LE LUNGHE OMBRE DEL MITO NELL’EPOCA DEL “POPULISMO IMPERIALISTA”

Billy The Kid

Articolo pubblicato nel n. 122 di Prospettiva Marxista, marzo 2025


Solo sotto le stelle

«Non potranno cacciarci via, né Garrett né Chisum né quel fottuto governatore».

Questa è la triade che, nel film di Sam Peckinpah del 1973[1], il giovane bandito Billy the Kid indica come il motore di una pianificata opera di soffocamento della libertà delle comunità di marginali presenti nei territori del New Mexico. Pat Garrett è lo sceriffo, ex amico di Billy divenuto tutore della legge in nome delle classi possidenti. Chisum è una figura storica divenuta il prototipo del grande allevatore e accaparratore di terreni. Il governatore è il massimo rappresentante locale di quel potere ufficiale, istituzionale, che ha sposato pienamente la causa di una civilizzazione imperniata sul binomio espropriazione-concentrazione della proprietà privata e destinata ad imporre anche in questa area dell’Ovest americano le leggi e le logiche della società borghese, contro altri concetti e pratiche di individualità e associazione.

Che il West potesse essere letto come ultima trincea di una identità americana fondata sulla libertà individuale contrapposta all’espansione omologante della società industriale, con la sua assolutizzante proprietà privata, con le leggi e i poteri che ne curano l’imposizione, non è stata certo una novità introdotta nella cultura popolare statunitense dal notevole film di Peckinpah. Basti pensare che circa un decennio prima usciva un film, diretto da David Miller e significativamente sceneggiato da Dalton Trumbo – figura simbolo degli autori di Hollywood perseguitati dalla caccia alle streghe maccartista contro le «attività antiamericane» –, distribuito in Italia con il titolo “Solo sotto le stelle”, in cui questo tema era nitidamente centrale[2]. Il protagonista, interpretato da Kirk Douglas, è un cowboy vagabondo, veterano decorato della guerra di Corea, avverso in maniera quasi ossessiva agli steccati e alle recinzioni che stanno sempre più delimitando e segmentando quelli che una volta erano i liberi territori del West, manifestazione concreta e diretta della scomparsa di un mondo in cui quest’uomo aveva definito la propria identità e del prevalere di una modernizzazione fatta di divieti e di soffocanti controlli. Il film si apre infatti proprio con l’immagine del cowboy che taglia il filo spinato che gli impedisce di cavalcare liberamente per le pianure del Sud-Ovest. Una forza quasi programmatica ha una sua affermazione: «Un uomo del West ama le terre libere. Ciò significa che deve odiare le recinzioni. E più recinzioni ci sono e più le odia». La rivendicazione dell’appartenenza ad una civiltà libera da usurpazioni degli spazi naturali come fondamento della più vera, tipica identità americana.

