Roman Rosdolsky – LA LEGGE DELLA CADUTA DEL SAGGIO DI PROFITTO E LA TENDENZA DEL CAPITALISMO ALLA CATASTROFE

Riproponiamo, per il suo interesse, un testo dello studioso marxista Roman Rosdolsky, pubblicato nel volume Genesi e struttura del “Capitale” di Marx, Laterza, Bari, 1971.

Un’altra questione fondamentale dell’economia, la cui soluzione si trova già nel manoscritto del 1857-58 [i Grundrisse, Ndr.], è quella della caduta tendenziale del saggio di profitto.

Anche questa soluzione è nata nel corso dell’analisi critica della teoria ricardiana. Come tutti i classici, anche Ricardo sottolinea che all’accumulazione del capitale si accompagna “la tendenza naturale del profitto a cadere”[1]. Ma qual è l’origine di questa tendenza?

E’ chiaro che Ricardo non poteva appagarsi della spiegazione data da Adam Smith alla diminuzione del saggio di profitto. “A. Smith”, si legge nel Rohentwurf, “ha spiegato la caduta del saggio di profitto con l’aumento del capitale dovuto alla concorrenza reciproca dei capitali. A ciò gli è stato opposto da parte di Ricardo che la concorrenza, se può ridurre i profitti ad un livello medio nelle diverse branche d’industria, livellandone il saggio, non può tuttavia abbassare questo stesso saggio medio”. La tesi di Smith, continua Marx, “in tanto è esatta, in quanto è solo nella concorrenza – nell’azione di capitale su capitale – che le leggi immanenti al capitale, le sue tendenze, si realizzano.[2] Ma è falsa nel senso in cui egli la intende, come se cioè la concorrenza imponesse al capitale leggi estrinseche, leggi introdotte dall’esterno, che non sono sue leggi intrinseche. La concorrenza può abbassare permanentemente il saggio di profitto in tutte le branche d’industrie, e cioè il saggio medio di profitto, solo se e in quanto è concepibile una caduta generale e permanente, agente come legge, del saggio di profitto anche prima della concorrenza e senza riguardo alla concorrenza”. Voler spiegare le leggi interne del capitale “semplicemente con la concorrenza significa ammettere di non capirle”[3].

Ma che cos’è, secondo lo stesso Ricardo, la legge interna dalla quale scaturirebbe la tendenza alla caduta del saggio di profitto?

Ricordiamoci che Ricardo non conosce né la differenza fra capitale costante e capitale variabile[4], né quella fra saggio di profitto e saggio di plusvalore, e che inoltre, secondo la sua teoria, profitti e salari possono aumentare e diminuire solo in ragione inversa. Di qui la tesi che “nessuna accumulazione di capitale può abbassare durevolmente il profitto, se non è data una causa duratura dell’aumento dei salari”[5] Ma in quali condizioni il salario (che in Ricardo resta, di norma, eguale al prezzo dei mezzi di sussistenza necessari all’operaio) può aumentare durevolmente in valore (non in valore d’uso), cosicché la parte di giornata lavorativa nella quale l’operaio lavora per sé cresca, e l’altra, durante la quale egli lavora gratis per il capitalista, diminuisca? Evidentemente, questo “è possibile soltanto se aumenta il valore dei mezzi di sussistenza in cui viene speso il suo salario. Ma il valore delle merci industriali, in seguito allo sviluppo delle forze produttive del lavoro, diminuisce costantemente. La cosa può dunque spiegarsi soltanto col fatto che l’elemento principale dei mezzi di sussistenza – il cibo – sale costantemente in valore[6]. Ciò deriva (secondo Ricardo) “dal fatto che l’agricoltura diventa sempre meno produttiva […] La continua caduta del profitto è quindi legata al continuo aumento del saggio della rendita fondiaria”[7].

Ne segue che la spiegazione ricardiana della legge della diminuzione del saggio di profitto poggia su due presupposti: 1) la tesi malthusiana della fertilità decrescente dell’agricoltura, dell’inaridimento progressivo del suolo ad essa sottoposto, 2) la “falsa ipotesi che il saggio di profitto sia eguale al saggio del plusvalore relativo[8], e che esso non possa aumentare o diminuire che in ragione inversa al salario”[9].

