LA CLASSE DOMINANTE NEL CAPITALISMO DI STATO – prima parte

Dalla postfazione al testo di Zheng Chaolin Il capitalismo di Stato, Movimento Reale, Roma, gennaio 2023


Uno dei principali elementi di divergenza teorica di Zheng Chaolin rispetto alle formulazioni trotskiste sulla natura sociale dell’URSS, che la descrivono come “Stato operaio degenerato”, o rispetto alla teoria del “collettivismo burocratico”, risiede nella risposta che egli fornisce al quesito riguardante l’individuazione della classe dominante all’interno del capitalismo di Stato.

Alla classica argomentazione trotskista, che nega la possibilità del capitalismo di Stato affermando che laddove non c’è proprietà privata non c’è borghesia e laddove non c’è borghesia non può esserci capitalismo, Zheng risponde da un punto di vista coerentemente marxista che proprietà privata individuale e borghesia non si identificano, che quest’ultima non scompare necessariamente se viene meno la prima e che, nella sostanza, se c’è il capitale allora c’è anche la borghesia.

D’altro canto, anche i teorici del “collettivismo burocratico” negavano l’esistenza del capitalismo di Stato affermando che in URSS fosse operante un “nuovo” modo di produzione, una “nuova” società né capitalista né socialista nella quale la burocrazia costituiva una “nuova” classe dominante.

Zheng, nel suo opuscolo, si mantiene a debita distanza da questa interpretazione, affermando che in URSS non esiste nessun “nuovo” modo di produzione ma soltanto una – relativamente, aggiungiamo noi – nuova forma del vecchio capitalismo, nella quale la classe dominante si configura, secondo la sua espressione, come “borghesia di Stato”.

Sottolineando come questa borghesia di Stato abbia poco in comune con la borghesia che la precede, Zheng intende soprattutto riferirsi al fatto che la maggioranza o la totalità degli elementi, dei “personaggi” che la compongono non provengono dalla vecchia classe possidente e dominante, tuttavia, non ritiene affatto che ci si trovi di fronte ad una “nuova classe” ma soltanto, ancora una volta, ad una nuova forma della classe borghese storicamente intesa.

I membri della “borghesia di Stato” di cui tratta Zheng non sono in genere elementi provenienti dai ranghi della precedente classe borghese, che abbiano quindi ereditato la loro posizione sociale o che siano diventati membri della classe dominante in quanto espressione di un processo strettamente economico. Si tratta in effetti di personaggi che, in virtù di un rivolgimento politico – una rivoluzione proletaria degenerata o una rivoluzione borghese con un’ideologia socialisteggiante – sono diventati membri dell’apparato statale che ha assorbito gran parte o tutta la proprietà borghese, e che in virtù della loro appartenenza all’apparato statale hanno in parte sostituito nelle sue funzioni di valorizzazione del capitale la precedente borghesia. Solo in parte, ovvero nella misura in cui i precedenti funzionari del capitale, quelli che Zheng chiama “burocrazia industriale”, non sono entrati anch’essi a far parte a pieno titolo della “borghesia di Stato”, continuando ad esercitare le loro funzioni all’interno del nuovo apparato statale, titolare della “proprietà giuridica” del capitale che hanno il compito e l’interesse di valorizzare.

Semmai, un limite dell’elaborazione di Zheng Chaolin è quello di concepire la classe dominante nel capitalismo di Stato più come proprietaria collettiva dei mezzi di produzione, per tramite dello Stato, che non come classe di “capitalisti in funzione”, che gestiscono e valorizzano il capitale di proprietà statale. Tuttavia, Zheng identifica la borghesia di Stato con una parte della burocrazia statale, con la burocrazia industriale (gli ex capitalisti non proprietari del capitale) e con una quota di ex capitalisti che continuano a percepire dallo Stato interessi sul loro capitale “espropriato”. Il marxista cinese non sembra identificare la borghesia di Stato con la burocrazia statale nel suo complesso, con l’insieme degli impiegati pubblici. In effetti, se dal punto di vista teorico esiste la possibilità che in un capitalismo di Stato integrale la borghesia in quanto tale rientri dal punto di vista formale interamente nei ranghi della burocrazia statale, non è però concepibile che tutta la burocrazia si identifichi con la borghesia, essendo la burocrazia, in virtù dei suoi specifici compiti, un insieme assai più vasto. Per tornare al paragone di Zheng Chaolin con la Chiesa nel Medioevo, seppure l’organizzazione ecclesiastica risulti proprietaria collettiva di mezzi di produzione, non tutti i suoi membri hanno però lo stesso peso e la stessa funzione, non tutti sono vescovi o cardinali e non tutti dispongono nella stessa misura della terra e delle decime che appartengono alla Chiesa nel suo insieme.