È un fatto straordinariamente significativo come nel momento storico attuale, un’altra produzione cinematografica che tratta tematiche a suo modo western e la loro relazione con il significato dell’essere americani, abbia compiuto un rovesciamento pressoché totale di prospettiva. “Yellowstone” è una serie televisiva, trasmessa negli Stati Uniti tra il 2018 e il 2024 dall’emittente Paramount Network, che ha registrato ascolti record (alcune puntate hanno superato i 12 milioni di spettatori). Un successo che ha favorito la produzione di prequel e spin-off. Il personaggio simbolo della serie è John Dutton, interpretato da Kevin Costner, grande proprietario terriero e allevatore di bestiame, patriarca e despota locale in lotta feroce con investitori immobiliari e con i nativi americani che reclamano le terre un tempo strappate loro. «In un minuto e venticinque secondi i fondamentali di Yellowstone sono annunciati, piantati come le recinzioni, onnipresenti, che ossessionano John Dutton e anticipano la chiave del racconto: la proprietà privata»[3]. Il “vero” americano è passato dall’altra parte della recinzione. È il proprietario divorato dall’ansia di preservare la terra che ha delimitato, che non è più libera, ma che nella sua percezione è libera solo se è definitivamente e incontestabilmente sua. Il ranch Dutton, il più grande del Montana, è «un’immensa prigione»[4]. Figli e dipendenti hanno accettato un senso di appartenenza alla proprietà dinastica che si esprime in forme e riti che al cowboy del film del 1962 – e non solo a lui – sarebbero apparsi allucinanti: «Una proprietà che non si limita alla sola terra e al solo bestiame, ma che si allarga anche ai figli, che governa con pugno di ferro e marchia a fuoco come giovani vitelli. La proprietà è per John Dutton il mezzo per ottenere ed esercitare il potere. La proprietà è la sua identità. Il concetto di proprietà non è solo tipicamente americano, ma è drammaticamente identitario per tutto il mondo occidentale – e ritorna “la roba” verghiana»[5]. Nel film di Peckinpah del 1973 la pratica di marchiare gli esseri umani non era il rito identitario, di avvenuta e consensuale acquisizione al “regno” dei Dutton, ma l’infame pretesa degli sgherri dei latifondisti di lasciare il segno del potere di cui sono il braccio armato sui corpi dei ribelli, dei refrattari all’assimilazione, vinti e uccisi (pretesa a cui Billy the Kid replica facendo fuoco e sterminando il gruppo di sicari). Indicativo di quanto sia schiacciante e morboso il concetto di proprietà che attraversa l’identità di John Dutton è l’incipit del settimo episodio di “Yellowstone”: il latifondista scova un gruppo di turisti asiatici entrati nelle sue proprietà, «“Vedi quella recinzione? È mia. Quell’altra fottuta recinzione laggiù, è mia anche quella. Tutto quello che sta su questo lato della montagna, fino a qui, è tutto mio. Questa è proprietà privata. Proprietà privata”, e mostra il distintivo di Commissario per il bestiame. La guida traduce e un turista asiatico controbatte fervidamente che non può essere vero, non crede a John Dutton; è sbagliato che un uomo solo possegga tutto questo e che dovrebbe invece condividerlo. Al che, John Dutton, con due colpi di fucile sparati per aria fa scappare i turisti sul pullman e sentenzia: “Questa è l’America. Qui la terra non si condivide”»[6].

