SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO: LO STATO EDUCATORE DELLE IMPRESE?

Riceviamo e pubblichiamo il testo dell’intervento del compagno Stefano Macera (Studi politico-sindacali) pronunciato nel corso dell’iniziativa Sangue e plusvalore – Il sacrificio della salute, dell’integrità fisica e della vita dei proletari sull’altare del profitto, tenutasi a Roma il 19 ottobre 2024*.


In tema di morti sul lavoro, la comunicazione mediatica e quella istituzionale si muovono consapevolmente su un doppio binario. Da un lato sottolineano la gravità del fenomeno, dall’altro evitano il più possibile di riferirsi alle responsabilità padronali. In alcuni casi, queste risultano così evidenti (es. la strage alla Thyssenkrupp di Torino del dicembre 2007) che citarle, sia pure en passant, diventa obbligatorio. Ogni volta che possono, però, giornali e tv alludono a colpe dei lavoratori, di volta in volta distratti o ignoranti in materia di normative sulla sicurezza. A ben vedere, tra i modelli di questa narrazione reticente vi sono i discorsi del Presidente della Repubblica, segnati da una prosa vibrante ma concepiti in modo da non turbare i responsabili di un’impressionante mattanza. Lo conferma il messaggio che Mattarella ha inviato il 13 ottobre all’Anmil (Associazione nazionale fra mutilati e invalidi del lavoro), in occasione della 74ª Giornata per le Vittime degli Incidenti sul Lavoro. Ne riportiamo un passo: «La sicurezza sul lavoro è una priorità permanente per la Repubblica. Ogni vita persa, ogni vita compromessa chiama un impegno corale per prevenire ulteriori perdite della salute e della dignità di chi lavora. La sicurezza del lavoro, oltre che una prescrizione costituzionale, è anzitutto una questione di dignità umana»[1]. Qui le formule sono importanti: menzionando l’impegno corale, si evita il riferimento a uno sforzo specifico da parte dell’imprenditoria. Ma soprattutto è rilevante il latore del messaggio, ovvero la prima carica dello Stato italiano, svolgente funzioni non solo simboliche ma anche di sostanza. Le quali, realisticamente, non coincidono più con quelle assegnategli dalla Costituzione, figlia di una ben diversa fase storico-sociale. Ma ne fanno comunque il punto di equilibrio del dibattito italiano, colui che traccia i confini che le forze politiche non debbono superare (si pensi, in tal senso, al continuo richiamo al posizionamento italiano nello scacchiere mondiale). Con un apparente paradosso, nella giornata in questione la Ministra del Lavoro e delle Politiche Sociali Marina Calderone ha scavalcato in audacia il celebrato Presidente. Intervenendo all’iniziativa dell’Anmil, ella ha infatti esclamato «è finito il tempo dei furbetti», in qualche modo richiamando responsabilità imprenditoriali. Ovviamente, si tratta d’un coraggio più apparente che reale. Infatti, la definizione usata rinvia alla polemica circa un fenomeno deliberatamente gonfiato dai media: l’assenteismo nel pubblico impiego. E produce un’inaccettabile equiparazione tra il padrone responsabile della morte dei suoi dipendenti e l’impiegato che marina il lavoro (ammesso che quest’ultimo, anche detto furbetto del cartellino, sia una figura reale e non, come attestano le statistiche, una creatura mitologica). Inoltre, Calderone ha alzato i toni (si fa per dire) per convincere l’opinione pubblica circa la bontà della Patente a Crediti, presentata da lei e dal suo governo come il provvedimento risolutivo. La realtà è ovviamente un’altra. Non solo tale misura rimane circoscritta all’edilizia ma, come è stato osservato da molti, può esser considerata espressione del cosiddetto safetywashing (ovvero, della sicurezza di facciata). Si richiama a precedenti proposte di Cgil e Uil, ma in termini che non sono piaciuti a tali organizzazioni, certo non animate da furore rivoluzionario. Ma di cosa parliamo, in concreto? Diciamo che la patente a crediti la possono richiedere imprese e lavoratori autonomi che operano nel settore, attraverso una domanda presentata al Portale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL). Come sottolinea Maurizio Mazzetti, curatore di una preziosa rubrica online intitolata Il lavoro deve essere sicuro[2], rispetto ai requisiti richiesti non v’è bisogno di allegare un’autentica documentazione, basta l’autocertificazione. Ogni richiedente parte da 30 crediti, che possono diventare 100 se si hanno (se si dichiara di avere) tutta una serie di caratteristiche virtuose. Alcune di queste, evidenzia ancora Mazzetti, risultano piuttosto indeterminate. Ad esempio, il «possesso di requisiti reputazionali valutato sulla base di indici qualitativi e quantitativi nonché su accertamenti definitivi, che esprimono l’affidabilità dell’impresa in fase esecutiva, il rispetto della legalità e degli obiettivi di sostenibilità e responsabilità sociale». Il linguaggio, qui, è involuto: non si capisce bene né cosa siano i requisiti reputazionali né chi li verifica. Ma a monte vi è una questione ancor più rilevante, sottolineata pure dalla Cgil[3]: far arrivare i crediti sino a 100 è eccessivo. Soprattutto perché la sospensione dell’attività di un’impresa richiede che si scenda sotto la soglia dei 15. Il che equivale a commettere diverse infrazioni (a ciascuna