
Habemus Papam.
A poche ore dalla nomina del nuovo monarca della cristianità – ad opera di un corpo elettorale di 133 cardinali e con la partecipazione straordinaria di un Grande Elettore (lo Spirito Santo) – in molti sentono il bisogno di frenare gli “entusiasmi delle masse” sottolineando quanto l’istituzione pontificia sia reazionaria in quanto tale, perché in fondo non hanno molto altro da dire e non sanno resistere alla tentazione di esprimere ciò che non vogliono fare anche la fatica di comprendere. Altri invece, “marxisti” spregiudicati e dall’”acuto senso politico”, irritati per essere stati esclusi dal conclave, preferiscono fustigare, da pulpiti virtuosi benché virtuali, un “movimento rivoluzionario” che si è fatto sottrarre dai preti la rivendicazione della pace e si consolano del fatto che, tutto sommato, un nuovo pontefice che parla di “ponti” (che pontefice sarebbe altrimenti?) è “meno peggio” di un Papa che erige muri; che un pastore che invoca la «pace disarmata e disarmante», come Leone Magno al cospetto del re degli unni, è preferibile ad un teologo che sfoderi la spada di Cristo.
La Chiesa è un’organizzazione millenaria che, in quanto tale, deve autoconservarsi in quella che si è configurata storicamente come una società della quale deve accettare criticamente i presupposti per meglio difenderla. Radicatasi profondamente nella società divisa in classi, la Chiesa ha dovuto suo malgrado adeguarsi ad un modo di produzione che, pur perfezionando questa divisione, crea i presupposti materiali e intellettuali del suo superamento, e che nel suo progressivo imputridimento mina sempre più le tradizionali modalità di reclutamento e formazione del personale dell’istituzione ecclesiastica, dei suoi “militanti” e dei suoi “quadri”, erodendone progressivamente le secolari modalità di perpetuazione.
Se vuole esistere nella realtà capitalistica contemporanea, la Chiesa deve assolvere ad un ruolo, deve dimostrare una qualche “utilità”. Deve placare l’affannoso «sospiro della creatura oppressa», modularlo con “esercizi di respirazione” che consentano alle classi dominate di contentarsi della sempre più rarefatta aria capitalistica senza spasmi e convulsioni che possano mettere violentemente in questione le cause dell’oppressione.
Le diverse “anime” della Chiesa si confrontano e si scontrano su quello che ritengono il miglior modo di adempiere a questo compito “spirituale” e garantire la propria esistenza. Le “aperture “progressiste” rientrano in questa logica tanto quanto l’ortodossia dottrinale.
L’implicito riallacciarsi del nuovo Papa Leone alla Rerum Novarum emanata dal XIII del suo nome, più che un richiamo alla contrapposizione al socialismo (in un momento storico in cui la lotta di classe ed il socialismo sono ben lungi dal rappresentare una minaccia per l’ordine stabilito) rimandano all’attenzione che la Chiesa seppe rivolgere a quelle che allora emergevano come Cose Nuove, al riconoscimento ufficiale della loro esistenza, alla determinazione del cattolicesimo organizzato nel cercare affrontarle per non essere socialmente marginalizzato, di mutare senza perdere la propria identità.
Le “cose nuove” per la Chiesa di oggi sono la sempre meno remota minaccia di una catastrofe bellica globale, la “distruzione del creato”, l’emergere di populismi imperialistici con il loro portato di xenofobia ed intolleranza, la secolarizzazione e l’edonismo della decomposizione borghese. Questi i temi in agenda, questi i pomi della discordia tra coloro che auspicano una Chiesa che “faccia quadrato” e coloro che ritengono più opportuno seguire la corrente per non esserne travolti. Unico è lo scopo, la salvezza dell’istituzione nella continuità della sua funzione.
L’invocazione della pace universale non sfugge a questa dinamica.
Ma è concepibile una società strutturalmente conflittuale senza guerra? Può darsi in regime capitalistico una “pace disarmata”? Questo è il messaggio veicolato dall’ultimo rappresentante di Santa Madre Chiesa, in continuità con il suo predecessore recentemente scomparso.
L’aspirazione ad una «pace disarmante», nella sua concreta inapplicabilità capitalistica, non conduce piuttosto al disarmo della lotta contro un sistema che «produce la guerra come le nubi producono la pioggia»? Non conduce quindi alla conservazione dell’esistente? È possibile, da un punto di vista rivoluzionario, materialista, accogliere in una qualche misura queste invocazioni astraendole dal loro contesto sociale?
Possiamo apprezzare il messaggio e disinteressarci di chi lo veicola soltanto se non abbiamo compreso a fondo né il messaggio né il messaggero.
