 35 anni, disoccupato

Erich Nast, 40 anni, giardiniere

Richard Kugler, 25 anni, apprendista copritetto

Kurt Heinrich, 44 anni, operaio

Hans Rudeck, 52 anni, operaio edile

Kurt Crato, 42 anni, falegname

Manfred Stoye, 21 anni, calderaio,

Rudolf Krause, 23 anni, radiotecnico

Horst Keil, 18 anni, apprendista imbianchino

Margot Hirsch, 19 anni, commessa

Hermann Stieler, 33 anni, carpentiere

Paul Othma, 63 anni, elettricista

Kurt Arndt, 38 anni, minatore

Erich Langlitz, 51 anni, camionista

August Hanke, 52 anni, operaio

Kurt Fritsch, 47 anni, operaio

Horst Pritz, 17 anni, tornitore

Alfred Dartsch, 42 anni, verniciatore

Ernst Jennrich, 42 anni, giardiniere

Alfred Diener, 26 anni, meccanico

Alfred Walter, 33 anni, fornaio

Horst Walde, 27 anni, operaio

Dieter Teich, 19 anni, operaio

Paul Ochsenbauer, 15 anni, apprendista fabbro

Herbert Kaiser, 40 anni, operaio

Gerhard Dubielzig, 19 anni, operaio

Joachim Bauer, 20 anni, muratore

A questi va aggiunto un numero imprecisato di anonimi soldati russi (tra i 18 e i 41) fucilati per aver rifiutato di obbedire agli ordini e per aver solidarizzato con gli operai tedeschi in lotta.

La rivolta degli operai berlinesi fu un eroico e tragico episodio che dimostrò concretamente quale fosse la vera natura del “socialismo” esportato sulla punta delle baionette russe in Europa centro-orientale alla fine della Seconda guerra mondiale. La lotta economica degli operai contro le vessazioni salariali, che nell’arco di una sola decisiva giornata si trasformò in lotta politica contro lo Stato, squarciò il velo del falso socialismo di marca sovietica e rivelò nella loro essenza antioperaia i tratti ributtanti del capitalismo di Stato.

Si trattò a tutti gli effetti di una lotta operaia spontanea che attraverso uno sciopero generale arrivò alle soglie della creazione di organismi di autogoverno proletari. La brutale repressione delle manifestazioni da parte del governo della DDR e l’intervento militare delle truppe russe dislocate sul suo territorio non rivelava altro che la pressante necessità da parte del capitalismo di Stato della Germania dell’Est e dell’imperialismo “sovietico” di nascondere celermente alla vista della classe operaia mondiale l’implacabile dito accusatore del suo reparto tedesco-orientale.

I partiti stalinisti di tutto il mondo si affrettarono ad avallare la tesi del “complotto occidentale” e calunniarono gli operai berlinesi definendoli “provocatori fascisti” provenienti dall’ovest, “ex-nazisti”, reazionari e “anti-comunisti”. Che una minoranza marginale dei dimostranti avesse simpatie nazionaliste o naziste non può stupire, considerando che il Terzo Reich era stato abbattuto da soli otto anni e che alle manifestazioni partecipò anche qualche ex-borghese rovinato dalla fine del regime; tuttavia, solo circa il 10% dei manifestanti condannati nei processi dopo la fine della rivolta risultò essere stata iscritta alle organizzazioni di massa naziste[8]. A dire il vero, un terzo dei numerosi membri del partito che ne furono espulsi per aver partecipato alle rivolte erano vecchi militanti del KPD di prima della guerra.

È invece ormai una certezza che fra i manifestanti ci fossero, in percentuale ed in assoluto, molti meno ex-nazisti di quanti avevano opportunamente cambiato casacca nel dopoguerra trovando posto negli alti ranghi del “Partito socialista unificato”[9]. D’altra parte, la maggioranza dei tecnici di alto livello e degli ex direttori d’azienda, spesso ex-iscritti al Partito nazionalsocialista e che avevano generalmente ottenuto incarichi anche nelle aziende statizzate del nuovo regime, non parteciparono alle dimostrazioni[10]. Dunque, nonostante l’inevitabile presenza di pochissimi elementi reazionari, il contenuto sociale dei moti berlinesi si configura come irrefutabilmente e inequivocabilmente proletario.