È significativo come anche nelle critiche più attente all’ambiguità, ai lati oscuri del personaggio interpretato da Costner tenda a ricorrere comunque il riconoscimento di questa figura quale archetipo dell’essere americano, una matrice primordiale dell’identità statunitense. A confrontare meglio i vari passaggi, gli sviluppi contraddittori e conflittuali della storia americana, la travagliata e combattuta rielaborazione della rappresentazione di questo divenire e dei suoi esiti, dobbiamo invece concludere che siamo di fronte all’ennesima riproposizione di una formula ideologica di straordinario successo nell’opera di costruzione di una lettura identitaria funzionale agli interessi della classe dominante: l’americano “vero”, “originario”, istintivamente e naturalmente riconosciutosi nell’idea, nell’esercizio, nella strenua difesa di una proprietà privata minacciata in realtà solo da forze “aliene” (come possono esserlo anche i nativi americani, talune componenti afroamericane o le espressioni di poteri economici ibridi, meticci, cosmopoliti, “altro” rispetto al “vero” americano) provenienti dal di fuori del cosmo sociale statunitense, di per sé perfettamente conciliato intorno a questo unanime culto proprietario (e la dice purtroppo lunga della fase storica che attraversa oggi la lotta di classe su scala internazionale il fatto che, dopo le varie Red Scare, plasmate sulle terribili fisionomie di mestatori e terroristi europei, tedeschi, slavi, italiani, dopo i profili da incubo degli agenti bolscevichi, si debba oggi, pur di riproporre lo schema, fare ricorso allo stereotipo dei presunti istinti collettivistici della comitiva turistica asiatica…). Il punto è che questa immagine non è un dato storico inconfutabile, incontestabile nella sua lineare valenza fondativa, non è il semplice riflesso della realtà della storia americana. È piuttosto un mito. Un mito, certo, che è diventato parte integrante e fattore operante del divenire del tessuto sociale statunitense, ma che ha dovuto costantemente scontarsi con altri miti, non di meno legati ad elementi storici reali. Un mito che ha cercato costantemente di espellere queste rappresentazioni altre e questi fatti non conformi dal senso di appartenenza alla comunità nazionale di cui è stato veicolo, espressione e promotore. John Dutton può oggi essere definito “libertario” (anche se non disdegna di intrallazzare con le aborrite autorità, con le disprezzate istituzioni, fino a diventare egli stesso governatore). Anche “Jack” Burns, il cowboy interpretato da Kirk Douglas, era “libertario” (per altro, come ennesimo e clamoroso segno di una “americanità” libertaria profondamente diversa da quella che siamo abituati oggi ad associare agli umori di massa del trumpismo, questo personaggio si fa arrestare per andare in soccorso di un amico, imprigionato per aver aiutato degli immigrati clandestini ad entrare negli Stati Uniti). Quest’ultimo però è libertario perché rifiuta l’appropriazione, la recinzione degli spazi naturali, mentre il primo è libertario perché pretende il monopolio, senza vincoli e freni, di questa appropriazione. Una volta che si è compreso come questa rivendicazione proprietaria, padronale, è nei fatti il perno, l’autentica stella polare della concezione libertaria di una figura come John Dutton, anche le relazioni con le istituzioni, l’utilizzo dei poteri statuali, fino al diretto coinvolgimento nel sistema politico, diventano a loro modo coerenti. Il nervo sottaciuto ma scoperto di questa formula è la sorte, il destino, la realizzazione nel “sogno americano” dei “non proprietari” (“marchiati e contenti” può essere davvero una soluzione valida per ogni fase storica, eternizzabile?), questione invece centrale nel West del cowboy del 1962 e del Billy the Kid del 1973.

«Una terribile semplicità»

