“FRONTE UNICO” E “GOVERNO OPERAIO”

Dall’introduzione al testo di Larisa Rejsner Amburgo sulle barricate, Movimento Reale, dicembre 2023.


II

Ripercorrendo le vicende del 1923 in Germania è difficile non riscontrare, a partire dal gennaio, da un lato il repentino risollevarsi di un’ondata di lotte del proletariato tedesco – un’ondata che raggiunge il suo culmine in agosto, con la caduta del governo Cuno, e che rifluisce, lentamente ma inesorabilmente, fino a dissolversi nella demoralizzante sconfitta dell’ottobre-novembre – e, dall’altro, il passaggio – condizionato da questo processo – della borghesia tedesca da un’attitudine difensiva ad una politica apertamente offensiva nei confronti della classe operaia; il tutto accompagnato da molteplici cambi di passo nella politica del Comintern in Germania, riflesso delle esigenze interne all’economia russa, della mutevole dinamica dei rapporti di forza tra le potenze dell’imperialismo in Europa e tra le classi fondamentali della società tedesca.

Indubbiamente, l’occupazione franco-belga della Ruhr e le misure che il nuovo Stato della borghesia tedesca adotta per fare fronte alla crisi politica, accelerano l’acutizzarsi della crisi economica – endemica almeno a partire dalle ultime fasi della Prima guerra mondiale e aggravata dalle conseguenze della sconfitta –, crisi economica che non manca di manifestarsi in una radicalizzazione del malcontento delle masse lavoratrici e nell’intensificarsi delle difficoltà nella tenuta politica del regime borghese tedesco.

Nel gennaio 1923 il Partito Comunista Tedesco è nel pieno della sua campagna politica per un “fronte unico” dei lavoratori tedeschi contro l’offensiva borghese, figlia della “stabilizzazione relativa” del capitalismo. Con la sconfitta dell’“Azione di Marzo” del 1921 la “teoria dell’offensiva” viene decisamente respinta nei consessi del Comintern che, da parte sua, “raccomanda” alle proprie sezioni nazionali – particolarmente in Germania – di uniformarsi allo spirito della “Lettera aperta” della KPD a “tutti i partiti operai” (SPD compresa) per un coordinamento unitario della difesa di classe.

A più di cento anni dalla sua formulazione e sulla base degli esiti incontrovertibili della sua applicazione, è ormai possibile trarre un bilancio della molto dibattuta – e regolarmente riproposta – politica del fronte unico; una politica che, a nostro avviso, fu, fin dagli esordi e per un certo periodo, il comune involucro di due esigenze reali, benché conflittuali, determinate dalla mancata estensione del processo rivoluzionario nell’Europa capitalisticamente matura. Due esigenze contrapposte: da un lato quella rivoluzionaria di indicare al proletariato europeo e mondiale una possibile strada in una fase di riflusso, che scontava però i limiti di un’insufficiente analisi della fase capitalistica in atto negli anni Venti, della parziale incomprensione della reale natura e funzione dei soggetti politici a cui si rivolgeva, dell’impostazione in termini fondamentalmente inadeguati dell’obiettivo della “conquista della maggioranza” e della difficoltà nel cogliere il venir meno della natura operaia dello Stato russo; dall’altro, quella controrivoluzionaria di normalizzare per quanto possibile le relazioni economiche, politiche e militari tra le potenze dell’imperialismo e lo Stato sovietico, sempre più permeato dalle istanze che esprimevano la crescita e l’assestarsi dei rapporti capitalistici di produzione nella Russia arretrata.

Senza dubbio, l’ambiguità, i limiti di impostazione e di formulazione della politica del fronte unico la resero suscettibile di riempirsi di contenuti differenti da quelli inizialmente contemplati. Al punto che, se dal punto di vista proletario le sue modalità di applicazione non possono non definirsi un evidente fallimento, dal punto di vista controrivoluzionario si può invece addirittura affermare che abbiano in una certa misura assolto al loro compito.

Opinione comune della maggioranza dei teorici marxisti che costituirono l’elemento cosciente della rivoluzione proletaria in Russia fu che quella apertasi con lo scoppio della Prima guerra mondiale rappresentasse una crisi irreversibile del capitalismo, e che, dunque, la “stabilizzazione relativa” del 1920-21 fosse un episodio momentaneo, relativo appunto, all’interno di una crisi che non avrebbe potuto trovare una soluzione capitalistica. Se di episodio momentaneo si trattava, le condizioni rivoluzionarie per una presa del potere del proletariato avrebbero dovuto ripresentarsi all’ordine del giorno a scadenza ravvicinata, motivo per il quale, nell’ambito di una lotta coordinata con i diversi partiti operai per la difesa delle condizioni di esistenza della classe contro l’offensiva borghese, i partiti comunisti avrebbero dovuto porsi come obiettivo quello della “conquista delle masse”.