E il contenuto sociale proletario della rivolta non può essere messo in discussione neanche dal fatto che i rivoltosi ammainarono le bandiere rosse dell’URSS per innalzare il tricolore nero-rosso-oro della Repubblica federale tedesca. Se gli operai di Berlino est hanno strappato la bandiera rossa lo si deve solo al fango con cui lo stalinismo aveva insozzato gli autentici colori della lotta proletaria.

Purtroppo, e sarebbe grave tacerlo trasformando in pura apologetica una necessaria critica, la rivolta operaia di Berlino del 1953 era oggettivamente e soggettivamente racchiusa all’interno di limiti che di per sé non poteva superare.

Dal punto di vista oggettivo, un’insurrezione proletaria che fosse riuscita vittoriosa contro le forze armate della DDR, una Comune di Berlino – che tale avrebbe potuto essere, al di là di ogni iperbole, solo se il proletariato avesse abbattuto lo Stato capitalista sostituendolo con i propri organi di autogoverno – avrebbe immediatamente messo in discussione la spartizione imperialistica ratificata a Yalta, imponendo alle potenze dell’imperialismo, al di qua e al di là di una cortina più fumogena che “di ferro”, di restaurare rapidamente e militarmente l’ordine borghese nei territori di pertinenza del brigante orientale.

Tuttavia, questa eventualità era purtroppo soltanto chimerica, dal momento che gli operai tedesco orientali dovettero confrontarsi fin dall’inizio e in condizioni di estrema debolezza politica (e quindi militare) non soltanto con la classe dominante di casa propria e con il suo Stato, ma anche con le forze di occupazione dell’imperialismo russo dislocate in Germania.

Questo contesto rendeva la “solidarietà” delle democrazie imperialiste occidentali con i moti di Berlino est del tutto strumentale alle normali dinamiche della contesa tra potenze imperialiste nonché chiaramente condizionata dalle concrete possibilità del moto stesso: finché la protesta creava difficoltà alla potenza russa senza possibilità di scalfirne le basi andava salutata come una “sacra” lotta per la “libertà e la democrazia”, qualora avesse trasceso questi confini rischiando di trasformarsi in una rivoluzione proletaria tedesca, la solidarietà verbale con i proletari tedeschi avrebbe repentinamente cambiato oggetto volgendosi verso il paese del “socialismo realizzato” e diventando magari operativa. Non esisteva a livello internazionale una situazione che rendesse possibile una vittoria rivoluzionaria duratura. Le potenze dell’imperialismo che si spartivano la Germania erano ben salde e ciascuna di esse, nonostante la propaganda della guerra fredda, riconosceva la sfera d’influenza dell’altra. Malgrado la retorica e le dichiarazioni ufficiali, malgrado la stessa ideologia dei protagonisti, tra il capitalismo americano e quello russo non esisteva alcuna reale contrapposizione nel mantenere divisa la Germania, e se i proletari tedesco-orientali si fossero spinti troppo oltre la reazione russo-americana avrebbe ben presto dimenticato la guerra fredda per unirsi nell’imposizione di una pace calda, rovente come il piombo degli obici, agli operai.

Non è un caso che la putrida socialdemocrazia della Germania ovest, fedele alla propria natura e alle proprie tradizioni, abbia gettato acqua sul fuoco presso gli operai di Berlino ovest, non proclamando lo sciopero generale, dissuadendo gli iscritti al partito e ai sindacati di recarsi ad est ed impedendo di fatto che la tanto proclamata e platonica solidarietà per finalità imperialistiche si trasformasse in una ben più sostanziale solidarietà di classe di tutti gli operai tedeschi.

Non è un caso neanche che l’unico atto pratico di “solidarietà” della potenza americana nei confronti dei “combattenti per la libertà” di Berlino est si sia manifestato soltanto dopo la repressione con i cosiddetti “pacchi-dono”, quelli che molto acutamente Bordiga definiva «ultimo ritrovato truffaldino e gesuitico della tecnica e della conservazione capitalistica mondiale»[11].