Appare così molto più evidente come la rappresentazione del West e dei suoi eroi ed antieroi sia diventata, nel corso della storia americana, il crogiolo, il terreno di confronto e di scontro, il laboratorio ideologico per lo sviluppo di modelli identitari, lo schermo su cui riflettere e rielaborare le immagini sorte dagli urti, dalle contraddizioni, dalle tensioni della società americana nel suo complesso e, non di rado, a partire dai suoi epicentri distanti (ora geograficamente ora temporalmente, sovente in entrambi i sensi) dallo spazio storico della frontiera. In questo processo una figura storica come Billy the Kid è potuta diventare, nelle sue trasformazioni, un sensore sensibilissimo, un barometro di estrema precisione degli orientamenti prevalenti nella società americana, delle sue spinte profonde, dell’incessante divenire dei suoi equilibri sociali, politici e culturali. La potenza della sua proiezione letteraria, cinematografica e culturale nel tempo è una chiarissima manifestazione dell’immane forza della dimensione industriale del capitalismo statunitense. Forza che si è espressa anche nella dimensione di massa, su una scala probabilmente storicamente inedita, dell’industria narrativa e di intrattenimento di largo consumo, capace di marciare attraverso l’editoria popolare a basso costo (i cosiddetti dime novel), i fumetti, il cinema e capace di estendersi, nella sua fase di ascesa e di esuberanza senza confronto con altre realtà internazionali, dalla seconda metà dell’Ottocento fino ad almeno i due decenni seguiti al secondo conflitto mondiale. Basti pensare a come proprio Billy the Kid, dal percorso biografico assai breve e oscuro, in realtà estremamente marginale e dal peso storico minimo rispetto alle forze più determinanti dei processi in cui era inserito, sia stato oggetto di una rielaborazione costruita attraverso una mole impressionante di narrazioni: tra romanzi, biografie, opere teatrali e film, i titoli dedicati a lui risultavano, nel 1965, oltre 800[7]. Una seconda vita letteraria e cinematografica, resa possibile dalla forza e dalla vitalità della società capitalistica americana, che risulta, in maniera quasi sbalorditiva, sproporzionata rispetto al dato storico verificabile. Altri contesti nazionali e capitalistici hanno fornito una riprova, in senso opposto, della funzione determinante della caratura capitalistica americana nel determinare la nascita e lo sviluppo di moderne mitologie come quella del Kid. Si pensi, ad esempio, al ben altro spessore, anche criminale, di una figura come Carmine Crocco, quasi contemporaneo del giovane fuorilegge americano, leader della rivolta contadina nel Meridione d’Italia, arrivato a guidare una formazione armata di duemila uomini e ad assumere di fatto il controllo di diversi centri abitati lucani e dell’Irpinia. La sua dimensione letteraria o cinematografica non è nemmeno lontanamente comparabile con quella assunta da Billy the Kid. Questo giovane uomo del West diventa, già con la sua morte, il profilo evanescente e malleabile su cui possono esercitarsi le pressioni di una società capitalistica in vigoroso e drammaticamente contraddittorio sviluppo. L’illuminante ricostruzione di Bruno Cartosio ci consente di gettare uno sguardo sui mutevoli esiti scaturiti dalla lunga storia della rielaborazione dell’immagine di Billy the Kid, parte della più grande storia della lotta per imporre una identità ideologica prevalente, dominante dell’essere americano. Agli inizi del Novecento autori come Emerson Hough veicolavano con prosa veemente l’interpretazione delle dinamiche del West come specchio delle sfide e delle più acute criticità della società statunitense e al contempo come risorse, come sorgente per la forza della “vera” identità americana, alle prese con minacciose infiltrazioni etniche, culturali e politiche e con pericolose contaminazioni. Pat Garrett diventava così l’alfiere della civiltà anglosassone nei territori ancora da redimere e il modello dei vigilantes avrebbe dovuto essere importato nelle metropoli, divenute habitat di una classe operaia immigrata e turbolenta: «Una dozzina di tutori della legge del vecchio modello riporterebbero la pace e riempirebbero un cimitero in un giorno, in occasione di uno sciopero»[8]. Richard Slotkin, studioso della mitologia del West e dei miti nazionali americani, espliciterà l’interpretazione dell’utilizzo dell’epica della frontiera in chiave di costruzione di codici ideologici funzionali all’esercizio del potere di classe: «La storia dell’assoggettamento degli indiani può diventare metafora delle lotte metropolitane che hanno come fine l’assoggettamento dei lavoratori alle discipline della produzione industriale», una sovrapposizione metaforica che consente di ridurre «la complessità morale e politica della vita contemporanea a una terribile semplicità: la solidarietà razziale contro i primitivi scuri di pelle prende il posto delle divisioni di classe»[9]. Parole che, dal nostro punto di vista, suonano oggi strepitosamente, aspramente attuali.