Ben presto, all’interno delle forze rivoluzionarie internazionali si produsse una divergenza nell’interpretazione di questa linea politica. Si manifestò nettamente la posizione di chi considerava il fronte unico uno strumento dei partiti comunisti per intercettare i lavoratori di tutti gli altri partiti operai (ed anche senza partito) in ambiti di lotta esterni alla loro affiliazione partitica, come quello sindacale, per porli di fronte all’evidenza dell’opportunismo dei partiti socialdemocratici e conquistarli ad una posizione rivoluzionaria; il che non significava affatto porre dei limiti economicistici alle lotte escludendo obiettivi più propriamente politici, quanto il rifiuto di accordi di vertice con le direzioni degli altri partiti operai che avevano già dato ampia prova della loro funzione di puntello del regime capitalistico in crisi, e con i quali si era venuti ad aperta rottura proprio in concomitanza con la nascita dei partiti comunisti. Tale posizione è comunemente definita del fronte unico “dal basso”, anche se sarebbe forse più corretto definirla del fronte unico “di classe”.

Alla radice di uno degli obiettivi del fronte unico, quello della conquista della “maggioranza del proletariato”, stava dunque la valutazione circa la natura della fase definita di “stabilizzazione relativa del capitalismo”.

Questa nuova fase venne riconosciuta soltanto dopo il marzo 1921, per quanto si fosse aperta già nel 1920 con la conclusione della crisi capitalistica internazionale che si era manifestata con la Prima guerra imperialistica mondiale; una conclusione puntellata dall’inadeguatezza della direzione rivoluzionaria in occasione della sollevazione operaia scatenata in Germania dal Putsch di Kapp, e dalla sconfitta dell’Esercito Rosso a Varsavia.

Tuttavia, da un punto di vista rigorosamente marxista, qualsiasi stabilizzazione di una crisi della formazione economico-sociale capitalistica è relativa, dal momento che, se la crisi non viene trasformata dalla rivoluzione in crollo, il capitalismo presto o tardi si riassesterà prendendo ulteriore slancio, a meno che la crisi non abbia condotto ad una catastrofica «comune rovina della classi in lotta».

Se la stabilizzazione è sempre relativa, considerare quello dei primi anni Venti un momento fugace all’interno di una fase complessiva di crisi capitalistica significava ritenere di poter estendere l’obiettivo della conquista della maggioranza del proletariato, che le forze rivoluzionarie possono porsi con qualche speranza di successo esclusivamente nel corso della crisi capitalistica, ad un periodo di stabilità capitalistica. Nel corso di una stabilizzazione capitalistica però, quale che ne sia la durata – dal momento che non è facile determinarla preventivamente –, per le forze rivoluzionarie è prioritario e fondamentale il consolidamento dell’organizzazione degli elementi coscienti del proletariato nonché il rafforzamento della sua capacità di analisi della realtà capitalistica, presupposti indispensabili per un corretto raccordo con la classe operaia, per una politica di difesa delle sue condizioni di esistenza che si colleghi al livello dato di combattività del proletariato e per aumentare le possibilità di un’effettiva conquista della maggioranza della classe operaia al ripresentarsi della fase rivoluzionaria.

Tra coloro che consideravano “estremistica” o “settaria” l’impostazione del fronte unico “dal basso”, la politica del fronte unico si identificò sempre più con l’obiettivo della conquista della maggioranza, assumendo rapidamente il carattere di una serie di manovre tattiche volte ad inglobare le “ali sinistre” dei partiti socialdemocratici, quindi una parte dei loro dirigenti – aumentando conseguentemente il peso numerico dei partiti comunisti – oppure del tentativo di instaurare alleanze formali con i partiti socialdemocratici nel loro complesso, sempre affidandosi alla presunta disponibilità in questo senso delle loro “ali sinistre”, allo scopo di costituire dei “governi operai”, ovvero una coalizione di partiti a base di massa operaia da ottenersi tramite combinazioni elettorali e parlamentari, sia a livello locale che centrale. Ovviamente, la parola d’ordine del governo operaio non venne mai delineata in termini inequivocabili, se ne diedero anzi le più diverse e contraddittorie illustrazioni, giocando sull’apparente somiglianza con l’obiettivo della dittatura del proletariato[1], ma, con il passare del tempo, nella misura in cui se ne esplicitava la pretesa funzione di “tappa intermedia” preliminare alla presa del potere, se ne rivelava altresì la reale natura. L’incomprensione, da parte degli elementi rivoluzionari e in primis russi, del ruolo del capitalismo di Stato russo – il «nemico non visto» –, la concomitante identificazione delle sorti della rivoluzione mondiale con quelle del primo e unico Stato operaio, le deficienze nell’analisi materialistica della crisi capitalistica e dei compiti del partito rivoluzionario nelle fasi di stabilizzazione condussero questi elementi a sostenere scelte tattiche ambigue, che faranno a loro volta da volano alla piena affermazione in Russia di forze controrivoluzionarie in costante avanzamento ad ogni arretramento del movimento rivoluzionario internazionale[2]. Forze sufficientemente consapevoli degli interessi che esprimevano e dei propri obiettivi al punto da trasformare, gradualmente, ma inesorabilmente, la consegna per i partiti comunisti occidentali di una “conquista della maggioranza” da mero errore di impostazione ad espressione dell’esigenza di condizionare in una direzione favorevole allo Stato russo le istituzioni statuali borghesi dei Paesi occidentali. A tale scopo, nulla ormai impediva di allargare questa “conquista” ben oltre i confini della classe operaia[3] se non l’analisi marxista sulla natura e il ruolo delle classi sociali nei Paesi capitalistici industrializzati. Si sarebbe provveduto rapidamente a confezionare ad hoc un’“analisi” che aggirasse questo ostacolo.