Tra il luglio e l’ottobre 1953 vennero consegnati gratuitamente 5,5 milioni di pacchi alimentari ai cittadini della Germania est che si presentarono nei centri di distribuzione a Berlino ovest, e, per quanto il governo della DDR avesse creato vari ostacoli all’afflusso verso il settore occidentale, nessuna camionetta della Volkspolizei né nessun carro armato russo vennero impiegati per disperdere le folle in coda per gli aiuti. Nessuna meraviglia. I pacchi alimentari venivano oggettivamente incontro alle difficoltà della produzione di generi di prima necessità del fragile capitalismo statale tedesco-orientale e contribuivano a stabilizzarlo, allentando quella pressione che era stata fra le cause della rivolta di giugno. A dimostrazione che l’unica fragilità a cui certe forme di volontariato solidale pongono rimedio è quella del capitalismo in circostanze critiche – del quale contribuiscono a ripristinare la stabilità –, quando non si tratta della costruzione, da parte di organizzazioni opportuniste e socialimperialiste, di credenziali di affidabilità da esibire presso la classe dominante ed il suo Stato.

Esaminando la rivolta del giugno 1953, possiamo affermare che una rivoluzione proletaria tedesca non era nel novero delle possibilità, non solo dal punto di vista oggettivo ma anche da quello della soggettività di classe. Il proletariato tedesco era stato privato da almeno vent’anni di qualsiasi forma di coscienza organizzata, le sue avanguardie coscienti erano state sterminate dal nazismo e dallo stalinismo, e non poteva certamente ricostruire una propria indispensabile organizzazione politica di classe nel giro di pochi giorni sull’onda di un moto spontaneo.

Alcuni idolatri della “lotta spontanea che di per sé produce la coscienza” hanno voluto vedere nella dinamica della lotta degli operai berlinesi, che, da puramente economica, trascese in lotta politica, la conferma delle proprie illusioni piccolo-borghesi. La rivolta di Berlino est dimostra inoppugnabilmente, in virtù della sua tragica ma innegabile sconfitta – e per l’ennesima volta purtroppo – l’assunto marxista secondo cui «senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario»; che un’avanguardia politica organizzata del proletariato è un elemento indispensabile nel processo rivoluzionario. Un elemento che fa parte di questo processo e dal quale il processo stesso non può prescindere per essere rivoluzionario. Se la negazione della funzione della coscienza organizzata del proletariato, del partito rivoluzionario, era stata già ampiamente demolita dalla realtà storica, l’insurrezione operaia nella Germania orientale nel 1953 ha definitivamente consegnato questa concezione al regno delle favole[12], delle favole pericolose per il proletariato, delle favole che alla classe dominante piace siano raccontate al proletariato.

Il socialismo scientifico, riconoscendo che la lotta economica può spontaneamente trasformarsi in lotta politica, rivendica però la necessità di una coscienza teorica organizzata che possa contrastare efficacemente e costantemente il condizionamento ideologico e politico della classe dominante, affinché questa lotta politica del proletariato non finisca per diventare una lotta politica borghese del proletariato.

La natura di classe della lotta, le esigenze di classe che muovono il proletariato alla lotta, non sono di per sé sufficienti a garantire che questa lotta non venga impugnata dalla borghesia o dalle sue frazioni. Persino la dinamica delle forme più alte di organizzazione di cui storicamente il proletariato si è dotato – in una certa misura spontaneamente – nel corso di alcune crisi rivoluzionarie, come i consigli operai, ha dimostrato che, nonostante la loro origine e la loro funzione, questi stessi organismi possono essere penetrati dai partiti operai borghesi e deformati fino alla loro autosoppressione. Eppure, nonostante tutte le lezioni della storia del movimento operaio, c’è ancora chi, presentandosi come rivoluzionario “autentico” in quanto “anti-partito”, propone, come soluzione contro un simile esito, l’esaltazione dei consigli in contrapposizione al partito di classe, l’esclusione di qualsiasi partito dai consigli operai, agendo però esattamente come un partito, un partito che, invece di contrastare la penetrazione dei partiti borghesi negli organismi operai, la facilita, indebolendo il partito rivoluzionario di classe che si riconosce apertamente come tale e che opera come tale. Invece di contrapporre organizzazione ad organizzazione, come esige il livello dello scontro di classe, si identifica il nemico di classe nell’organizzazione in sé. Un ottimo metodo per disarmare la classe dinanzi al suo nemico reale.

Nel giugno 1953 in Germania il proletariato pagò un prezzo altissimo per la mancanza di una coscienza teorica organizzata. Non tanto per una sconfitta oggettivamente data in partenza, e nemmeno per il numero delle vittime della repressione borghese, quanto perché quella grande esperienza e quella sconfitta, in assenza di un partito che ne traesse, sviluppasse e conservasse tutti gli insegnamenti, non sedimentò nulla nella classe operaia tedesca.

