Bruno Maffi – PREFAZIONE A “JOHN BROWN. LA SCHIAVITÙ È UNO STATO DI GUERRA”. Parte I

Prefazione all’antologia di testi di John Brown “La schiavitù è uno stato di guerra”, Il Saggiatore, 1 gennaio 1962. Trascrizione di Lebadkin.

Nell’ambito di un tentativo di approfondimento della storia delle tensioni razziali negli USA, riportiamo un interessante saggio del 1962 del rivoluzionario internazionalista Bruno Maffi, dedicato all’analisi del contesto socio-economico che condusse gli Stati Uniti alla Guerra Civile del 1861-1865, nonché alla luminosa figura del combattente antischiavista John Brown, che, come scrive Maffi, seppe afferrare “il dilemma schiavitù-libertà dal corno […] della forza” senza dimenticare che i neri non dovevano essere tanto l’oggetto, quanto il soggetto della propria emancipazione. Una lezione che è il lascito di John Brown al proletariato di oggi, nero, bianco o d’altri colori.

***

Non si può certo affermare che la “grande storiografia” anglosassone sia, non diciamo tenera, ma neppure generosa, con John Brown. A oltre un secolo dalla sua esecuzione a Charlestown, i negri possono ancora intonare le note dell’inno:

John Brown’s body lies muldering in the grave John Brown’s soul thru’ the world is marching on

e qualche studioso raccoglierne amorosamente i cimeli o rievocarne diligentemente le imprese; ma “l’alta cultura” in genere lo dipinge, nella migliore delle ipotesi, come un pittoresco avventuriero del West; in un’ipotesi meno benevola, come uno dei mille aspiranti-coloni che dell’antischiavismo fecero un piedistallo ai loro interessi di border-men, o che rivestirono di un esaltato manto religioso la sete di conquista violenta di un podere, quando non dilapidarono i fondi messi a loro disposizione da abolizionisti e filantropi; nell’ipotesi peggiore, come un pericoloso caposcarico con forti venature di follia ereditaria, che occupa un posto nella storia dell’Ottocento americano e quindi anche mondiale solo per aver precipitato coi suoi colpi di testa lo scoppio di una guerra “non necessaria”. Per distruggere un mito se ne crea un altro: si abbatte l’angelo e al suo posto si erige un diavolo dal piede forcuto.

L’accanirsi contro il “mito”, salvo a ristabilirlo capovolto, non è un fatto nuovo nella ricostruzione “scientifica” del passato, in specie di quell’Ottocento che di figure simili abbonda: figure di spregiatori della legge e del costume, della diplomazia pacifica e del realismo intelligente (o codardo), che servirono bensì di lievito e impulso alle rivoluzioni politiche e sociali e alle guerre “legittime”, ma che la grassa borghesia vittoriosa si affrettò a buttare da parte non appena ebbero cessato di contribuire al suo – questo sì “necessario” – trionfo, e di cui, anche a distanza di molti decenni, non ama veder risorgere lo spettro. In comune con gli uomini della frontiera, John Brown ha senza dubbio il gusto dell’avventura spericolata e un irresistibile prurito alle mani – ma non più di tanti contemporanei e un po’ come, fatte le debite proporzioni, il Garibaldi della Pampa argentina. Nel suo odio della schiavitù negra si fondevano certo una quantità di motivi discordanti; ma è quello che si può dire delle più celebrate figure della Guerra Civile, le quali, fra l’altro, scesero in lizza – per lo più tardivamente – per la causa dei pochi, di quelli che poi, a guerra finita e a ricostruzione iniziata, si avventarono sulle floride terre del Sud, del Nord e dell’Ovest come la settima piaga d’Egitto, senza aver mai combattuto, avendo lasciato combattere i “paranoici”, mentre l’Old John lottò, senza risparmio né rimorsi, per un insieme di cause ch’erano quelle dell’uomo comune in generale, di pelle sia nera che bianca. E concediamogli pure l’esaltazione religiosa e un rametto di follia: ma, quanto alla prima, sfidiamo chiunque a non trovarla in tutti i rappresentanti qualificati dell’epoca, Lincoln compreso (per tacere dei suoi successori alla White House), e a dimostrare che gli accenti biblici, mistici e perfino apocalittici erano sinceri e genuini in questi e artificiosi in quello; circa il secondo – a parte ogni riserva di fatto – non occorre il rinvio a Erasmo per rammentare che di “folli” è lastricata la via della storia che cammina, e di “savi” quella della storia che batte il passo o retrocede.