Lo sviluppo del mito di Billy the Kid nell’era del consumo di massa della letteratura e del cinema è parte di questa storia, rientra nelle coordinate di un processo che ha sempre risentito dell’alternarsi di momenti di cristallizzazione degli equilibri sociali e politici americani e di fasi di più aperta conflittualità e di fermento, di stagnazione se non di regresso della vita politica culturale e di diffusione di un atteggiamento critico e di spinte alla sperimentazione. Billy viene ucciso nel 1881 a Fort Sumner, nel New Mexico – un territorio che non poté diventare Stato fino al 1912 a causa della prevalenza al suo interno di indiani e mexicanos – e la stampa newyorchese si affretta a ricondurre le sue origini a Brooklyn, area urbana chiaramente identificabile come insediamento di classe operaia e di immigrati o a sottolineare l’immigrazione della sua famiglia dall’Irlanda (altre ricostruzioni gli attribuiscono sangue indiano). Ferma è comunque la riprovazione nei confronti di un fuorilegge che, per usare un’espressione estremamente eloquente circa i valori e i criteri di quel mondo dell’informazione, capace di esporre con la massima disinvoltura una aperta distinzione tra uomini e sotto-uomini, avrebbe «ucciso ventuno uomini e un gran numero di messicani e indiani»[10]. Insistito è poi l’accostamento denigratorio del Kid agli ambienti e agli stili di vita della popolazione ispanica. Ma la storia della fortuna e delle trasformazioni dell’immagine del giovane pistolero non si è arrestata certo a questo primo stadio. Sono seguiti cicli di rivalutazione della sua figura, di attribuzione ad essa di caratteri romantici. Cinematograficamente uno snodo significativo, che non corrisponde però alla prima manifestazione di una lettura comprensiva e accattivante della figura di Billy the Kid, è rappresentato dal film di Arthur Penn del 1958: “The Left Handed Gun” (in italiano “Furia selvaggia”) con Paul Newman[11].  A testimonianza di come la figura del Kid abbia continuato ad esprimere i mutamenti del quadro politico americano si possono confrontare i caratteri del protagonista del film di Peckinpah del 1973, interpretato da Kris Kristofferson, le condizioni e le ragioni della lotta sostenuta da lui e dalla sua banda (una sorta di comune armata), con quelli dei protagonisti di due film incentrati sulla stessa vicenda e datati fine anni ’80 e inizio anni ’90, “Young Guns” (1988) e “Young Guns II” (1990). L’insofferenza verso l’espansione oppressiva del potere dei grandi allevatori e di un sistema politico e giuridico teso a schiacciare la comunità insubordinata di cui fa parte Billy è stato sostituito da un molto più sfumato anelito alla giustizia e da una ben più insistita sottolineatura dell’esuberanza di una sorta di boy band composta da varie tipizzazioni giovanili immerse in un passaggio all’età adulta in chiave western non privo di interessanti suggestioni ma che non evita diversi stereotipi, sballo di rito compreso.  

Con “Yellowstone” si è tornati, sia pure con toni più cupi e meno “positivisti”, a quella «forza americana» che Hough indicava nel «burbero, autosuffciente cowboy»? Certamente un necessario approccio critico a qualsiasi rielaborazione di questo mito richiede la consapevolezza storica della condizione reale del mandriano del West – «un lavoratore salariato itinerante, supersfruttato e malpagato, senza casa, sicurezze o prospettive», come lo definisce lo studioso britannico David Hamilton Murdoch, un proletario a cui per giunta era sostanzialmente preclusa quella mobilità sociale verso l’alto costitutiva dell’american dream – e della necessità di distinguere questa figura sociale da quella dei grandi allevatori. Il quadro storico restituitoci da Cartosio con abbondanza di fonti ci mostra come il John Dutton di “Yellowstone”, quale incarnazione di un’antica, tradizionale “americanità”, abbia invece alle sue spalle un albero genealogico sociale assai meno lineare e integro di quanto la sua rocciosa maschera televisiva intenda oggi suggerire. Già negli anni ’80 dell’Ottocento i grandi allevamenti erano realtà finanziarie complesse e spesso caratterizzate da proprietà assenteiste. Il potere di questi grandi proprietari si sviluppò attraverso pratiche come lo sfruttamento delle terre demaniali, operazioni truffaldine per accaparrarsi i terreni, come l’utilizzo dei cowboy come beneficiari fittizi dell’assegnazione di terre in concessione dallo Stato, fino all’aperta violenza contro coloni, piccoli allevatori e agricoltori. Drammaticamente, vergognosamente esemplare è il caso che si verificò nel Wyoming nel 1889, quando un gruppo di potenti allevatori linciò Ella Watson e James Averell, piccoli proprietari che avevano cercato di avvalersi delle leggi sugli insediamenti per avviare una propria attività di allevamento. L’impiccagione di una donna avrebbe potuto costituire un danno per l’onorabilità dei suoi altolocati assassini, rappresentando un atto ingiustificabile nel codice etico verso cui anche i grandi allevatori dovevano mostrarsi rispettosi. La forza economica e sociale dell’associazione dei grandi allevatori, il suo controllo della stampa locale, permisero, quindi, di organizzare una sistematica opera di demolizione della reputazione della donna vittima del linciaggio, che venne dipinta come prostituta e razziatrice di bestiame. «Alla vita di Ella Watson furono attribuiti tratti ed episodi del tutto inventati o appartenenti ad altre donne di malaffare. D’allora in poi, per quasi un secolo, Ella Watson divenne la disprezzabile fuorilegge “Cattle Kate”»[12]