In assenza di un partito, i rivoltosi non stabilirono nessun collegamento fra i numerosi comitati di sciopero a livello nazionale, gli operai non organizzarono il proprio armamento, non venne organizzata la fraternizzazione con i soldati tedeschi e con quelli russi, che pure in diversi casi passarono dalla parte dei rivoltosi. Dal momento che solo un’esigua e disorganizzata minoranza auspicava “un governo di operai rivoluzionari”, mentre le rivendicazioni politiche maggioritarie nel movimento non andarono oltre la richiesta delle dimissioni del governo, era scontato che, dal momento che non ci si proponeva di abbattere e sostituire la dittatura del capitale statale con la dittatura proletaria, l’unica alternativa a portata di mano rimanesse l’unificazione tedesca, preferibilmente sotto un governo socialdemocratico[13], ovvero, per essere chiari, una rivendicazione politica borghese del proletariato.

È esattamente quando la lotta economica del proletariato arriva a porre questioni politiche che si manifesta la necessità di una coscienza teorica organizzata, che non può sorgere dall’oggi al domani. Un moto spontaneo del proletariato che non venga immediatamente represso si spegne altrettanto spontaneamente qualora sia privo di una prospettiva chiara, una prospettiva che può essergli conferita solo da un partito di classe o dall’ideologia borghese dominante.

Gli operai di Berlino est si mossero con grande eroismo e generosità sotto la spinta di determinazioni materiali, agendo senza una chiara idea del perché agissero come agivano, e senza avere a disposizione nemmeno il tempo sufficiente per iniziare a comprendere almeno parzialmente il senso della propria lotta nel corso della lotta stessa. I gradi di consapevolezza all’interno di una classe in lotta sono sempre i più disparati, e la lotta stessa non è sufficiente ad uniformarli. È esattamente per questo che si impone la necessità di un’organizzazione del proletariato che non si fonda indifferenziatamente nella classe ma che mantenga quella distinzione organizzativa necessaria a preservare il livello di consapevolezza teorica della parte più avanzata della classe stessa e che operi come un catalizzatore delle spinte elementari della classe nel suo complesso. Solo così i comunisti dimostrano realmente di essere «la parte più decisa e che più spinge ad avanzare dei partiti operai di tutti i paesi» e di avere «dal punto di vista teorico» «il vantaggio sulla rimanente massa del proletariato di comprendere a fondo le condizioni, il percorso e i risultati generali del movimento proletario»[14].

La coscienza teorica organizzata non crea dal nulla le situazioni rivoluzionarie, ma può trasformare una situazione rivoluzionaria in rivoluzione, chiarendo al proletariato il proprio agire e facendo sì che i nuovi organismi sorti dall’innegabile capacità creativa del proletariato in situazioni rivoluzionarie mantengano la propria natura di classe e non vengano snaturati.

Il dato incontrovertibile che il partito debba imparare dalle lotte, che debba “tastare il polso delle masse”, che “l’educatore debba essere educato”, non cancella il ruolo dell’educatore. Un educatore che non rappresenta nient’altro che la parte più avanzata della classe, e che è dunque un autoeducatore. La parola “educazione” può suscitare affettata repulsione solo in coloro che vorrebbero indottrinare il proletariato senza darsi l’aria di farlo; solo in coloro che, mentre postulano che il proletariato non abbia bisogno di nessun educatore, non cessano ciò malgrado di tentare di imporre al proletariato la loro idea di cosa esso debba essere e di cosa esso debba fare, “educandolo” – o forse diseducandolo – a modo loro. Un modo che però conduce regolarmente il proletariato a sanguinose sconfitte che raramente i diseducatori pagano in prima persona. In senso marxista il significato della parola educare coincide con il suo etimo: tirare fuori. Incontrando la teoria di classe i proletari più avanzati tirano fuori, affinano, sviluppano la propria coscienza di sé e della propria posizione all’interno dei rapporti sociali e la organizzano in partito. Non si tratta dunque di riempire un vaso vuoto, si tratta di comprendere le proprie lotte, le loro condizioni, il loro percorso, i loro risultati.

