
Condividiamo sul nostro sito la seconda parte di un interessante saggio su “Esigenze borghesi e previdenza sociale” ad opera dei compagni che fanno riferimento al periodico Prospettiva Marxista (https://www.prospettivamarxista.org/Sommario_Marzo_2021.htm). Il saggio ripercorre le tappe, nella società capitalistica degli ultimi due secoli, dello sviluppo del cosiddetto “stato sociale”, evidenziandone la funzionalità alle esigenze economiche e politiche della classe dominante. In particolare l’articolo che riproduciamo fornisce un’ampia documentazione e, a nostro parere, una validissima interpretazione del processo che portò alla nascita della previdenza sociale nella Germania degli ultimi decenni del XIX secolo, suffragando in maniera del tutto indipendente alcuni passaggi del nostro recente lavoro su “Il marxismo e la questione fiscale” (scaricabile nella nostra pagina Articoli e in quella Pubblicazioni), in particolare nei passaggi in cui evidenziamo la debolezza di certe tesi che vedono in molte riforme strutturali dello Stato borghese – funzionali alla valorizzazione del capitale – una “resa a discrezione” dovuta all’avanzata del movimento operaio, o anche soltanto una serie di concessioni strappate alla borghesia esclusivamente perché “spaventata” dalla pressione della classe operaia o di altri generici “sfruttati”.
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Si è visto nel precedente articolo di questa serie come, al procedere dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, fossero cresciuti nei Paesi europei il peso e la concentrazione di un nuovo tipo di povertà, tipicamente capitalistica: quella causata dall’impossibilità – temporanea o definitiva – per una parte del proletariato di vendere la propria forza lavoro al capitale, a causa di vecchiaia, malattie o infortuni, o semplicemente in seguito ad una diminuzione della domanda di forza lavoro. L’ampliarsi di questo fenomeno sociale fu progressivamente avvertito come una minaccia da una parte della borghesia ottocentesca, e nel corso del secolo si sperimentarono molteplici misure previdenziali e assistenziali per porre un limite alla precarietà economica del proletariato.
Com’è noto, il salto di qualità nella gestione della povertà operaia avvenne in Germania negli anni ‘80 dell’Ottocento: al termine di un lungo e complesso iter legislativo, il parlamento tedesco introdusse uno schema di assicurazioni obbligatorie per diverse categorie di lavoratori contro il rischio di malattia (1883), di infortunio sul luogo di lavoro (1884) ed infine di vecchiaia, invalidità e morte del capofamiglia (1889)[1]. Il nuovo sistema segnò il passaggio da una gestione assistenziale della povertà operaia – basata su una combinazione di carità legale, carità privata, associazionismo operaio, paternalismo industriale e assicurazioni volontarie – alla moderna gestione previdenziale, basata sull’obbligo assicurativo e sul coinvolgimento dello Stato. Nei decenni successivi, il “modello bismarckiano” – così chiamato per il ruolo centrale svolto dal cancelliere tedesco nella sua definizione – fu ripreso e adottato nella maggior parte degli Stati europei.
Può essere interessante soffermarsi sulle spinte sociali che portarono all’introduzione del nuovo sistema in Germania, e sul motivo per cui esso si affermò in questo Paese prima che altrove. È significativo, infatti, che la moderna previdenza sociale sia nata in un Paese late-comer (oltre che di recentissima unificazione politica), con un livello di industrializzazione inferiore non solo a quello dell’Inghilterra, ma anche a quello del Belgio, della Svizzera, della Francia e dell’Olanda; non si può quindi interpretare l’innovazione tedesca semplicemente come una “risposta” ad un determinato livello di industrializzazione o urbanizzazione, e ai problemi sociali che ne derivano.