Guerra “non necessaria”, dicono i sapienti nel cui schema mentale la storia si inquadra alla sola condizione di scorrere sui pacifici binari delle soluzioni concordate, dell’equilibrio mercantile fra domanda ed offerta. Ma non così la vissero e la sentirono i contemporanei, e non diciamo soltanto i poeti e i prosatori – da Whittier a Whitman, da Emerson a Thoreau, da Hawthorne a Melville, per citarne solo alcuni – ai quali un rametto di follia, sia pure benigna, si concede sempre insieme alle foglie di alloro; bensì le figure di primo piano nell’Olimpo politico, parlamentare e militare, del Nord e del Sud negli anni ’40, ’50 e ’60.

Anche se non condotta a regola d’arte da politici e militari autorizzati, diciamo così, dall’alta cultura, la guerra era in atto da molto tempo prima che gli eserciti di Grant e di Lee, di Abramo Lincoln e di Jefferson Davis si schierassero in campo: infuriava almeno da quando era apparso che una barriera non facile da abbattere divideva gli interessi economici, sociali e politici del Nord da quelli del Sud; da quando la grassa borghesia dei più evoluti Stati atlantici aveva chiesto e ottenuto (1824, 1828) la protezione doganale, e i liberistici (strani scherzi, Madama Libertà!) Stati del Sud – Carolina in testa – avevano risposto dichiarando nulli i deliberati del Congresso e minacciando, già allora, la separazione (e solo la formale promessa – più tardi non mantenuta dai whig – di una progressiva riduzione dei dazi di entrata delle merci li aveva momentaneamente placati); da quando, chiuso il ciclo popolare-radicale del jacksonismo (comunque vadano interpretati i disegni del tanto discusso Presidente), l’ago della bilancia politica era tornato a spostarsi vero il conservatorismo dei democratici (strani scherzi ancora!) filoschiavisti, rimettendo in forse la sopravvivenza di uno Stato centrale, i diritti non solo rivendicati dai negri ma posseduti dai bianchi “uomini comuni”, la libertà di accesso alle vergini terre dischiuse lungo una mobile ed elastica “frontiera”, l’indipendenza del colono medio e piccolo dal peso schiacciante della monocultura, e del cittadino in genere dal potere inappellabile dello sbirro e del giudice.

Guerra “non necessaria”? Ma già del 1819 sono le parole di James Tallmadge:

“Se l’Unione deve dissolversi, così sia! Se deve scoppiare la Guerra civile che tanti minacciano, posso soltanto dire: che venga!”

e appena del 1854-’57 i motti Impending Crisis e Revolution the only Remedy for Slavery, scelti da Hinton R. Helper e da Stephen S. Foster come titoli di libri largamente diffusi; mentre agli attacchi “paranoici” di scissionismo sudista (vecchi, come abbiamo detto, di decenni) rispondevano le velleità scissionistiche dei garrisoniani del Nord. Erano cinquant’anni che la tensione Nord-Sud non concedeva respiro agli Stati Uniti: nel 1820 il “compromesso del Missouri” aveva fissato al 36° 30’ latitudine nord il limite settentrionale della schiavitù e l’aveva esclusa dal West, cioè le aveva dato sanzione giuridica a mezzogiorno della linea Mason-Dixon e, ammettendola per eccezione nel Missouri – a settentrione di questa, – aveva aperto una breccia alla sua espansione oltre un confine non solo incerto, ma convenzionale e cartaceo; negli anni successivi, in forza di altrettanti compromessi che denunziavano, appunto perché tali, l’esistenza di uno stato di guerra guerreggiata e meglio si sarebbero dovuti definire “armistizi”, un numero pari di Stati “liberi” e “schiavisti” era via via stato ammesso nell’Unione; ma l’espediente, lungi dall’attenuare il dissidio, l’aveva aggravato, perché l’equilibrio era bensì mantenuto nel Senato, ma rotto nella Camera dei Rappresentanti, dove ai primi, in quanto più popolosi, era assicurata la maggioranza e le leggi votate in una delle due assemblee (come fu il caso del “Proviso Wilmot” del 1846 sull’esclusione della schiavitù dai territori ex-messicani) potevano incontrare il veto dell’altra nelle questioni più spinose, nei problemi più controversi.