Oggi dobbiamo capire le condizioni sociali, le ragioni politiche che fanno sì che centinaia di migliaia di spettatori di estrazione operaia e proletaria si possano identificare in un grande allevatore che marchia a fuoco i propri dipendenti e che difende con ogni mezzo le immense proprietà, gli straordinari spazi naturali usurpati dalla sua famiglia con la violenza, l’inganno e la corruzione, mettendoli al servizio esclusivo del proprio privato profitto. Occorre capire quale concetto, quale idea, quale traduzione reale di “americanità” avvertano in comune con questo soggetto sociale. È necessario capire tanto gli elementi, i fattori di forza di questa identificazione, di questo sentimento di vicinanza interclassista (ancora una volta l’interclassismo si conferma come una declinazione ideologica organicamente funzionale al domino di classe) quanto quelli che possono essere e rivelarsi come i suoi aspetti di fragilità, di più forte e percepibile contraddittorietà.

Misurandoci con il tema del mutamento radicale, nel corso dei decenni e delle fasi storiche, di tematiche, di figure di riferimento veicolate da sistemi di elaborazione e trasmissione ideologica capaci di raggiungere milioni di persone all’interno della realtà nazionale di quello che è ancora il più agguerrito imperialismo al mondo, stiamo affrontando il nodo dei processi che hanno portato alle condizioni sociali, di classe, che hanno reso possibile l’odierno torreggiare della formula del “populismo imperialista” negli Stati Uniti. Non siamo di fronte al prodotto “naturale” di una primigenia, monolitica identità americana. È la risultante di una complessa relazione, di una interazione tra dinamiche della società americana e i loro nessi determinanti con gli sviluppi della dimensione imperialistica globale. Questa formula di controllo delle masse proletarie, di compattamento del “fronte interno” di classe per sostenere al meglio i futuri urti della contesa imperialistica, va criticata alle fondamenta, va smontata nei suoi meccanismi più essenziali e nelle sue logiche più profonde – senza al contempo fare alcuna concessione, senza accordare alcuna tregua d’armi politica alle altre componenti, alle altre formule del fronte borghese – ma per fare questo bisogna capirla il più lucidamente, coerentemente possibile. Se sapremo portare avanti questo lavoro di analisi, di critica, di denuncia, anche gli aberranti frutti del “populismo imperialista” potranno fornire riscontri, elementi di riflessione e crescita per i militanti e per chi si avvicina all’impegno militante all’interno e contro una società capitalistica che sta trascinando l’umanità in sempre più spaventosi regressi.     

Marcello Ingrao


NOTE

[1] “Pat Garrett and Billy The Kid”, regia di Sam Peckinpah, USA 1973. Il tema della lotta di un uomo del “vecchio” West contro l’avanzata di una società moderna alienante e spietata che sta subentrando al mondo arcaico, duro e violento ma meno disumanizzante e ancora capace di esprimere un’epica, ricorre nell’opera del regista californiano. Si pensi a “The Ballad of Cable Hogue” (“La ballata di Cable Hogue”, 1970) o al celeberrimo “The Wild Bunch” (“Il mucchio selvaggio”, 1969). 