Né la si può interpretare come una reazione ad una richiesta rivendicativa dal basso: la posizione prevalente nel movimento operaio organizzato in Germania, così come quella nelle trade unions inglesi, era infatti di assoluta opposizione ad un intervento dello Stato in materia previdenziale. Ciò per due ordini di ragioni: in primis, l’assicurazione obbligatoria gestita dallo Stato avrebbe ridotto l’influenza economica e politica delle associazioni puramente operaie di previdenza (come le società di mutuo soccorso); inoltre, l’intervento dello Stato “in favore” del proletariato avrebbe mistificato il reale rapporto tra Stato e capitale, favorendo il passaggio degli operai a posizioni riformiste.
Nello spiegare la svolta tedesca degli anni ‘80 la storiografia ha abbracciato invece, quasi unanimemente, un’interpretazione che pone l’accento sul ruolo di Otto von Bismarck. L’introduzione della previdenza obbligatoria è attribuita quasi esclusivamente all’azione politica del cancelliere, ed è interpretata come parte integrante della sua strategia di protezione e rafforzamento del neonato Stato tedesco. Di fronte all’ampliarsi delle rivendicazioni operaie ed alla crescita del peso politico della socialdemocrazia tedesca, la previdenza avrebbe rappresentato una concessione al movimento operaio per contenerne le spinte eversive, veicolando l’idea che lo Stato fosse in grado di svolgere un ruolo di mediazione tra gli interessi borghesi e quelli proletari. Insomma, Bismarck avrebbe concepito le leggi previdenziali proprio per lo stesso motivo per cui il movimento operaio organizzato dell’epoca e la socialdemocrazia tedesca vi si opponevano strenuamente: l’intento di portare i lavoratori tedeschi su posizioni riformiste. La stessa divisione dell’onere contributivo tra lavoratore assicurato, datore di lavoro e Stato avrebbe dovuto evocare un modello di coesione e armonia sociale che, nelle speranze di Bismarck, avrebbe smorzato le spinte rivoluzionarie. La legislazione previdenziale è quindi vista come complementare rispetto alla legislazione anti-socialista degli stessi anni: la carota che accompagna il bastone, nel comune obiettivo di indebolire la socialdemocrazia tedesca[2].
Non vi è alcun dubbio che questo intento animasse Bismarck e una parte della borghesia tedesca che appoggiò il progetto. Presentando i progetti di legge, il cancelliere fece delle esplicite dichiarazioni in questo senso, che gli catturarono anche la simpatia di alcuni esponenti della borghesia estera.
Sebbene la storiografia tenda a celebrare la capacità politica e la lungimiranza personale di Bismarck, essa riconosce anche che, nella sua concezione dell’intervento dello Stato, questi non fu che l’erede di una tradizione politico-intellettuale che distanziava la Germania dagli altri Paesi europei.
Questa tradizione affondava le sue radici nella concezione hegeliana dello Stato, ma era maturata e si era diffusa soprattutto tramite l’opera di Lorenz von Stein, contemporaneo di Marx e studioso delle condizioni del proletariato tedesco. Nel 1842, Stein aveva pubblicato un testo in cui descriveva il proletariato come classe rivoluzionaria, utilizzando i concetti di coscienza di classe e di lotta di classe. Da queste premesse – che secondo molti studiosi influenzarono anche l’opera di Marx – egli non traeva però alcuna conclusione rivoluzionaria; al contrario, concludeva che lo Stato – necessariamente sottomesso alla classe economicamente dominante – poteva impedire l’esito rivoluzionario e la dissoluzione dell’attuale società solo promuovendo il miglioramento delle condizioni del proletariato attraverso una politica di riforme sociali “dall’alto”. Il suo pensiero influenzò la politica sociale bismarckiana anche direttamente: erano sostenitori del pensiero di Stein sia Hermann Wagener, uno dei più stretti consiglieri di Bismarck, che Theodor Lohmann, il principale esperto di politica sociale della burocrazia prussiana. Centrale fu anche l’apporto ideologico dei “socialisti della cattedra”, ed in particolare di Alfred Wagner, teorico della necessità che lo Stato ampliasse la propria sfera di intervento alle questioni economiche e sociali e in molti casi diretto portavoce culturale delle posizioni politiche dello stesso Bismarck (ad esempio, nella battaglia per la creazione del monopolio tabacchi)[3].