Se si identifica l’intera burocrazia statale con la classe dominante e si intende per burocrazia l’intero pubblico impiego, allora formalmente – e paradossalmente – anche il proletariato, nella misura in cui è impiegato nelle aziende di Stato, dovrebbe far parte della classe dominante; il che è in fondo quanto sostenuto dallo stalinismo.

In effetti, ipotizzando un capitalismo di Stato “integrale”, tutti coloro che al suo interno vi percepiscono un reddito sono formalmente impiegati pubblici, anche gli operai dell’industria statizzata. Tuttavia, le fonti dei redditi dei diversi impiegati pubblici, per quanto mistificate dalla comune forma salariale, continuano ad essere assai differenti: gli operai ricevono in cambio della loro forza-lavoro un salario che è capitale variabile investito dallo Stato, mentre il direttore responsabile della redditività di un’azienda pubblica, o di un complesso di aziende, percepisce, sotto la stessa forma “salariale”, quote del plusvalore estorto dal lavoro degli operai.

Lo Stato, in quanto astratto titolare giuridico di tutti i capitali, si appropria formalmente del profitto di tutti i capitali, ma nel concreto sono le singole imprese statali, come “unità economiche distinte”, nelle figure dei loro rispettivi responsabili – unici o collegiali –, a promuovere economicamente, nelle istituzioni statali che si occupano della pianificazione, e politicamente, nel “partito” o nei vari organi rappresentativi, le esigenze dell’accumulazione inerenti alle quote di capitale statale loro affidate; a definire nella concorrenza reciproca e nei confronti dello Stato – in quanto astratto “capitalista monetario” – la quota di profitto che spetta a quest’ultimo come interesse e la quota che ritorna alle singole aziende come utile d’impresa, parte da reinvestire come capitale costante e variabile e parte per il consumo individuale degli imprenditori statali, sotto forma di “stipendi”, benefit, premi, emolumenti vari.

La quota di profitto che viene assorbita dallo Stato (ovvero l’interesse, insieme alla rendita e all’imposta) e che non ritorna nei singoli bilanci aziendali – per quanto formalmente tutti questi bilanci appaiano come mere sezioni dell’unico bilancio dello Stato –, nella misura in cui non viene reinvestita in nuove unità produttive, viene impiegata per i costi generali di mantenimento della società e costituisce la fonte del reddito della pletora dei “ministri”; dei membri degli organi esecutivi, amministrativi e giudiziari dello Stato; dei membri dell’esercito; degli impiegati nei pubblici uffici; degli inservienti; degli insegnanti; dei poliziotti; degli impiegati delle imprese commerciali statizzate; degli impiegati delle imprese di servizi statizzate, ecc.

In un capitalismo di Stato “integrale” il proletariato, pur formalmente membro della “classe dominante”, continuerebbe a lavorare dunque per la borghesia e per tutti gli altri strati sociali, esattamente come fa all’interno della forma capitalistica “privata” e in quella – realizzatasi concretamente nella storia – in cui il capitalismo di Stato è circoscritto prevalentemente al settore industriale.

Ad ogni modo, non è possibile identificare la burocrazia con la borghesia di Stato. In primo luogo, perché non tutta la burocrazia svolge funzioni di valorizzazione del capitale e, in secondo luogo, perché la borghesia è sempre borghesia, anche quando ricopre in prima persona delle cariche burocratiche, così come il proletariato rimane tale anche se è impiegato dallo Stato.