delle quali corrispondono specifiche decurtazioni). Naturalmente, precisa Mazzetti, c’è una situazione specifica che, da sola, comporta l’obbligatoria sospensione della patente e riguarda gli «infortuni mortali per colpa grave del datore di lavoro o suo delegato o dirigente». Qui, occorre sottolineare l’espressione colpa grave, che rimanda a un iter processuale completo (sino all’ultimo grado di giudizio) affinché la patente venga concretamente sospesa. Del resto, nel provvedimento le vie di fuga per gli imprenditori abbondano. Ad esempio, chi è sceso sotto i 15 punti ma ha «eseguito più del 30% del valore dei lavori previsti», può continuare la sua opera. Anche qui siamo nel regno dell’indeterminato: il valore non coincide con lo stato effettivo dell’opera e può essere quantificato in modi diversi. Invero, di aspetti critici la Patente a crediti ne presenta diversi altri ma, sulla scia di un’analisi davvero puntuale, ci siamo limitati a citarne alcuni. Tali da spiegare l’esibito rifiuto da parte di organizzazioni che, anche quando esprimono disapprovazione, di rado si allontanano dai toni compassati. In precedenza abbiamo parlato di safetywashing. Prima di altri, ad accostare la misura governativa a questo concetto, sono stati quelli della Uil in un comunicato del 23 luglio scorso (firmato da Ivana Veronese, Segretaria Confederale e da Stefano Costa, Segretario della Feneal, Federazione Nazionale dei Lavoratori Edili)[4]. Naturalmente, l’inaspettata radicalità dell’organizzazione in oggetto muove anche da motivazioni non particolarmente nobili. Prima di elaborare il provvedimento, l’Esecutivo non l’ha consultata e ciò è stato vissuto, né più né meno, come un attentato al ruolo conquistato in decenni di attività. Ma proprio perché vengono da chi, sino a ieri, si è sentito prossimo alla stanza dei bottoni, i pronunciamenti della Uil risultano sempre interessanti. Si pensi a come, lo scorso 14 ottobre, la stessa Veronese ha commentato la relazione annuale dell’Inail (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro)[5]. Ella è partita dal bilancio di questo ente, segnato da «un saldo attivo di 3 miliardi di euro, a cui occorre aggiungere i 204 milioni di euro che ogni anno vengono riversati nelle casse dello Stato quale contributo per la sostenibilità del bilancio». Tuttavia, ha voluto precisare Veronese, le aziende controllate dagli ispettori dell’Inail sono diminuite nell’ordine «del 5,7% tra il 2023 e l’anno precedente». Partendo da qui, la sindacalista ha rivolto critiche al funzionamento di quello che, non dimentichiamolo, è un ente pubblico, appartenente a pieno titolo alla Pubblica Amministrazione. Tra le sue osservazioni, ci preme evidenziarne una: «Davanti alla piaga degli infortuni sul lavoro bisogna aumentare e non diminuire le ispezioni. Le assunzioni previste sono una prima, ma non esaustiva risposta al tema dei controlli». Invero, l’Inail trasmette di sé ben altra immagine, contraddistinta da un alto senso della propria missione. Che, come precisa l’attuale Presidente Fabrizio D’Ascenzo, non è quella di un mero “contabilizzatore”[6] degli incidenti sul lavoro, bensì di una parte attiva nel processo che porterà al superamento d’un fenomeno gravissimo. Come? Anche svolgendo un’attività educativa rivolta agli imprenditori, che faccia capire loro che ridurre gli infortuni conviene. Tale impostazione non nasce con D’Ascenzo, Presidente Inail dal febbraio 2024 e nominato Commissario Straordinario di questo ente un po’ di tempo prima (giugno 2023). Al riguardo, ci si può riferire a iniziative partite nel decennio scorso, come l’Istituzione, nel 2011, del Premio Imprese per la Sicurezza. Un riconoscimento nato per volontà di Inail e Confindustria, che si sono avvalse della collaborazione tecnica di APQUI (Associazione Premio Qualità Italia) e di Accredia (Ente Italiano per l’Accreditamento). Lo scopo del premio lo ricaviamo direttamente dal sito internet della Confindustria. Ovvero,«quello di valorizzare la cultura di impresa in tema di salute e sicurezza, premiando le imprese che si distinguono per l’impegno concreto e per i risultati gestionali conseguiti in materia di sicurezza». Non solo, le imprese partecipanti avranno l’opportunità di «effettuare, attraverso la compilazione di appositi questionari, un check-up approfondito sulla propria situazione in materia di sicurezza»[7]. In sostanza, riceveranno «un report concernente il proprio posizionamento rispetto alle altre partecipanti, le aree di forza e quelle di miglioramento». Il premio, poi, è diversificato «per tipologia di rischio (alto o medio-basso) e per dimensione aziendale» e si traduce in onorificenze simboliche per i vari vincitori. Ora, per le imprese più dinamiche, che colgono l’importanza delle questioni di immagine nel mercato attuale, ottenere questo riconoscimento non è poca cosa. Chi lo ha istituito muove da una logica precisa, secondo la quale le aziende non vanno colpevolizzate e neppure minacciate, bensì stimolate a fare meglio. Va detto che, spesso, esse percepiscono come una minaccia le stesse leggi. Il che, dal nostro punto di vista, può sembrare strano: in questa Repubblica non vi sono leggi sostanzialmente contrarie agli interessi padronali (al limite