Guerra dunque in parlamento, dove da un lato i Sumner, gli Smith, i Wade, lo stesso John Q. Adams, rovesciavano torrenti d’infuocata oratoria sul crimine e l’onta della “peculiare istituzione”, e dall’altro – con linguaggio variamente modificato dai Calhoun, dai Douglas, dai Mason – Jefferson Davis proclamava “il diritto sia morale che giuridico all’istituto della schiavitù africana”, e tutti insieme si appellavano, a torto e a ragione, alle ambiguità della carta costituzionale. Ma soprattutto guerra nelle piazze e nelle strade, teatri non soltanto di rumorosi comizi, ma di cruenti linciaggi; guerra nei Territori di recente acquisto, dove, pendendo l’ammissione come Stati nel vincolo federativo, l’assassinio a freddo dei partigiani dei due schieramenti trovava perfino la sanzione del pulpito; guerra negli Stati di antica origine in cui, come nella Virginia, non si era ancora spenta l’eco delle prime sommosse della gente di colore;[1] guerra fra moderati ed estremisti delle due correnti nel Nord e nel Sud, raggruppati in sètte e associazioni segrete dai nomi solo esteriormente pittoreschi (“le logge azzurre”, “i mangiatori di fuoco”); guerra al vertice del potere centrale, il cui timone, già tenuto dalle energiche mani di Jackson, scivola a poco a poco in mani più deboli, fino a passare, negli anni ’50, in quelle di Pierce, di Fillmore, di Buchanan, in un crescendo di simpatie per lo schiavismo – altra faccia di una gelosa conservazione di interessi acquisiti.

Ora, concediamo pure che, fra grassi borghesi terrieri e grossi industriali e mercanti delle due aree ormai in guerra non dichiarata, un ennesimo accordo e compromesso fosse possibile – e infatti era nell’aria dopo il ’50, come dimostrano sia il crescente disinteresse del pubblico generico per i grandi problemi, sia la graduale ma incessante avanzata dell’offensiva o controffensiva sudista, quella che Marx chiamerà senza perifrasi “una guerra non di difesa, ma di conquista, di estensione e perpetuazione della schiavitù”, nel senso più lato; ma era pure in gioco l’esistenza dei “piccoli”, i coloni affamati di terra libera, gli artigiani e i piccolo-borghesi assetati di lavoro libero, i molti soffocati dall’ingordigia dei pochi nelle città sempre più tentacolari e nelle campagne solo formalmente aperte a chiunque, gli immigrati e i reietti di un’Europa in preda alla carestia e alla controrivoluzione, gli ultimi eredi del radicalismo politico e del puritanismo religioso; e, con gli interessi e le ideologie di questi (se l’intesa si fosse concretata) sarebbero finiti nel nulla anche gli eterni princìpi tanto cari alla storiografia ufficiale e all’alta e media cultura. Così la guerra divenne – se mette conto di polemizzare coi teorici di quello che poteva accadere e non accadde – davvero “necessaria”; e prima ancora furono necessari, anche se vani, storicamente utopistici, e magari pazzeschi (quanti episodi del nostro Risorgimento non lo furono?) i raid del tipo Harper’s Ferry; tanto necessari, che uno dei sostenitori della semi-demenza di John Brown e della non-necessità dello scontro finale dedica all’ultima impresa dell’Old John lo stesso spazio che a una regolare battaglia della Guerra di secessione o, come è più esatto chiamarla, della Guerra civile.