Notoriamente, Marx respinge la soluzione ricardiana del problema. Non possiamo qui soffermarci sulle molteplici ragioni da lui adottate per smentirla[10]. In questa sede importa unicamente constatare che la sua errata teoria del profitto impedì a Ricardo di “spiegare uno dei fenomeni più impressionanti della moderna produzione, cioè la caduta tendenziale del saggio di profitto”[11]. “Siccome Ricardo […] confonde semplicemente plusvalore e profitto, e il plusvalore può diminuire costantemente, cioè tendenzialmente, solo se diminuisce il rapporto fra pluslavoro e lavoro necessario, il lavoro cioè richiesto per la riproduzione della capacità lavorativa, ma ciò è possibile solo se decresce la produttività del lavoro, lo stesso Ricardo allora suppone che la forza produttiva del lavoro, mentre nella industria aumenta con l’accumulazione del capitale, diminuisca nell’agricoltura. Dall’economia, egli si rifugia nella chimica organica”[12].

Ma come ha risolto Marx questa questione? Già nella I sezione del Rohentwurf, in riferimento ad uno degli esempi numerici coi quali egli cercava di illustrare la differenza fra saggio di profitto e saggio di plusvalore, Marx si chiede: “Ma non c’è qualcosa di esatto, da un altro punto di vista, in queste cifre?”. Il plusvalore non può “aumentare sebbene diminuisca in rapporto all’intero capitale, e dunque diminuisca il cosiddetto saggio di profitto?”[13]. E più innanzi: “Tutta la faccenda si risolve semplicemente così, che il saggio di profitto non ha in vista il plusvalore assoluto, ma il plusvalore in rapporto al capitale impiegato, e che l’aumento della produttività è accompagnato dalla diminuzione della parte di capitale che rappresenta la sussistenza, rispetto a quella che rappresenta il capitale invariabile”, cioè costante[14]; “e quindi, se diminuisce il rapporto tra il lavoro totale impiegato e il capitale […] diminuisce necessariamente anche la parte di lavoro che si presenta come pluslavoro e plusvalore”[15]. In altri termini, poiché il saggio di profitto non è affatto identico al saggio di plusvalore, la diminuzione del capitale variabile in rapporto al capitale costante causata dal continuo rivoluzionamento della tecnica di produzione, dall’incremento della produttività del lavoro, deve anche esprimersi in un saggio di profitto calante. (Conclusione che deriva, come Marx sottolinea in una lettera ad Engels del 30 aprile 1868, semplicemente dalla legge, sviluppata nell’analisi del processo di produzione, “dell’aumento crescente della parte costante del capitale in rapporto alla parte variabile”, dunque dalla composizione organica crescente del capitale[16]). “L’aumento della produttività del lavoro è sinonimo di a) aumento del plusvalore relativo, o del tempo di pluslavoro relativo che l’operaio cede al capitale, b) diminuzione del tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza lavoro, c) diminuzione della parte di capitale che in generale si scambia contro lavoro vivo, rispetto alle parti di esso che partecipano al processo di produzione come lavoro oggettivato e valore presupposto. Il saggio di profitto è perciò inversamente proporzionale all’aumento del plusvalore relativo o del plusvalore relativo, allo sviluppo delle forze produttive e alla grandezza del capitale impiegato nella produzione sotto forma di capitale costante”.[17] “Nel medesimo rapporto dunque in cui nel processo di produzione il capitale in quanto capitale occupa uno spazio maggiore in proporzione al lavoro immediato, quanto più cioè cresce il plusvalore relativo – ossia la forza creatrice di valore del capitale –, tanto più il saggio di profitto cade”.[18]

Certo, nella realtà, la caduta del saggio di profitto ha luogo solo “tendenzialmente, come tutte le leggi economiche”[19], e viene ostacolato da numerose “cause antagonistiche”. “Nel movimento sviluppato del capitale”, leggiamo nel Rohentwurf, “esistono fattori che arrestano questo stesso movimento”, cioè la caduta del saggio di profitto, “in modo diverso che con crisi. Così, per esempio, la continua svalorizzazione di una parte del capitale esistente; la trasformazione di una gran parte di capitale in capitale fisso che non funge da agente diretto della produzione; lo sperpero improduttivo di una parte notevole del capitale, ecc. […] La caduta” (del saggio di profitto) “viene anche frenata mediante creazione di nuovi rami di produzione nei quali occorre più lavoro immediato rispetto al capitale, o in cui la produttività del lavoro […] non è ancora sviluppata. (E anche attraverso i monopoli) […] Che inoltre la caduta del saggio di profitto possa essere arrestata eliminando le detrazioni sul profitto, per esempio mediante riduzione delle imposte, diminuzione della rendita fondiaria ecc., questa circostanza esula dall’attuale contesto malgrado la sua importanza pratica, giacché si tratta egualmente di porzioni di profitto sotto altro nome e fatte proprie da persone diverse dai capitalisti stessi”[20].

