LA GERMANIA “SEMICOLONIA” E LA LINEA “SCHLAGETER”

Dall’introduzione al testo di Larisa Rejsner Amburgo sulle barricate, Movimento Reale, dicembre 2023.


III

L’immediata risposta della KPD all’occupazione della Ruhr da parte delle truppe franco-belghe, l’11 gennaio 1923, è ancora improntata ad un’analisi classista dei reali rapporti fra le borghesie tedesca e francese e resta dunque fedele ai princìpi dell’internazionalismo proletario. Appena due giorni dopo l’invasione, il 13 gennaio, mentre la socialdemocrazia – come nell’agosto 1914 – rinnova i propri voti per la “difesa della patria”, e dunque della stabilità del regime borghese, sostenendo la “resistenza passiva” proclamata dal governo Cuno, i deputati comunisti al Reichstag negano la fiducia e, tramite il loro portavoce, dichiarano:

Noi siamo in guerra e Karl Liebknecht ci ha insegnato come la classe operaia deve condurre una politica di guerra. Egli ha chiamato alla lotta di classe contro la guerra! Sarà questa la nostra parola d’ordine. Nessuna pace civile, ma la guerra civile![1]

Il principale organo del Partito comunista, la Rote Fahne, il 23 febbraio titola: Colpiamo Poincaré e Cuno nella Ruhr e sulla Sprea!.

La battaglia nella Ruhr è un colpo di coda dello scontro interimperialistico sfociato nella Prima guerra mondiale che, a conclusione del conflitto, si prolunga nella questione delle riparazioni di guerra. Denunciando gli accordi commerciali segreti in corso tra industriali tedeschi e governo francese i comunisti smascherano la truffa di una “resistenza nazionale” condotta sulle spalle della classe operaia tedesca che, per mezzo di una campagna mediatica martellante e con il contributo attivo di organizzazioni politico-militari nazionaliste che si infiltrano nella Ruhr per mestare nel torbido, si cerca in tutti i modi di mobilitare in una nuova ondata di patriottismo.

Con l’appesantirsi del clima di oppressione determinato dalle imposizioni delle autorità militari d’occupazione – che presiedono con l’arma al piede all’estrazione di carbone e che ne sequestrano ingenti quantitativi – nonché dalle rappresaglie scatenate dalle azioni dei nazionalisti, si moltiplicano gli incidenti nella Ruhr. In mancanza di un significativo sostegno da parte dell’insieme del proletariato francese, la duplice lotta degli operai tedeschi, contro l’occupante e contro la propria borghesia, si rivela estremamente problematica, soprattutto perché i capitalisti e il governo tedesco, pur non cessando di paludarsi nelle vesti di “combattenti nazionali”, sabotano qualsiasi forma di autodifesa di classe.

Come scrive Arthur Rosenberg:

Lo sciopero generale, col quale i lavoratori della Ruhr avrebbero voluto rispondere all’avanzata dei francesi e dei belgi, non si effettuò perché impedito dagli imprenditori. I proprietari di miniere, infatti, tennero aperte le loro industrie perché non avevano nessuna voglia di sopportare le perdite che, malgrado tutte le indennità statali, sarebbero state causate dalla sospensione della produzione. Anche rispetto al divieto posto dai francesi sulla esportazione del carbone nella Germania non occupata gli imprenditori tedeschi si giustificarono dicendo che dovevano provvedere di carbone gli abitanti e le industrie della Ruhr e che, inoltre, era consigliabile avere riserve di carbone per poter prontamente rifornire le altre zone nel caso di un compromesso fra Francia e Germania. Questo punto di vista dei «patriottici» imprenditori riuscì ad imporsi e la produzione di carbone nella Ruhr, anche se limitata e ostacolata dalle anormali condizioni industriali, non fu mai sospesa.