Queste idee sorsero in netto contrasto con il pensiero politico-economico liberista prevalente in Inghilterra e nel resto d’Europa, fortemente improntato al laissez-faire. La loro diffusione in Germania è senza dubbio legata proprio alla posizione di late-comer di questo Paese, che rese necessario il precoce intervento dello Stato in economia proprio per rafforzare l’industria tedesca e recuperare il ritardo rispetto ai Paesi di più vecchia industrializzazione; specularmente, esse iniziarono a diffondersi in maniera consistente in Inghilterra solo qualche decennio dopo, quando il primato economico britannico nell’arena internazionale entrò in crisi. Questa differente tradizione politica sembra centrale nello spiegare perché la Germania sia arrivata prima degli altri paesi ad accettare la necessità di un sistema previdenziale obbligatorio, ad alta copertura e gestito dallo Stato.
Tuttavia, nell’enfatizzare il ruolo di Bismarck e quello della tradizione ideologica tedesca, la storiografia – con pochissime eccezioni – ha trascurato altri elementi fondamentali per comprendere come e perché si arrivò alla legislazione degli anni ‘80. Se il disegno politico di Bismarck incarnava un interesse “generale” della borghesia, quello del contenimento della spinta rivoluzionaria delle masse operaie, è anche vero che esso incontrava altri specifici interessi borghesi, più immediati e propri solo di alcune frazioni della borghesia. Il ruolo di queste frazioni borghesi – meno preoccupate della tenuta generale del sistema capitalistico, e molto più attente invece al proprio profitto immediato – fu fondamentale nel determinare la nascita delle leggi di assicurazione sociale negli anni ‘80, oltre che la loro specifica configurazione. Al netto di questo “interesse immediato”, che sposò la causa delle assicurazioni obbligatorie, non è ipotizzabile che il sistema bismarckiano sarebbe nato nei tempi e nei modi in cui nacque.
In effetti, il progetto legislativo sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni (introdotta poi nel 1884) prese le mosse da due memoranda presentati dai rappresentanti dell’industria pesante tedesca. Il secondo documento, in particolare, scritto dall’industriale Louis Baare, raccoglieva le posizioni condivise dell’Associazione degli industriali della Renania e della Westfalia (Langnamverein), dell’Associazione degli industriali del ferro e dell’acciaio (Verein Deutscher Eisen und Stahlindustrieller) e soprattutto dell’Associazione centrale degli industriali tedeschi (Centraiverbandes Deutscher Industrieller), la maggiore organizzazione ombrello degli industriali tedeschi. Il documento sosteneva apertamente la necessità di introdurre assicurazioni obbligatorie contro gli infortuni, gestite dallo Stato; esso divenne la base del testo legislativo poi approvato[4].
Il memorandum di Baare è un esempio significativo di un’azione ben più ampia di sostegno al progetto bismarckiano da parte di alcune frazioni dell’industria tedesca. Il nucleo dello schieramento era costituito dagli imprenditori dell’industria pesante della Renania, della Westfalia, del Saarland e dell’Alta Slesia. Vi si affiancavano i maggiori industriali del comparto tessile (cotone, lino, lana), dell’industria della carta, della pelle, del vetro, del legno e dei prodotti chimici. Si trattava di settori dominati dalla produzione su larga scala e dal massiccio impiego di capitale costante, ed è principalmente a queste caratteristiche comuni che va ricondotta la convenienza economica delle assicurazioni sociali per queste frazioni della borghesia. La gestione della forza lavoro si rivelava più complicata in questi settori che in quelli caratterizzati da stabilimenti di dimensioni medie o piccole: l’alto livello di meccanizzazione e la continuità del processo produttivo aumentava le esigenze di formazione e, di conseguenza, di “fidelizzazione” della forza lavoro. Inoltre, il tasso di incidenti e di malattie professionali nelle industrie capital-intensive, e quindi soprattutto nell’industria pesante e nelle produzioni chimiche, era di gran lunga maggiore rispetto alla media; ciò si traduceva per l’industriale in una serie di cause legali in caso di infortuni, ed in una minore disponibilità di forza lavoro a causa del rischio di malattie professionali.