Tutto questo abbiamo premesso non per sopravvalutare la figura e l’opera del nostro personaggio, ma per collocarlo nella sua giusta luce storica, la sola che permetta di capire anche il “mito”, il suo peso e la sua funzione. La vitalità di John Brown non è nei suoi programmi (confusi, passionali) e nemmeno nei suoi fatti d’armi (modesti e allora comuni nel quadro di una quasi permanente guerriglia), ma nella sua qualità di specchio dell’epoca, nella generosità dei fini e nell’utopismo dell’azione, nella gracilità dei mezzi usati e nella spavalda irriverenza – diciamo pure incoscienza – delle proclamazioni e delle gesta; insomma, nella sensibilizzazione di uno stato d’animo diffuso, ma che in lui e in un pugno di suoi fedeli diventa offerta della vita e sacrificio personale nell’atto stesso che i più cedono allo scoramento e alle suggestioni del quieto vivere. Non c’è mito che non sia stato realtà, e, qualche volta, realtà umanissima. Questo è, non primo e non ultimo caso, John Brown.

Perciò, in questo militante di una buona causa le agitate vicende di un’epoca turbinosa si riflettono come in un diagramma musicale, ma sempre una nota più in su del comune, finché nel suo processo al tribunale di Charlestown l’urgenza del dilemma storico trova nelle sue parole l’espressione più semplice e vigorosa che un uomo del tempo ne abbia mai dato. Nato nel 1800 a Torrington, nel Connecticut; cresciuto dal 1805 al 1826 a Hudson nell’Ohio; operante come allevatore e conciapelli in Pennsylvania dal 1826 al 1833 e poi di nuovo nell’Ohio; associatosi nel 1844 a un grosso allevatore di pecore e mercante di lane ad Akron dopo un primo e clamoroso fallimento; fino al 1847 circa John Brown non ha nulla che permetta di distinguerlo dai molti cercatori di fortuna del Middle West: è il tipo comune del self-made man, del pioniere in terre relativamente nuove, del piccolo mercante di ventura, del buon padre di famiglia (sposatosi due volte, e con diciassette figli da mantenere), del congregazionalista convinto, dell’uomo d’affari magari un po’ troppo intraprendente, e quindi di rado fortunato. Lo assilla il problema della schiavitù? non più di quanto, come problema essenzialmente morale e religioso, assilli una cerchia dei suoi contemporanei: per onesta filantropia, per amore cristiano, per simpatia verso gli umili e gli oppressi. Siamo nel periodo classico dell’”abolizionismo” garrisoniano; di violenta denunzia morale, non di attacco politico; di appassionata oratoria, non ancora – se non in episodi circoscritti – di scontro armato. È del 21 novembre 1834 la vaga proposta contenuta in una lettera di John al fratello Frederick di aprire una scuola per negri; sono del 1837 l’intervento insieme col padre a un meeting in memoria di Lovejoy e il romantico giuramento di dedicare la vita alla lotta contro la schiavitù; e v’è il perdurante ricordo del bimbo negro conosciuto da piccolo, dello staffile padronale bagnato del suo sangue. Un clima da Capanna dello zio Tom avanti lettera: né meno né più.

Ma, nel 1846, i soci Perkins e Brown decidono di aprire a Springfield un depisito ed emporio di lana greggia: il primo curerà gli allevamenti nell’Ohio, il secondo lo smercio del prodotto negli Stati della costa atlantica. Un episodio come un altro, nella vita di un mercante di ventura; qualcosa di più per John Brown. Nei dintorni abita, proprio in quegli anni, Frederick Douglass, il campione negro della battaglia antischiavista; e il Massachussetts è il centro dell’abolizionismo morale e del radicalismo politico e, insieme, il rifugio preferito degli schiavi evasi dal Sud. non inganni il fatto che, negli articoli pubblicati nel 1848 da un oscuro John Brown sul periodico nuovayorkese “Ram’s Horn” col titolo Sambo’s Mistakes, l’accento cade sulla generica predicazione della solidarietà fra uomini di colore e sull’insegnamento di quelle virtù personali e civili in forza delle quali soltanto essi potranno emanciparsi non solo dalle catene servili, ma dalla caritatevole tutela dei bianchi (soprattutto non scimmiottarli nei gusti, nelle abitudini, nei vizi!); giacché il colloquio con Douglass, forse avvenuto un anno prima, che noi riportiamo, mostra come il futuro “eroe di Harper’s Ferry” afferri già allora il dilemma schiavitù-libertà dal corno a lui più congeniale della forza, e ne anticipi la soluzione – discutibile senza dubbio, ma troppo lucida nei dettagli per essere figlia di un “pazzo” – sul piano della strategia militare, come sbocco finale di una guerriglia a base di distaccamenti volanti e di audaci colpi di mano, molto alla “western”. L’afflato morale e religioso c’è, e vivissimo; ma è già un’arma e un grido di battaglia.