Un’analisi ulteriore mostrerebbe che i fattori ostacolanti la caduta del saggio di profitto, qui elencati a puro titolo di esempio, corrispondono quasi sempre, per il loro contenuto, a quelli riferiti nel Libro III del Capitale. Ma l’importante per noi è che Marx, in origine, considerasse l’esame di questi fattori come estraneo all’analisi del “capitale in generale”. Perciò nel successivo manoscritto delle Theorien si legge: “Il processo della caduta del saggio di profitto diventerebbe ben presto una faccenda seria per la produzione capitalistica se, accanto alla forza centripeta, non agissero tendenze paralizzanti – di cui tratteremo nel capitolo sulla concorrenza dei capitali – operanti continuamente in senso centrifugo”[21]. Solo nel Libro III del Capitale – in connessione al cambiamento di piano dell’opera – un capitolo particolare è dedicato a queste tendenze paralizzanti. (Cap. XIV: Cause antagonistiche). Ma anche qui non viene considerato un fattore importante quale la svalorizzazione del capitale in seguito a crisi, perché “un’ulteriore analisi delle crisi”, come Marx sottolinea ripetutamente nel Capitale[22] e nelle Teorie[23] “esorbita dalla nostra trattazione”.

Abbiamo visto che, in antitesi a Ricardo, il quale attribuiva la vera causa della caduta tendenziale del saggio di profitto alla natura[24], Marx sostiene che tale caduta può spiegarsi unicamente col fatto che, “sebbene l’operaio sia sfruttato di più o continui ad essere sfruttato allo stesso modo, diminuisce relativamente la parte di capitale che si scambia contro lavoro vivo”[25]. Il capitale, tuttavia, può – entro certi limiti – compensare la caduta del saggio di profitto con la massa crescente del profitto stesso. Come si legge nel Rohentwurf: “Il profitto lordo, [la massa del profitto] ossia il plusvalore considerato al di fuori della sua relazione formale, non come proporzione ma come semplice grandezza di valore senza rapporto a un’altra, crescerà in media non in ragione del saggio di profitto, ma in ragione della grandezza del capitale. Se dunque il saggio di profitto è inversamente proporzionale al valore del capitale, la massa (o somma) del profitto sarà direttamente proporzionale ad esso. Senonché anche questa proposizione è vera soltanto per un limitato grado di sviluppo della produttività del capitale o del lavoro. Un capitale di 100 con un profitto del 10% dà una massa di profitto inferiore che un capitale di 1000 con un profitto del 2%. Nel primo caso la somma è 10, nel secondo 20, ossia il profitto lordo del capitale più grande è due volte quello del capitale 10 volte più piccolo, benché il saggio di profitto del più piccolo sia 5 volte maggiore di quello del più grande. Ma se il profitto del capitale più grande fosse soltanto l’1%, allora la massa del profitto sarebbe 10 come per il capitale 10 volte più piccolo, perché il saggio di profitto è diminuito nella medesima proporzione della sua grandezza. Se il saggio di profitto, per il capitale di 1000, fosse soltanto ½%, allora la somma del profitto sarebbe soltanto la metà di quella del capitale più piccolo, soltanto 5, perché il saggio di profitto è 20 volte minore[26]. In termini generali, dunque: se il saggio di profitto per il capitale più grande diminuisce, ma non proporzionalmente alla sua grandezza, aumenta il profitto lordo [la massa del profitto], quantunque diminuisca il saggio di profitto. Se il saggio di profitto diminuisce proporzionalmente alla sua grandezza, allora il profitto lordo rimane lo stesso di quello del capitale più piccolo; rimane stazionario. Se il saggio di profitto diminuisce in proporzione superiore all’aumento della sua grandezza, allora il profitto lordo del capitale più grande, paragonato al più piccolo, diminuisce in misura pari alla diminuzione del saggio di profitto”.[27]