L’obbligo assicurativo avrebbe consentito di distribuire il rischio su tutto il comparto industriale nazionale, con evidenti vantaggi economici ove il rischio di infortuni e malattia era più alto. Infine, a differenza delle piccole e medie industrie, la grande industria aveva acquisito negli anni precedenti una notevole esperienza diretta in merito alle assicurazioni sociali: era nelle grandi industrie che si erano diffuse maggiormente le casse private di previdenza gestite dagli operai (non di rado con la partecipazione paternalistica del datore di lavoro). Questo aveva dato modo agli industriali di valutare i vantaggi delle assicurazioni sociali, in termini di disponibilità e costo della forza lavoro e di combattività degli operai[5]. In particolare, il mondo grande-industriale guardava con estremo interesse all’esperienza della Krupp di Essen, dove da anni esisteva un ampio sistema di assicurazioni sociali organizzato dall’industriale Alfred Krupp. Nel 1868, Krupp aveva scritto che «gli effetti del sistema [di previdenze] sull’atteggiamento dei lavoratori, la formazione di un nucleo solido di operai, e le conseguenti riduzioni salariali ci compensano ampiamente per tutti i sacrifici in denaro ed energia» compiuti per mettere in piedi il programma. Insomma, per molti industriali i vantaggi del sistema proposto da Bismarck erano certi e calcolabili; l’obbligatorietà delle assicurazioni e l’implementazione su scala nazionale non faceva che ridurne i costi per la singola azienda[6].
Nel complesso, si è stimato che la fazione dei sostenitori della legislazione sociale rappresentasse il 2% delle imprese industriali tedesche. Il grosso delle imprese, come emerge dai rapporti delle Camere di Commercio, si oppose strenuamente alla proposta bismarckiana. Le due fazioni non erano però paragonabili né in termini di forza economica (la prima impiegava ben 1/3 dei lavoratori industriali tedeschi), né in termini di organizzazione e forza politica. I sostenitori della legislazione sociale agivano compattamente, come si è visto, tramite le più importanti associazioni industriali tedesche. La maggiore di queste era la già citata Centralverband, fondata nel 1876 e dominata dagli interessi dell’industria pesante. Inoltre, la grande industria pesante aveva stabilito negli anni precedenti fortissimi legami informali con la burocrazia bismarckiana; legami che si erano temprati soprattutto nel corso della battaglia politica per l’adozione delle tariffe doganali, fortemente volute dall’industria pesante ed introdotte dal Reichstag nel 1879[7].
Al contrario, gli oppositori della legislazione sociale erano estremamente numerosi. Questa ampia fazione comprendeva, in primis, la borghesia della piccola e media industria, per ragioni speculari a quelle che spingevano la grande industria a sostenere il progetto bismarckiano. Nelle imprese di medie dimensioni l’investimento in capitale costante era generalmente inferiore che nelle grandi imprese, mentre era relativamente più alta la quota di capitale spesa in salari; di conseguenza, l’introduzione delle assicurazioni obbligatorie avrebbe comportato un peso contributivo relativamente maggiore per queste imprese rispetto ai grandi stabilimenti meccanizzati. Inoltre, se le imprese più grandi e competitive contavano sulla possibilità di alzare i prezzi di vendita per recuperare quanto speso in contributi, ciò non sarebbe stato sempre possibile per le imprese di dimensioni inferiori, già in partenza meno competitive in molti settori. Infine, la minore meccanizzazione si traduceva in un tasso di infortuni sul lavoro notevolmente più basso rispetto ad altri comparti industriali, il che rendeva la ripartizione del rischio su scala nazionale estremamente svantaggiosa. Alla borghesia proprietaria di piccole e medie imprese, si affiancava nella lotta alle assicurazioni sociali la borghesia di quasi tutti i rami industriali orientati all’esportazione[8]: l’obbligo contributivo – e quindi l’aumento dei costi di produzione, che si poteva sperare di compensare solo alzando i prezzi di vendita – avrebbe infatti ridotto la competitività delle industrie tedesche sui mercati esteri (problema che non si poneva nella stessa misura per le imprese orientate al mercato interno, essendo tutti i produttori tedeschi gravati dallo stesso costo aggiuntivo)[9].