alcune norme riflettono parzialmente i rapporti di forza di fasi passate, meno sfavorevoli ai salariati). Per loro natura, però, gli imprenditori desiderano svolgere la propria azione nel modo più libero possibile, senza lacci di alcun tipo. Una legge pone comunque dei limiti e porta sempre con sé la possibilità, non importa se remota, di sanzioni per chi non la rispetta. Dunque, sembra sostenere l’Inail, oggi gli aspetti giuridici vanno posti tra parentesi. È meglio far capire agli imprenditori i non pochi vantaggi, di prestigio ma anche economici, che possono derivare da una maggiore attenzione alla sicurezza. A detta dell’ente in questione e dei suoi studiosi, per questa via alcune aziende potrebbero addirittura andare oltre il rispetto degli attuali dettati normativi. L’importante è che si parta da un chiaro presupposto: l’educazione e l’esempio sono più importanti della sanzione. Ironizzando un po’, si potrebbe dire che alla classe imprenditoriale si applica quella pedagogia libertaria che nelle scuole è caduta in disgrazia. Ma è più urgente rilevare che, muovendo da un’ottica siffatta, l’Inail si aspetta molto dalle certificazioni sulla sicurezza. E qui passiamo a un tema che abbiamo già affrontato in altra sede, ovvero collaborando con Emiliano Gentili (che ha scritto un libro di notevole spessore analitico e di prossima uscita: L’attacco degli imprenditori). In quella circostanza, ci siamo confrontati con un interessante volume dell’Inail: Sfide e cambiamenti per la salute e la sicurezza del lavoro nell’era digitale[8], nel quale si raccolgono gli atti di un Convegno svoltosi a Firenze nel 2018. In particolare, ci è parso rivelatore un contributo intitolato Sistemi di Gestione della salute e sicurezza sul lavoro: evoluzioni normative e dati sulla loro efficacia[9]. Vi si prendono in considerazione indicazioni provenienti dalla BSI (British Standard Institution), un «ente di normazione, certificazione e formazione internazionale»che«opera a livello globale» e che, «Da oltre 100 anni, definisce standard di eccellenza adottati in tutto il mondo»[10]. Ora, nel 1999 tale organizzazione britannica ha proposto una certificazione definita OHSA (Occupation Health Safety Assessment Series) 18001. A cosa serviva, tale strumento? È semplice: alla verifica della volontaria applicazione, da parte di un’azienda, di complessive misure volte a garantire la salute e la sicurezza di chi lavora. Invero, tale certificazione nel 2021 è stata sostituita da un’altra, ancor più riconosciuta a livello internazionale e detta ISO 45001. Quando si è svolto il Convegno già citato, vigeva ancora la precedente. Che a detta dell’Inail qualche frutto lo ha dato. Al 31 dicembre 2017 le imprese nostrane certificate erano 16809, un numero né irrilevante né entusiasmante. Il che ha spinto il nostro ente ad accentuare la sua vocazione pedagogica e a perfezionare i suoi argomenti. Puntando, ad esempio, sulle spese legali che si possono legare ai cosiddetti incidenti, così come sulla perdita di produttività dovuta alla temporanea assenza d’ogni lavoratore infortunato. Tutti discorsi volti a determinare nell’imprenditore uno scatto di mentalità, che lo porti a collocare le risorse destinate alla sicurezza non più nel capitolo dei costi indesiderati, ma in quello degli investimenti. In ogni caso, i dati allora a disposizione dell’ente attestavano, nelle aziende certificate, una riduzione degli infortuni nell’ordine del 16%. Riferendosi agli infortuni più gravi, la percentuale saliva al 40%. Non solo, il dato diventava ancor più significativo in settori particolarmente delicati come trasporti e magazzino: meno 17,5% in generale e meno 67,2% in relazione agli infortuni di maggiore gravità. Ovviamente non siamo in grado di verificare queste percentuali, ma partiamo dal presupposto che, sotto questo profilo, una realtà come l’Inail non possa permettersi di barare. La questione, però, è che il favoloso mondo delle certificazioni è frequentato soprattutto dalle imprese di maggiori dimensioni. Quelle più piccole – che in Italia sono tantissime – si muovono secondo logiche diverse. Per loro, e anche per buona parte delle aziende medie, le spese per la sicurezza rimangono un onere più che un investimento. Insomma, nella realtà non trova alcuna traduzione l’idea che le imprese virtuose facciano scuola. Anzi, può accadere ben altro: ossia che imprese definite modello, in relazione a determinate commesse, deleghino una parte del lavoro ad altre imprese, abituate a disattendere le regole più elementari. È il meccanismo perverso dei subappalti, alla base di tante tragedie degli ultimi anni e tale da vanificare lo sforzo profuso, tramite l’Inail, dallo Stato italiano. Il quale, a ben vedere, le sta inventando tutte per insegnare ai capitalisti come fare meglio il proprio mestiere. Ma quando dalla poesia, chiamiamola così, delle certificazioni e dei premi alle imprese si passa alla prosa, coincidente con la contabilizzazione dei morti e dei feriti, emerge una cruda realtà: il capitalismo italiano uccide più di altri capitalismi europei. E a fermarlo non saranno né i discorsi edificanti della più alta carica dello Stato, né i velleitari progetti educativi dell’ente presieduto da Fabrizio D’Ascenzo.