La cosiddetta resistenza passiva tedesca dell’anno 1923 è quindi una autentica leggenda. Sebbene la situazione delle masse popolari della Renania e della Ruhr fosse in generale miserevole, la lotta economicamente decisiva per il carbone assunse egli aspetti di una tragicommedia. Si pensi ad una comune miniera della regione della Ruhr: gli operai estraggono tranquillamente il carbone e lo ammassano sui pendii, finché non appare un militare francese; gli operai e gli impiegati tedeschi abbandonano allora sdegnati la miniera; i francesi, rimasti soli, con l’aiuto di operai stranieri raccolgono faticosamente il carbone, abbandonando la miniera solo dopo averlo portato via tutto; riappaiono allora gli operai e gli impiegati tedeschi che riprendono il lavoro fino a che nuove montagne di carbone non vengono ammassate; allora i francesi ritornano, e così via. Il tutto era chiamato «resistenza passiva nazionale».[2]

Anche lo storico francese Pierre Broué, nella sua opera sulla rivoluzione tedesca, rileva:

Ben presto […] la «resistenza passiva» rivela un volto del tutto diverso da quello che avrebbero voluto darle i dirigenti tedeschi del governo e dell’esercito. Da parte dei lavoratori, nonostante minacce d’ogni tipo, la pressione della miseria è determinante. Gli operai si rendono conto di non difendere la propria causa dichiarandosi solidali col loro padrone: i consigli di fabbrica delle aziende Thyssen contestano i delegati che hanno accettato di votare con i padroni una mozione per la liberazione di Fritz Thyssen junior. Il fatto è che gli industriali, resi prudenti da qualche atto energico degli occupanti nei loro confronti, non perdono di vista i propri interessi materiali, anche immediati. Il carbone non viene distribuito alle famiglie operaie, come chiedono il Partito comunista e spesso le organizzazioni sindacali e i comitati di fabbrica: esso resta nei depositi delle miniere – finché gli autocarri dell’occupante non vengono a caricarlo; da parte sua il padrone si accontenta nel migliore dei casi di una energica protesta. La «resistenza passiva» degli industriali assume sempre più l’aspetto di una commedia.

La tragedia si svolge nei quartieri operai: qui l’aumento dei prezzi, la crescente disoccupazione e la miseria, provocano esplosioni di collera e manifestazioni di piazza represse dagli occupanti: a Beuer-Recklinghausen essi impiegano i carri armati contro gli operai che sfilano. A Essen, il 31 marzo, i 53 mila operai della Krupp sospendono il lavoro alla notizia dell’arrivo di una commissione alleata, poi, alla notizia che l’esercito francese requisisce gli autocarri che servono a trasportare i loro approvvigionamenti, manifestano direttamente contro l’occupante: tredici morti e quarantadue feriti. Essi praticamente non reagiranno quando, qualche giorno dopo, verrà arrestato lo stesso Gustav Krupp. I lavoratori sono di fatto presi tra due fuochi e le loro reazioni spontanee, talvolta attizzate dai provocatori, li portano spesso a subire colpi da entrambe le parti.[3]

Dal canto suo, all’epoca, la Rote Fahne della KPD uscirà con il titolo: Proletari assassinati a Essen. Gli operai della Krupp vittime del militarismo francese e delle provocazioni nazionaliste tedesche.

Almeno nei primi mesi dell’occupazione, il Partito Comunista Tedesco, complessivamente, non manifesta dubbi di sorta sull’autentica natura del conflitto in corso e su quella della cosiddetta “resistenza passiva”: in scena non c’è il dramma della “nazione vilipesa” ma una farsa in cui il proletariato tedesco deve figurare nella parte di chi viene realmente gabbato e randellato da tutti gli altri protagonisti sul palco.

Nonostante il gioco sporco dei nazionalisti, che, con atti terroristici e sabotaggi, cercano scientemente di provocare le rappresaglie degli occupanti per esacerbare la classe operaia tedesca ed approfondire il fossato che la divide da quella francese, le reazioni difensive del proletariato tedesco conservano prevalentemente un marcato carattere di classe. Nella stragrande maggioranza dei casi l’intento è quello di difendere fisicamente le proprie condizioni di esistenza contro le prepotenze dell’occupante e contro il doppio gioco della borghesia sfruttatrice tedesca, per mezzo delle classiche armi di lotta del proletariato: gli scioperi, le manifestazioni, i picchetti, eventualmente e laddove possibile, anche armati[4].

In questo contesto, e nonostante le innegabili difficoltà, l’assunzione di una ferma posizione classista e internazionalista consente alla KPD di rafforzare ed estendere la propria influenza tra gli operai della Ruhr, e le sortite come quella di Thalheimer su un «ruolo obiettivamente rivoluzionario» della borghesia tedesca rimangono casi isolati e fortemente criticati all’interno del partito e del Comintern[5].

