IL MOVIMENTO OPERAIO IN AUSTRIA NEL PRIMO DOPOGUERRA

Dall’introduzione al testo di Kurt Landau La guerra civile in Austria


Parte I

Nel ciclo rivoluzionario apertosi con la rivoluzione dell’ottobre 1917 in Russia, l’Austria venne a trovarsi in condizioni particolari che la resero suscettibile di rappresentare un anello di congiunzione tra i movimenti rivoluzionari tedesco, ungherese e italiano. A tal proposito un capitano dell’esercito statunitense al seguito delle truppe dell’Intesa di stanza in Austria, Frederick Dellschaft, nel gennaio 1919 scrisse che

l’Austria tedesca rappresenta, per così dire, la testa di ponte della civiltà occidentale nei riguardi dell’oriente. Se questa testa di ponte dovesse cadere, Italia, Spagna e Francia sarebbero quasi all’istante alla mercé del bolscevismo.[1]

Il Partito socialdemocratico austriaco, tuttavia, poteva contare su una tradizione teorica e organizzativa di lunga data, e la sua influenza sul proletariato austriaco fu abbastanza salda da impedire che potesse essere seriamente insidiata da sinistra dai gruppi di opposizione che si richiamavano all’esperienza bolscevica.

Se prima della guerra la socialdemocrazia austriaca poteva contare sul 23% dei suffragi (elezioni politiche del 1907 e 1911), alle elezioni per l’Assemblea costituente del febbraio 1919 ottenne il 41% dei voti contro il 36% dei cristiano-sociali e il 18% dei Deutschnationalen [2]. Nonostante l’indubbia forza della sua posizione, per non doversi assumere da sola tutta la responsabilità delle politiche di ricostruzione post-bellica – che nel quadro del capitalismo inevitabilmente avrebbero gravato sulle spalle della sola classe operaia – la socialdemocrazia austriaca costituì un governo provvisorio di coalizione con i cristiano-sociali del prete cattolico Ignaz Seipel [3] (già ministro dell’ultimo governo imperiale e tra gli estensori della Costituzione repubblicana), che in pratica durò fino all’ottobre 1920.

Già allo scoppio della Rivoluzione russa, e in seguito, con la proclamazione della Repubblica ungherese dei consigli nel 1919, l’atteggiamento dei dirigenti dell’austromarxismo fu improntato al peggior opportunismo, che alle dichiarazioni pubbliche di simpatia per la vicina Ungheria rivoluzionaria fece seguire una pratica politica di prudente presa di distanza. I socialdemocratici si preoccuparono di convincere le masse del fatto che la rivoluzione non poteva essere scatenata quantomeno per non inimicarsi l’Intesa, che forniva all’Austria sconfitta e smembrata il pane necessario a non farla morire di fame. E a chi opponeva la disponibilità della Russia sovietica a fornire prodotti alimentari, per svincolarsi dal ricatto dell’Intesa e intraprendere il cammino della rivoluzione mondiale, gli austromarxisti rispondevano che l’aiuto sarebbe comunque arrivato tardi, e che quindi la situazione internazionale legava loro le mani. La palla era rilanciata ai proletari delle potenze dell’Intesa che avrebbero dovuto scatenare la lotta rivoluzionaria nei loro paesi, permettendo alla socialdemocrazia austriaca di fare la propria parte. In pratica proprio quelle condizioni materiali che costituiscono le premesse oggettive di un processo rivoluzionario venivano addotte come alibi per giustificare l’indisponibilità soggettiva della socialdemocrazia austriaca a guidare questo stesso processo.

Quanto ai comunisti austriaci, essi erano usciti dal partito socialdemocratico prima della proclamazione della Repubblica austriaca, nel novembre 1918. La KPÖ fu costituita, come il Partito comunista ungherese, soprattutto per iniziativa di ex soldati che si erano avvicinati al bolscevismo durante la prigionia in Russia. È interessante il rilievo di Landau che individua nelle modalità stesse attraverso le quali si formò il Partito comunista austriaco una delle cause del mantenimento della forza della socialdemocrazia austriaca e della immaturità del piccolo partito rivoluzionario. Immaturità che concorrerà a frantumarlo e a farlo divenire facile preda della “bolscevizzazione” dell’Internazionale stalinizzata:

Qui il Partito comunista non nacque da un’evoluzione progressiva del movimento operaio di prima della Guerra; esso fu creato artificialmente, a lato del movimento operaio. I suoi quadri erano formati, nel 1918 e nel 1919, da prigionieri di guerra che tornavano dalla Russia, dove erano stati destati alla coscienza politica dalla Rivoluzione, da giovani intellettuali piccolo-borghesi, antimilitaristi usciti dal movimento della gioventù piccolo-borghese di prima della Guerra e della Guerra, da qualche operaio politicamente poco colto e da giovani socialisti.

Non ci fu in effetti prima della guerra, nel partito socialdemocratico austriaco, una forte corrente di opposizione di sinistra che avesse maturato negli anni il proprio distacco teorico e politico dalla direzione opportunista.