Nella misura in cui si può parlare di “borghesia di Stato” ci si riferisce dunque ad una classe che trova il proprio materiale umano in una parte dei funzionari di quello stesso Stato che ha assorbito la proprietà giuridica del capitale, i quali, in virtù del ruolo di “capitalisti in funzione” che hanno assunto per mezzo dello Stato, dominano come classe lo Stato stesso, il quale, rispetto alla loro posizione, si configura come il “capitalista monetario” collettivo.

Zheng nel suo scritto sottolinea come, nei capitalismi di Stato della Repubblica Popolare Cinese e in quelli delle cosiddette “nuove democrazie” dell’Europa orientale, accanto a questa borghesia statale esista una quota più o meno grande di capitalisti “nazionali”, i quali, tramite indennizzi di “espropriazione”, remunerati sotto forma di interessi su titoli del capitale “di Stato”, continuano ad esercitare il ruolo di “capitalisti monetari” privati.

Dunque, per quanto Zheng non sempre lo espliciti in forma chiara, lo Stato, e con esso la burocrazia statale nel suo complesso, rimane uno strumento del dominio di una classe composta di capitalisti.

Per Amadeo Bordiga nel capitalismo di Stato

… la borghesia, che mai è stata una «casta», ma è sorta difendendo il diritto della totale eguaglianza «virtuale», diventa «una rete di sfere di interessi che si costituiscono nel raggio di ogni intrapresa». I personaggi di tale rete sono svariatissimi: non sono più proprietari o banchieri o azionisti, ma sempre più affaristi, consulenti economici, businessmen.

Una delle caratteristiche dello svolgimento dell’economia è che la classe privilegiata ha un materiale umano sempre più mutevole e fluttuante (il re del petrolio che era usciere, e così via).

Come in tutte le epoche, tale rete di interessi, e di persone che affiorano o meno, ha rapporti con la burocrazia di Stato, ma non è la burocrazia; ha rapporti coi «circoli di uomini politici», ma non è la categoria politica[1].

Da un punto di vista storico, si potrebbe affermare che la borghesia, per quanto ai suoi albori e per buona parte del suo sviluppo si sia contraddistinta per la proprietà individuale dei mezzi di produzione, proprio in virtù del fatto che non rappresenta una “casta” sia sempre stata «una rete di sfere di interessi che si costituiscono nel raggio di ogni intrapresa» e che quindi continui ad esserlo anche quando e laddove l’evoluzione storica del capitalismo abolisce questa proprietà privata individuale. In effetti, gli interessi che si costituiscono nel raggio di ogni intrapresa non sono necessariamente legati alla proprietà del capitale di questa intrapresa e i “personaggi” che si fanno interpreti di questi interessi, progressivamente svincolati da qualsiasi titolo di proprietà, sono sempre più “mutevoli e fluttuanti”.

Questi “affaristi, consulenti economici, businessmen”, che Marx chiama “nuovi cavalieri di fortuna”[2], trovano la loro massima espressione proprio nel capitalismo di Stato, dove, se il concetto di classe è definito dal rapporto di comando nei confronti del lavoro, dei mezzi di produzione e del prodotto, rappresentano a tutti gli effetti una classe dominante che beneficia della piena disposizione del prodotto sociale senza la mediazione della proprietà giuridica dei mezzi di produzione, di cui è titolare il “loro” Stato. Una classe estremamente mutevole, fluida, di funzionari della valorizzazione del capitale, del meccanismo di estrazione del plusvalore operaio.

È certamente vero che questa classe, pur avendo rapporti con la burocrazia di Stato e con gli uomini politici, non è la burocrazia né la categoria politica, ma nulla – né dal punto di vista pratico né da quello teorico – vieta che questi “rapporti” trovino espressione nell’appartenenza dei membri di questa classe alla burocrazia statale e ai partiti politici, di cui costituirebbero una parte, senza quindi necessariamente dovervisi identificare completamente e senza mettere in discussione la distinzione tra funzione economica borghese e funzione politica dello Stato.

Continua…


NOTE

[1] A. Bordiga, Proprietà e capitale, Gruppo della Sinistra Comunista, Torino, 1972, p. 106.

[2] K. Marx, Il Capitale, UTET, Torino, 2009, Libro III, p. 748.

Lascia un commento