La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, osserva Marx a questo proposito, “è sotto ogni rispetto la legge più importante della moderna economia politica […], che, ad onta della sua semplicità, non è stata finora mai compresa e tanto meno espressa consapevolmente […] Dal punto di vista storico, è la legge più importante”[28]. Essa infatti dice che “la produttività materiale già esistente, già elaborata, esistente sotto forma di capitale fisso, e il potenziale scientifico, e la popolazione ecc., insomma tutte le condizioni della […] riproduzione della ricchezza, vale a dire del ricco sviluppo dell’individuo sociale –, che dunque lo sviluppo lo sviluppo delle forze produttive provocato dal capitale stesso nel suo sviluppo storico a un certo punto sopprime l’autovalorizzazione del capitale, invece di generarla[29]. Al di là di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diventa un ostacolo per il capitale, ossia il rapporto capitalistico diventa un ostacolo per lo sviluppo delle forze produttive del lavoro. A questo punto, il capitale, ossia il lavoro salariato, si pone, rispetto allo sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produttive, nello stesso rapporto del sistema corporativo, della servitù della gleba, della schiavitù, e viene, come ceppo al piede, necessariamente eliminato. L’ultima forma servile che l’attività umana assume, quella del lavoro salariato da una parte e del capitale dall’altra, subisce con ciò una muta radicale, e questa stessa muta è il risultato del modo di produzione corrispondente al capitale; le condizioni materiali e spirituali della negazione del lavoro salariato e del capitale, che a loro volta sono già la negazione di forme antecedenti di produzione sociale non libera, sono esse stesse risultati del processo di produzione capitalistico. Nelle contraddizioni, nelle crisi, nelle convulsioni acute, si esprime la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione finora avuti. La violenta distruzione di capitale, non per circostanze esterne ad esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più incisiva in cui si notifica il suo fallimento e la necessità di far posto ad uno stadio superiore della produzione sociale”[30].

Con questa prognosi “catastrofica”[31] termina sostanzialmente la III sezione del Rohentwurf.


[1]Ricardo, op. cit., pp. 66-7.

[2] Cfr. supra le pp. 148 sgg.

[3] K. Marx, Grundrisse, II, p. 464.

[4] “Perciò anche egli non tocca mai e neppure conosce le differenze della composizione organica entro il vero e proprio processo di produzione” (K. Marx, Teorie sul plusvalore, II, p. 93).

[5] Ricardo, op. cit., p. 174 (cfr. Teorie sul plusvalore, II, p. 492-3).

[6] Ricardo, op. cit., p. 66: “ […] La teoria che i profitti dipendono da alti o bassi salari, i salari dal prezzo dei mezzi di sussistenza necessari, e il prezzo di questi essenzialmente dal prezzo dei generi alimentari, perché tutti glia altri articoli richiesti possono essere aumentati quasi senza limiti” Cfr. anche ivi, p. 178: “Si può aggiungere che la sola causa adeguata e permanente dell’aumento dei salari è la difficoltà crescente di procurare cibo e generi necessari al numero crescente di lavoratori”.

[7] Teorie sul plusvalore, II, p. 467. “Alla caduta tendenziale del saggio di profitto corrisponde quindi per lui un aumento nominale del salario e una aumento reale della rendita fondiaria” (Grundrisse, II, p. 464. Cfr. anche ivi, p. 471).

[8] Marx parla qui del “plusvalore relativo”, perché Ricardo “suppone costante la giornata lavorativa” e quindi non considera che le variazioni nel plusvalore relativo (Teorie sul plusvalore, II, pp. 466-7).

[9] Ivi, p. 460.

[10] Il lettore le troverà non solo nei Grundrisse  (I, pp. 328, 395: II, pp. 201-4, 256-7, 463-8, e 470), ma anche nelle Teorie sul plusvalore (II, pp. 466-8, 492-3, 495-8, 597-602; III, pp. 116-7 e 373) e nel Kapital (Libro III, pp. 312-3).

[11] Grundrisse, II, p. 203.

[12] Ivi, II, p. 467.

[13] Ivi, I, pp. 388 e 389.

[14] Sulle iniziali oscillazioni del Rohentwurf in merito ai termini di capitale “costante” e “variabile”, cfr. più sopra, pp. 414-5.

[15] Grundrisse,, II, p. 203.