[2] “Lonely Are the Brave”, regia di David Miller, USA 1962. La trama mostra, per altro, delle evidenti assonanze con quella del film “Rambo” (1982) di Ted Kotcheff, tratto dal romanzo First Blood (titolo originale anche del film) di David Morrell. Lo svolgersi successivo della saga cinematografica del reduce del Vietnam John Rambo ha spesso portato ad una generale e fuorviante percezione – appiattita sui caratteri revanscisti e ultrapatriottici dell’eroe reaganiano – di una prima opera che invece, pur non senza ambiguità, proponeva temi complessi come le contraddizioni del reducismo e l’attitudine ferocemente repressiva di una certa “sana” America rurale e di provincia nei confronti dell’individuo non integrato, percepito e rifiutato come “altro”, come il portatore di una minaccia aliena radicatissima nell’ideologia conservatrice statunitense. Per quanto riguarda la questione dei reduci di guerra, del loro reinserimento nella società e delle loro condizioni fisiche e psicologiche, non si può non ricordare il romanzo scritto da Dalton Trumbo, Johnny Got His Gun, da cui lo stesso Trumbo trasse l’omonimo film del 1971 (distribuito in Italia con il titolo “E Johnny prese il fucile”), l’unica prova di regia del celebre sceneggiatore, un’opera di denuncia degli effetti della guerra di tale radicalità che ancora oggi appare, in alcune sue scene, non facilmente sostenibile.

[3] Marzia Gandolfi, “Yellowstone: l’uomo, l’animale e la macchina”, FilmTv (sito), 3 marzo 2023.

[4] Ibidem. Significativo è come lo stesso concetto sia già presente nella battuta pronunciata da un membro della banda di Billy the Kid nel film di Peckinpah, quando indica il destino dei territori su cui va estendendosi la grande proprietà con le sue leggi come «una grande prigione all’aria aperta» («one big open jug»).

[5] “Yellowstone, il Grande Romanzo Americano”, FilmTv (sito), 30 dicembre 2018.

[6] Ibidem.

[7] Bruno Cartosio, Verso Ovest. Storia e mitologia del Far West, Feltrinelli, Milano 2020.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] L’importantissima filmografia di Arthur Penn comprende titoli come “The Miracle Worker” del 1962 (“Anna dei miracoli”), trasposizione cinematografica dell’opera teatrale di William Gibson e ispirata alla biografia di Helen Keller e alla straordinaria relazione pedagogica di questa ragazza sordo-cieca con la sua insegnante Anne Sullivan. La parabola dell’immagine pubblica di Helen Keller è esemplificativa della strumentalità e dell’ipocrisia con cui la stampa borghese utilizza e, all’occorrenza rigetta e abbandona, quelle che promuove come storie e figure edificanti. La Keller, prima persona cieca e sorda a frequentare un college statunitense laureandosi, celebrata come simbolo di riscatto e di elevate qualità morali e intellettuali, avvicinatasi poi al movimento socialista americano e schieratasi con gli Industrial Workers of the World (IWW), si vedrà attribuire queste scelte politiche all’influsso negativo della propria disabilità da quegli stessi ambienti giornalistici che l’avevano prima tanto omaggiata. Alcune opere di Penn come “Bonnie and Clyde” del 1967 (in italiano “Gangster Story”) e “Little Big Man” del 1970 (“Il piccolo grande uomo”) sono considerate pietre miliari della “New Hollywood”.

[12] Bruno Cartosio, op.cit. Alla vicenda di Ella Watson e James Averell e alla successiva “guerra della contea di Johnson” tra grandi allevatori e piccoli agricoltori e allevatori – uno scontro che vide la cavalleria inviata dal presidente Benjamin Harrison intervenire in soccorso dei grandi allevatori e del loro esercito privato di assassini, in grave difficoltà di fronte alla difesa armata dei “piccoli” – si è liberamente ispirato il film “Heaven’s Gate” di Michael Cimino del 1980 (“I cancelli del cielo”). Quest’opera monumentale è diventata famosa soprattutto perché, con il suo disastroso esito al botteghino, avrebbe contribuito alla fine della stagione cinematografica della “New Hollywood”.

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