continua…


NOTE

[1] La dittatura del proletariato è un rapporto tra le classi, instaurato per mezzo della rivoluzione, che vede la borghesia privata del suo potere economico ed esclusa dagli organi di rappresentanza politica. Niente di meno ambiguo di un “governo operaio” (… e contadino) dai contorni sfumati e presumibilmente raggiungibile “prima” della conquista rivoluzionaria del potere.

[2] Non soffrendo degli imbarazzi dei discepoli di Trotsky, costretti a giustificare ogni passo del teorico marxista ridotto a feticcio, possiamo riconoscere che taluni suoi posizionamenti tattici abbiano talvolta espresso di fatto più le esigenze della Russia che quelle della rivoluzione internazionale, senza per questo collocarlo nel campo controrivoluzionario ma anche senza alterare la realtà dei fatti per convalidare ad ogni costo tutte le sue posizioni.

[3] A questo proposito e contro ogni possibilità di equivoco, nel 1921 Lenin scriveva: «… la rivoluzione internazionale, che noi prevedevamo, si sviluppa, ma questo movimento progressivo non è così lineare come ci attendevamo. Sin dal primo sguardo è evidente che, dopo la conclusione della pace, per cattiva che fosse, non si riuscì a far scoppiare la rivoluzione negli altri paesi capitalistici, benché i sintomi rivoluzionari fossero, come sappiamo, assai evidenti e numerosi, persino più evidenti e numerosi di quanto avessimo creduto. Ora cominciano a uscire opuscoli dove si dice che questi sintomi rivoluzionari negli ultimi anni e negli ultimi mesi erano in Europa molto più evidenti di quanto non sospettassimo. Che cosa dobbiamo fare adesso? Adesso è necessario preparare a fondo la rivoluzione e fare uno studio approfondito del suo sviluppo concreto nei paesi capitalistici avanzati. Questo è il primo insegnamento che dobbiamo trarre dalla situazione internazionale. Per la nostra repubblica russa dobbiamo approfittare di questa breve tregua per adattare la nostra tattica a questa linea a zigzag della storia. Questo equilibrio è politicamente molto importante, perché vediamo chiaramente che in molti paesi dell’Europa occidentale, dove larghe masse della classe operaia, e molto probabilmente anche la stragrande maggioranza della popolazione, sono organizzati, il principale sostegno della borghesia è costituito appunto da organizzazioni della classe operaia a noi ostili ed aderenti alla II Internazionale e all’Internazionale due e mezzo. […] In primo luogo: la conquista della maggioranza del proletariato. Quanto più organizzato è il proletariato dì un paese capitalisticamente sviluppato, tanto maggiore serietà la storia esige da noi nella preparazione della rivoluzione, tanto più a fondo dobbiamo conquistare la maggioranza della classe operaia [grassetti nostri]. In secondo luogo: il sostegno principale del capitalismo nei paesi capitalistici industrialmente sviluppati è appunto la parte della classe operaia organizzata nella II Internazionale e nell’Internazionale due e mezzo. Se non si appoggiasse a questa parte degli operai, a questi elementi controrivoluzionari all’interno della classe operaia, la borghesia internazionale non sarebbe assolutamente in grado di mantenere il potere». Rapporto sulla tattica del PCR, presentato al III Congresso dell’Internazionale comunista il 5 luglio 1921, Lenin, Opere, Editori Riuniti, Roma, 1967, vol. 32, pp. 456-457.

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