Analogamente al Partito comunista tedesco, i comunisti austriaci boicottarono le elezioni per l’Assemblea costituente, e alla loro debolezza organizzativa e alla loro scarsa presa sulle masse proletarie si unì la dura repressione messa in opera nei loro confronti da parte del governo di coalizione. In seguito alla proclamazione della Repubblica dei consigli ungherese, i comunisti austriaci riscontrarono un certo incremento di consensi. D’altro canto, la socialdemocrazia austriaca non prese apertamente posizione contro l’Ungheria sovietica, e ridusse le misure repressive contro i comunisti.

Il governo di coalizione era decisamente stabile e l’esercito austriaco era stato riformato su base volontaria e professionale. In questo contesto, il 17 aprile 1919, ebbe luogo il cosiddetto Blutdonnerstag, il giovedì di sangue, un tentativo insurrezionale dei comunisti scaturito da una manifestazione di piazza prevalentemente spontanea. La sommossa, priva di qualsiasi preparazione, finì in un bagno di sangue ad opera dell’esercito della Repubblica, la Volkswehr, organizzata dal socialdemocratico Julius Deutsch [4]; repressione che ottenne il pieno plauso di tutta la reazione.

Il Partito comunista austriaco, in seguito ad un rinnovo dei quadri dirigenti, all’invio di fondi da parte del Komintern e di un emissario del Partito comunista ungherese, raggiunse circa 40 mila iscritti e aumentò la propria presenza nei Consigli operai, anche se in questi ultimi non superò mai la soglia del 10%. Nei consigli operai il Partito comunista continuò a mantenere un fronte insieme ai socialdemocratici, pur continuando a denunciare il tentativo da parte di questi di istituzionalizzare questi organismi e assorbirli nel regime democratico.

Il 15 giugno 1919, la KPÖ indì una grande manifestazione per sfruttare il malcontento provocato, all’interno della Volkswehr, dalle direttive dell’Intesa sulla riduzione del 25% dell’organico dell’esercito austriaco. Tra le richieste avanzate dalla dimostrazione figuravano le dimissioni del governo e la proclamazione della Repubblica dei consigli. La preparazione dell’evento fu assolutamente pubblica e venne fornito un largo preavviso, il che lascia supporre che la KPÖ non avesse l’intenzione di scatenare un’insurrezione, quanto di verificare la disponibilità delle masse a questa eventualità e di costringere il Partito socialdemocratico ad una pubblica presa di posizione fra l’Intesa e l’Ungheria comunista. I consigli operai, a maggioranza socialdemocratica, non appoggiarono l’iniziativa e il governo diffuse notizie allarmanti circa le intenzioni dei comunisti, accusati di voler reprimere ogni libertà. Vennero arrestati più di cento dirigenti e attivisti della KPÖ, che si erano riuniti per garantire il carattere pacifico della dimostrazione in seguito al ritiro della proposta dell’Intesa. Il giorno dopo, la manifestazione ebbe comunque luogo con circa 20 mila partecipanti. I comunisti non ne avevano però nessun controllo. Ci furono scontri di piazza con lanci di pietre e bulloni, ma assolutamente nulla di simile ad un pianificato tentativo insurrezionale. Il bilancio fu di 20 morti e 100 feriti.

continua…


NOTE

[1] Cfr. P. Fornaro, Crisi postbellica e rivoluzione, L’Ungheria dei Consigli e l’Europa danubiana nel primo dopoguerra, FrancoAngeli, Milano, 1987.

[2] Tedesco-nazionali, pangermanisti.

[3] Ignaz Seipel (Vienna, 19 luglio 1876 – Pernitz, 2 agosto 1932). Sacerdote e docente di teologia, fu tra i leader del Partito Cristiano Sociale. Fautore di una monarchia federale con larghe autonomie nazionali, dopo la caduta degli Asburgo e la proclamazione della Repubblica entrò (1918) nel gabinetto Lammasch quale ministro della Previdenza sociale. Deputato all’Assemblea nazionale (1919), acquistò una posizione dominante nel partito cristiano-sociale, che lo elesse a suo presidente (1921). Cancelliere federale (1922-24), riuscì a far ottenere i prestiti internazionali necessari alla ripresa del Paese. Ferito in un attentato nel 1924, Seipel si dimise, ma riprese la Cancelleria nel 1926, assumendo anche il dicastero dell’Interno. In tal veste, si servì dell’Heimwehr, un’organizzazione paramilitare dell’austrofascismo, per reprimere la rivolta operaia del 1927 contro la sua politica conservatrice e autoritaria. Fu anche ministro degli Esteri del governo C. Vaugoin nel 1930.

[4] Julius Deutsch (Lackenbach, Ungheria, 2 febbraio 1884 – Vienna, 17 gennaio 1968). Membro del Partito operaio socialdemocratico austriaco, fu deputato (1919-34). Nella sollevazione del febbraio 1934 comandò le formazioni dello Schutzbund. Rifugiatosi in Cecoslovacchia, vi costituì insieme ad O. Bauer l’ufficio estero dei socialisti austriaci. Partecipò nel 1936 alla guerra civile di Spagna quale generale dell’esercito repubblicano. Stabilitosi poi a Parigi, si recò, dopo l’invasione della Francia, a Londra e di lì negli Stati Uniti. Ritornò a Vienna nel 1946 e non riprese l’attività politica. Tra le pubblicazioni: Geschichte der österreichischen Gewerkschaftsbewegung (2 voll., 1919); Aus Österreichs Revolution (1922); Der Bürger Krieg in Österreich (1934).

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