Frederick Douglass, ca. 1879. George K. Warren. (National Archives Gift Collection) Exact Date Shot Unknown

Nel 1849, chiuso l’emporio e deposito di lane gregge a Springfield, John Brown si trasferisce a North Elba, nello Stato di New York, dove uno dei massimi calibri dell’abolizionismo “politico”, Gerrit Smith, ha destinato 120mila acri di terre sue all’istituzione di una colonia di negri liberi o fuggiaschi, e gli offre di acquistarne 244. Affare subito concluso: John Brown vi si stabilirà per “aiutare i negri col precetto e l’esempio”. Parla soltanto in lui il filantropo puritano, il predicatore morale? Forse all’inizio; non certo man mano che un vincolo profondo di solidarietà militante si crea fra il nuovo venuto e i membri della strana colonia; non certo da quando, dopo la nuova legge sugli schiavi fuggiaschi votata nel 1850 – che commina pene severe a chi li aiuta o ne nasconde l’esistenza, e impone ai funzionari federali di arrestarli su semplice denunzia di chi se ne dichiari proprietario (poco importa che lo sia in realtà) – e dopo i primi drammatici episodi di arresti e trafugamenti che inveleniscono la polemica antischiavista e appassionano l’opinione pubblica della Nuova Inghilterra, il suo abolizionismo si tinge di colori assai diversi da quelli dei tribunali ufficiali.

Invero, le Parole di Consiglio redatte da John Brown nel 1851 per la “Lega dei Gileaditi” e i suoi trenta membri di pelle nera, formano già la trama di un’organizzazione armata di battaglia, di cui i negri non sono più l’oggetto, ma il soggetto: loro dev’essere l’iniziativa, loro la pressione sui timidi e molto spesso infidi amici bianchi (“parlano, parlano!” dirà qualche anno dopo l’Old John, con almeno un po’ d’ingiustizia, degli stessi campioni dell’antischiavismo morale e politico), loro il compito di organizzare, se non ancora l’offesa, la difesa – e la miglior difesa è l’attacco…

Le vie della storia sono – come si vuole che siano quelle della Provvidenza – molte e, per l’individuo, imperscrutabili. Nel 1851, scioltasi la colonia di Gerrit Smith, John torna ad Akron; nel 1854, il rapporto di affari fra i due soci si rompe e la grossa famiglia si stabilisce là dove il cuore del “Vecchio” è rimasto, fra “i suoi negri” a North Elba e dintorni; ma nell’autunno dello stesso anno, spinti da un desiderio di avventura in cui la fame di terra degli aspiranti-coloni si unisce alla generosa febbre di combattere per uno “Stato libero”, tre dei suoi figli prendono la via del Kansas, e dalla piccola farm creata nel “deserto” insistono che il padre li raggiunga. Tradire gli impegni assunti verso i negri del Massachussetts o dello Stato di New York? Una breve crisi di coscienza, per John Brown; rapide consultazioni con G. Smith e F. Douglass; e nel settembre 1855 John, un quarto figlio e un genero, partono per il Territorio di recente costituito. Non come semplici coloni; la New England Emigrant Aid Society li ha riforniti di mezzi e sementi, ma il Kansas Committee (in particolare quelli che il Furnas chiama “i Sei”, descrivendoli come le eminenze grigie delle imprese dell’Old John) di armi e munizioni. È qui e a questo punto che nasce il John Brown della storia e, sia pure, della leggenda.