[16] K. Marx, Carteggio, vol. V, pp. 181-183.

[17] K. Marx, Grundrisse, II, p. 203.

[18] Ibidem, II, p. 458.

[19] K. Marx, Il Capitale, Libro II, p. 217. Cfr, ibid.: “In teoria si postula che le leggi del modo di produzione capitalistico si sviluppino senza interferenze. Nella vita reale v’è solo un’approssimazione, e questa è tanto maggiore quanto maggiore è il grado di sviluppo del modo di produzione capitalistico, e quanto più esso è riuscito a liberarsi da contaminazioni e interferenze con i residui di situazioni economiche anteriori”.

[20] K. Marx, Grundrisse, II, p. 462.

[21] K. Marx, Teorie sul plusvalore, III, p. 334.

[22] K. Marx, Il Capitale, Libro III, pp. 432-433 e 966-967.

[23] K. Marx, Teorie sul plusvalore, II, pp. 493 e 508-509.

[24] K. Marx, Il Capitale, Libro III, pp. 283-285.

[25] K. Marx, Teorie sul plusvalore, III, p. 260.

[26] Marx qui ripete in fondo l’argomento di Ricardo, anche citato nel Rohentwurf (II, pp. 470-471) e nel Kapital (III, pp. 262-263), dalle Works, pp. 68-69.

[27] K. Marx, Grundrisse, II, pp. 459-460.

[28] Cfr. Il Capitale, Libro III, p. 261, (“Il mistero a svelare il quale tutta l’economia politica si adopera dal tempo di Ricardo”), e la lettera ad Engels del 30-IV-1868 (“pons asini di tutta l’economia passata”, Carteggio, vol. V, p. 185).

[29] Poiché la caduta del saggio di profitto, si legge nello stesso passo del Rohentwurf, “è sinonimo di diminuzione relativa del lavoro immediato rispetto alla grandezza del lavoro oggettivato, che esso riproduce e crea nuovamente, il capitale farà tutti i tentativi possibili per arrestare la piccolezza del rapporto fra lavoro vivo e grandezza del capitale in generale, e quindi anche tra il plusvalore, quando viene espresso come profitto, e il capitale presupposto, riducendo la parte assegnata al lavoro necessario e espandendo ancor più la quantità di pluslavoro rispetto all’intero lavoro impiegato. Perciò il massimo sviluppo della produttività insieme alla massima espansione della ricchezza esistente coinciderà col deprezzamento del capitale, la degradazione del lavoratore e il più radicale esaurimento della sua forza vitale”. (Grundrisse, II, p. 462).

[30] K. Marx, Grundrisse, II, p. 461. Un passo parallelo in inglese [p. 462] dice: “Queste contraddizioni conducono naturalmente a esplosioni, cataclismi, crisi, in cui una momentanea sospensione di ogni lavoro e la distruzione di una gran parte di capitale lo riducono violentemente al punto in cui può tirare avanti […] senza commettere suicidio […] Ma queste catastrofi regolarmente ricorrenti conducono alla loro ripetizione su scala più alta, e infine al crollo violento del capitale”.

[NDR: Senza nulla togliere alla traduzione italiana del testo di Rosdolsky, ci sembra più aderente al brano originale di Marx, scritto in inglese, la seguente traduzione tratta dall’edizione dei Grundrisse della Manifestolibri (2012): “Queste contraddizioni conducono a esplosioni, cataclismi, crisi, in cui una momentanea sospensione del lavoro e la distruzione di una gran parte del capitale riconducono violentemente quest’ultimo al punto in cui può nuovamente procedere […] senza suicidarsi. Tuttavia queste catastrofi che ricorrono regolarmente, conducono alla loro ripetizione su scala più larga e, infine, al rovesciamento violento del capitale”. Nell’originale in inglese Marx scrive “violent overthrow”, rovesciamento violento, il che riteniamo più consono alla concezione marxista della catastrofe o crollo del capitalismo che si concretizza nella rivoluzione proletaria. Cfr. nota seguente].

[31] La tesi che Marx non abbia mai formulato una “teoria della catastrofe” è da ricondursi in primo luogo all’interpretazione in senso revisionistico della sua opera economica prima e dopo la Prima guerra mondiale. Sotto questo aspetto, non si apprezzeranno mai abbastanza i contributi teorici di Rosa Luxemburg e Henryk Grossmann.

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