Stefano Macera – Studi politico-sindacali


NOTE

* Questo intervento è dedicato Carlo Raffone, tra i fondatori, nel 2003, del Circolo Alternativa di Classe di La Spezia. Scomparso non molti giorni fa, egli si è sempre distinto per le posizioni nitidamente internazionaliste e per lo sforzo di farle vivere e conoscere ovunque fosse possibile, valutando con scrupolo le circostanze e i luoghi in cui intervenire. Insomma, col suo esempio Carlo ha indicato una terza possibilità tra due modi della militanza altrettanto improduttivi: l’attivismo spasmodico e la tendenza chiudersi in una torre d’avorio.

[1] Messaggio del Presidente Mattarella in occasione della 74ª giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro, in http://www.quirinale.it.

[2] La rubrica è ospitata dal sito http://www.ilmanifestoinrete.it. In particolare, qui, si fa riferimento all’articolo La patente a crediti nell’edilizia: l’ennesima occasione perduta, pubblicato lo scorso 8 settembre.

[3] Si veda, tra gli altri, il comunicato Sicurezza: Cgil, su patente a crediti alcune nostre proposte recepite, ma permane giudizio negativo, pubblicato su http://www.cgil.it

[4] Veronese e Costa: Non siamo soddisfatti di questa patente a punti, in http://www.uil.it

[5] Veronese: Da relazione Inail emergono grandi criticità, in http://www.uil.it

[6] D’Ascenzo (INAIL): Radicare cultura della sicurezza, in http://www.anmil.it

[7] VIII Premio Imprese per la Sicurezza 2023, in http://www.confindustria.it.

[8] Inail, Sfide e cambiamenti per la salute e la sicurezza sul lavoro nell’era digitale. Firenze: Inail, 2018.

[9] Silvia Amatucci, Maria Ilaria Barra, Fabrizio Benedetti, Paolo Fioretti, Lucina Mercadante, Giuseppe Morinelli, Sistemi di gestione della salute e sicurezza sul lavoro: evoluzioni normative e dati sulla loro efficacia. In “Inail: op. cit.”.

[10] Abbiamo riportato, qui, una parte dell’autodescrizione della BSI (dal sito http://www.bsigroup.com/it-IT).

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