Le frazioni borghesi contrarie alla legislazione sociale costituivano una componente di rilievo nel panorama industriale del Paese, e avrebbero potuto ostacolare considerevolmente il progetto bismarckiano; tuttavia, esse erano estremamente deboli dal punto di vista organizzativo. Non si costituì alcuno schieramento compatto, e non vi furono forme significative di opposizione collettiva. Mancavano in realtà gli spazi in cui esercitare una tale opposizione. A livello locale, nelle Camere di Commercio, le frazioni anti-legislazione riuscivano ad esprimere la propria voce, che era anzi quella nettamente dominante; al contrario, a livello nazionale, non esisteva alcuna “tribuna” da cui si potessero sostenere queste posizioni. Le grandi associazioni industriali esistenti erano dominate, come detto, dalla grande industria in generale e dall’industria pesante in particolare. La Deutsche Handelstag (l’Associazione nazionale delle Camere di Commercio), tradizionalmente liberista, aveva subito una pesante sconfitta nel corso della citata battaglia per l’introduzione dei dazi doganali, e da allora aveva riorientato le proprie posizioni in senso più favorevole al protezionismo, all’intervento dello Stato e alla politica bismarckiana in generale; il tema delle assicurazioni sociali vi fu discusso solo marginalmente, e con atteggiamento favorevole. Fu attraverso alcuni membri del Reichstag – nel corso dei dibattiti parlamentari precedenti l’emanazione delle leggi – che queste frazioni riuscirono a esprimere in parte la propria opposizione; il loro intervento portò a modifiche anche sostanziali rispetto ai progetti originari, ma il nucleo delle richieste della grande industria pesante fu accolto[10].
Va anche detto che l’atteggiamento della borghesia tedesca non fu uguale nei confronti delle tre leggi emanate nel corso degli anni ‘80; pur tenendo presenti in generale gli schieramenti individuate finora, si deve sottolineare che le fazioni dei sostenitori e degli oppositori si ingrossarono e si assottigliarono a seconda della specifica assicurazione discussa. L’assicurazione contro gli infortuni fu quella che senza dubbio mobilitò il massimo dei sostegni, proprio a causa del crescente numero di cause intentate dai lavoratori contro i proprietari di fabbrica in seguito ad incidenti sul lavoro; sebbene ancora limitati, erano infatti in aumento i casi in cui il tribunale condannava il datore di lavoro ad un risarcimento della vittima o dei suoi familiari.
L’assicurazione contro la malattia suscitò un dibattito meno acceso, se non altro perché imponeva un obbligo contributivo molto minore rispetto alla legge contro gli infortuni (il datore di lavoro partecipava per 1/3 del contributo totale per la prima, mentre versava l’intero ammontare per la seconda); inoltre, raccoglieva simpatie trasversali tra le frazioni borghesi perché prometteva di ridurre il peso delle casse di malattia organizzate e gestite dagli operai, notoriamente politicizzate.
Infine, l’assicurazione contro la vecchiaia e l’invalidità fu quella che compattò lo schieramento più ampio di oppositori. Si trattava sicuramente dello schema più costoso, ed inoltre esso era l’unico che gravava sulla classe borghese anche indirettamente, attraverso la partecipazione dello Stato al versamento dei contributi. Soprattutto, era quello di cui era più difficile vedere i benefici immediati. Buona parte della borghesia industriale che aveva sostenuto le leggi del 1883 e del 1884 si oppose alla legge del 1889. Anche il Centralverband assunse una posizione più tiepida ed espresse anche alcune resistenze, segno di contrasti interni non secondari. Rimase però a favore del progetto il nucleo più forte della grande industria, quello che conosceva – per esperienza diretta o indiretta, grazie alle forme di previdenza paternalistiche sperimentate in alcuni stabilimenti – i vantaggi delle pensioni di vecchiaia, e che era abbastanza competitivo per sostenerne senza eccessiva difficoltà i costi. È plausibile, comunque, che la maggiore divisione delle associazioni industriali sul tema sia tra le cause della “debolezza” dello schema assicurativo effettivamente varato: esso stabiliva come età pensionabile il raggiungimento del settantesimo anno di età (molto al di sopra della vita media di un operaio tedesco dell’epoca, intorno ai sessant’anni), il che ridusse notevolmente il numero di pensioni effettivamente erogate[11].