Per chi fosse portato a incarnare nelle parole e negli atti le punte estreme di uno stato d’animo collettivo e più ancora di un corso storico impersonale e inesorabile, il Kansas era, proprio in quegli anni, la terra di elezione. Nel 1850, in forza dell’ennesimo compromesso fra le parti, la California era stata accolta come nuovo Stato con una costituzione antischiavista; il New Mexico e l’Utah senza alcuna allusione alla schiavitù (un altro modo per autorizzarli, se così piaceva loro, ad introdurla), mentre il Congresso votava il durissimo “Fugitive Slave Act” di cui si è già detto. Allo stesso modo, nel 1854, la neo-conquistata Riserva Indiana è divisa con salomonica decisione – secondo la proposta del sen. Stephen A. Douglas – in due Territori, il Kansas e il Nebraska, suscettibile il secondo di darsi una costituzione libera in quanto esposto all’influenza del confinante Iowa, il primo di accettare la schiavitù in quanto soggetto alla pressione opposta del confinante Missouri. Ma salomonica la decisione è solo in apparenza: in effetti, essa segna una decisa vittoria del Sud, anzitutto perché il Kansas-Nebraska Bill dichiara “nullo e inoperante” il compromesso del Missouri e quindi la rigida linea di demarcazione fra schiavismo e non, e sancisce il principio dell’incostituzionalità dell’intervento del Congresso in materia d’introduzione del regime servile nei nuovi Territori dell’Unione; in secondo luogo perché, appellandosi alla “sovranità popolare” per imporre – caso non nuovo nella storia della democrazia – soluzioni impopolari, o, come si disse, alla “squatters sovereignity” per ottenere sistemazioni sfavorevoli agli “squatters” – i piccoli coloni insediatisi sulle terre nuove – il Douglas riesce a varare la tesi che dell’introduzione o meno del regime schiavista debbano essere soli giudici, attraverso il “responso dell’urna”, i residenti, non il potere centrale; ed è ovvio che, in terre dai labili confini dove l’autorità federale – quand’anche lo volesse, e negli anni ’50 lo vuole sempre meno – non ha modo di farsi valere, non è difficile manipolare le elezioni e mettere insieme legislature fasulle (“Bogus Legislatures”), sia intimidendo e tiranneggiando i cittadini locali (altro che “guerra non necessaria”!), sia rimpinguando le liste elettorali con orde volanti di “banditi di confine” (“Border Rumans”) provenienti dal Missouri e perfino dal Solido Sud. Siamo, non dimentichiamolo, nel decennio di offensiva e di avanzata schiavista alla periferia come al centro dell’Unione.

È qui, dunque, che si gioca il destino degli Stati Uniti; è qui che John Brown, senza perdere l’afflato morale e religioso-umanitario della sua giovinezza, si qualifica – egli, non schiavo e non negro – come aspirante Spartaco nella “guerra servile del secolo XIX”.

Ha inizio, prima ancora del suo arrivo nel Kansas, una corsa col tempo: nella primavera 1855, vincono i fautori dell’introduzione della schiavitù nel Territorio; orde piovute dal Missouri impongono il voto di leggi che escludono gli antischiavisti dai pubblici uffici e vietano perfino di discutere la costituzionalità della “peculiare istituzione” qui e altrove; l’autorità federale centrale capitola – di buon grado. Poco dopo, i Free-State men, organizzati in vera e propria milizia volontaria, passano al contrattacco, e nell’autunno ottengono il voto di una costituzione anti-slavery, in pratica, il Territorio si divide in due aree inconciliabili sotto due distinti governi, a Lawrence o a Topeka quello antischiavista, a Leavenworth o ad Atchison quello filo-schiavista; nel dicembre scoppia una guerra locale, che un compromesso provvisorio (si parla anzi di “trattato”, vedi nota 8 alla nostra scelta dei brani) momentaneamente conclude; nel maggio dell’anno dopo, la cittadina di Lawrence è saccheggiata e semidistrutta dai “border ruffians” del Missouri, ed è qui che si collocano i primi episodi violenti dei quali John Brown è protagonista insieme ai figli, al genero e a un pugno di fedeli (Potawatomie, Osawatomie, Black Jack Point; vedi  note 9 e 10), mentre attorno a lui si forma il primo nucleo di quella che sarà, nel 1858, la “Shubel Morgan’s Company”. Nell’autunno, egli e i suoi sono costretti a riparare nell’Ohio: il Kansas si avvia verso la libertà; essi verso la guerriglia permanente, e la morte.

Continua…

John Brown poco prima della sua esecuzione, il 2 dicembre 1859.

[1] È dell’agosto 1831 la sfortunata rivolta di schiavi guidata da Nat Turner in Virginia.

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