Non possono trovarsi parole più calzanti per esprimere quanto questa comprensione sia mancata ai coraggiosi proletari di Berlino est di quelle pronunciate da un operaio di fabbrica del settore russo che partecipò alla rivolta: «È stato disastroso che non ci fosse un’organizzazione o qualcosa di simile. Nella nostra zona eravamo tutti persone che non avevano mai scioperato prima. Era tutto improvvisato. Non avevamo collegamenti con altre città o fabbriche. Non sapevamo da dove cominciare. Ma eravamo completamente pieni di gioia per il fatto che le cose stavano accadendo come stavano accadendo»[1]. Assai presto, purtroppo, priva di prospettive, quella sana gioia, si sarebbe trasformata in sconfitta senza chiarezza e in disperazione. Compito dei comunisti è di battersi allo stremo affinché questo non debba più accadere.


NOTE

[1] Cfr. C. Brendel, The Working Class Uprising in East-Germany – June 1953, Echanges et Mouvement, London, IV, 6, XX. Si tratta di un opuscolo dei consiliaristi olandesi che usiamo come fonte evenemenziale senza condividerne le valutazioni politiche generali.

[2] Ibidem.

[3] Il “governo dei lavoratori” ritirò l’aumento delle quote di produzione al 10% ma aumentò i “premi” per chi le superasse “volontariamente”, il che non significava altro che una generale intensificazione del lavoro per ottenere il necessario “bonus”.

[4] G. Knopp, Der Aufstand – 17 Juni 1953, Hoffmann und Campe, Berlin, 2003, p. 183.

[5] C. Brendel, Op. cit.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Stefanie Wahl, Die Folgen des Aufstandes, su bpb.de, Bundeszentrale für politische Bildung, 17 maggio 2013.

[9] La denazificazione nell’“antifascista” DDR fu altrettanto “di facciata” di quella della Repubblica Federale, se è vero che «secondo numerosi documenti di partito, nella SED c’erano numerosi vecchi nazisti e compagni di strada bruni fino a ben oltre gli anni Sessanta. Secondo un’analisi interna del partito nel 1954, il 25,8% dei membri del partito in tutta la Repubblica era gravato dal passato nazista. Nel distretto di Magdeburgo della SED, uno su quattro era un ex nazista, e nei distretti di Halle ed Erfurt addirittura un “compagno” su tre. Secondo le statistiche della SED, in alcune organizzazioni di partito gli ex nazisti costituivano più dell’85% dei membri». Für ehrliche Zusammenarbeit (Per un’onesta collaborazione), Der Spiegel, n. 19, 1994.

[10] «I vertici locali, aziendali e regionali della SED negli anni della fondazione della DDR erano spesso composti da una maggioranza di vecchi nazisti. “Un’analisi della situazione nelle organizzazioni di base ha dimostrato che al momento non è possibile formare altre leadership”, si legge in un rapporto di indagine del partito del 1953. […] Un’analisi interna alla SED della situazione nello stabilimento Ernst Thälmann di Magdeburgo nel 1953 riportava: “Qui l’ex appartenenza alla NSDAP si estende a tutte le posizioni influenti nello stabilimento, a partire dal direttore dello stabilimento, i suoi vice, i direttori, gli assistenti, gli spedizionieri, gli impiegati dei libri paga e i contabili senior, fino all’impiegato”». Ibidem.

[11] Berlino dalla rivolta proletaria alla guerra dei pacchi, Il Programma Comunista, n. 15, 1953.

[12] Rovesciamo completamente la tesi di fondo dell’opuscolo di C. Brendel, The Working Class Uprising in East-Germany – June 1953, nel quale, con un evidente ed insistito compiacimento ai confini della malafede vengono definiti “bolscevichi” gli stalinisti, usando la parola con lo stesso disprezzo con cui esce dalle labbra arricciate degli intellettuali reazionari borghesi da più di cento anni.

[13] «Gli operai delle ferrovie di Magdeburgo dipinsero a grandi lettere bianche su tutte le carrozze nel cortile di smistamento: “Non Ulbricht, non Adenauer, ma Ollenhauer”». Ollenhauer era il leader del Partito socialdemocratico nella RFT. Cfr, Op. cit.

[14] Cfr. K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Lotta comunista, Milano, 1998, p. 41.

[15] C. Brendel, The Working Class Uprising in East-Germany – June 1953.

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