Alla luce di quanto esposto, è possibile affermare che le assicurazioni sociali tedesche introdotte negli anni ‘80 incontravano diverse categorie di interessi grande-borghesi: da un lato, un interesse più generale, di conservazione della stabilità sociale e politica, ricordato spesso da Bismarck nei suoi discorsi; dall’altro, degli interessi economici più particolari e immediati di specifiche frazioni borghesi, in quel momento più forti economicamente e politicamente. L’interesse generale pesò enormemente nell’ideazione, nel mantenimento e nella diffusione estera del modello bismarckiano; ma la sua prima realizzazione, e quindi l’approvazione delle leggi del 1883, del 1884 e del 1889, fu evidentemente debitrice della lotta portata avanti da alcune frazioni borghesi per i propri interessi particolari.
La maggior parte degli storici sostengono che, per quanto innovativo, il progetto di Bismarck si sia rivelato fallimentare rispetto ai suoi fini: pensata per colpire la socialdemocrazia tedesca, la previdenza sociale finì per rafforzarla e per dare una nuova forza alle rivendicazioni del movimento operaio, nonostante la legislazione anti-socialista.
In realtà, il programma di Bismarck fu un successo per la classe borghese proprio perché contribuì a spostare l’attenzione delle masse operaie e l’attività della socialdemocrazia tedesca sul terreno delle riforme sociali, in senso non più rivoluzionario ma riformista. Attraverso questa e altre aperture al mondo operaio, la borghesia tedesca avrebbe ottenuto ciò che più le conveniva come classe: non la scomparsa della socialdemocrazia, ma la sua trasformazione in senso opportunista.
A. I.
[1] L’obbligo di assicurazione era rivolto inizialmente a specifiche categorie di lavoratori industriali a basso reddito, ma venne esteso negli anni successivi ai lavoratori con redditi superiori e – nel caso dell’assicurazione di malattia – ai lavoratori agricoli. Le tre assicurazioni obbligatori differivano notevolmente per quanto riguardava il versamento dei contributi: esso era ripartito tra lavoratore (2/3 dell’onere) ed il datore di lavoro (1/3) nel caso dell’assicurazione di malattia; era totalmente a carico del datore di lavoro nel caso dell’assicurazione contro gli infortuni; e ricadeva infine non solo su lavoratori (2/5) e datori di lavoro (2/5), ma anche sullo Stato (1/5) nel caso dell’assicurazione di invalidità e vecchiaia. Allo Stato spettava infine l’onere della gestione del neonato sistema previdenziale.
[2] Gerhard A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Utet, Torino 2011, pp. 64-66.
[3] Ritter, op. cit., pp. 72-73.
[4] Gerhard A. Ritter, Social Welfare in Germany and Britain, Berg, New York 1986, pp. 62-63.
[5] Hans-Peter Ullmann, Industrielle Interessen und die Entstehung der deutschen Sozialversicherung, 1880-1889, in “Historische Zeitschrift” 229/3, 1979, pp. 574-610.
[6] Eugene C. McCreary, Social Welfare and Business: The Krupp Welfare Program, 1860-1914, in “The Business History Review” 42/1, 1968, pp. 24-49.
[7] Ullmann, op. cit.
[8] In particolar modo le aziende esportatrici della Sassonia.
[9] Ibidem
[10] Ibidem
[11] Ibidem