Tuttavia, con il passare delle settimane, da un lato l’assai più appariscente aumento dell’influenza sulla piccola borghesia e sugli strati intermedi di un nazionalismo in veste “popolare” e “plebea” e, dall’altro, l’addensarsi di nubi minacciose sui rapporti internazionali della Russia sovietica, sono due elementi che confluiscono, rafforzandosi l’un l’altro, nell’elaborazione di una linea politica che, prevalendo all’interno di un partito ancora giovane e dalla non ancora solida formazione marxista, ma il cui internazionalismo non era ancora stato intaccato dagli aspetti più ambigui della tattica del fronte unico, metterà nettamente ai margini l’interpretazione rivoluzionaria – per quanto fondata su di un’analisi insufficiente e su un’impostazione teoricamente erronea – del fronte unico stesso. In assenza di una visibile ripresa di lotte rivoluzionarie nei Paesi capitalistici occidentali e in seguito alla percezione di un clima minaccioso da parte dell’Intesa, le esigenze di sicurezza e stabilità del capitalismo di Stato in Russia, che da tempo stanno filtrando all’interno del partito bolscevico, si esprimono mediante la ricerca di alleati statual-borghesi che possano in una certa misura garantire quella sicurezza e quella stabilità. Nella misura in cui, per le forze che si fanno rappresentanti degli interessi capitalistico-statali in Russia, l’estensione del conflitto rivoluzionario rappresenta una minaccia e non un’opportunità, l’azione del proletariato internazionale deve essere rigorosamente confinata nei limiti di una pressione politica di massa sulle istituzioni degli Stati borghesi che si reputano maggiormente disponibili ad un’alleanza con l’URSS. In una Germania relegata tra i “paria” della comunità internazionale, analogamente all’URSS, la consegna della conquista della maggioranza della classe operaia si trasforma dunque nella conquista della maggioranza tout court, nella conquista della maggioranza del “popolo tedesco”.

All’Esecutivo allargato del Comintern del giugno 1923, mentre il comunista tedesco Jacob Walcher[6] valuta in circa 2 milioni e 433 mila il numero degli operai influenzati e direttamente controllati dai militanti comunisti nei sindacati; mentre Fritz Heckert[7] valuta che una percentuale del 30-35% dei lavoratori organizzati in Germania è influenzata dalla KPD, mentre le liste sostenute dalla KPD nelle elezioni dei delegati per il congresso nazionale della Deutscher Metallarbeitverband (il sindacato dei metallurgici) ottengono un terzo dei mandati e la maggioranza assoluta dei voti nei principali centri industriali tedeschi, Radek pronuncia il suo celebre discorso su Schlageter, nel corso del quale rievoca le “imprese” dei Freikorps del Baltico contro la Rivoluzione in Russia in questi termini:

All’est un popolo era impegnato nella lotta. Affamato, congelato, si sollevava contro l’Intesa su quattordici fronti: la Russia sovietica. Su uno di questi fronti si trovavano ufficiali e soldati tedeschi. Schlageter combatteva nel Freikorps Medem, che andò all’assalto di Riga. Non sappiamo se il giovane ufficiale capisse o meno il senso di ciò che stava facendo. L’allora commissario governativo tedesco, il socialdemocratico Winning, e il generale von der Goltz, che conduceva le operazioni nella regione baltica, sapevano che cosa facevano. Con i loro servigi da sgherri contro il popolo russo si volevano conquistare la benevolenza dell’Intesa. […] Dal Baltico Schlageter si è spostato nella regione della Ruhr. E non nel 1923, ma già nel 1920. Sapete che cosa significa? Che ha preso parte all’attacco del capitale tedesco contro i lavoratori della Ruhr, che ha combattuto con le truppe incaricate di sottomettere i minatori della Ruhr ai re del ferro e del carbone. I reparti di Watter, nelle cui file combatteva, sparavano le stesse pallottole che usa il generale Degoutte per fermare i lavoratori della Ruhr. Non abbiamo motivo di supporre che sia per ragioni egoistiche che Schlageter abbia aiutato a sconfiggere i minatori affamati.[8]

Come Radek, non sappiamo se Leo Schlageter capisse ciò che faceva da membro dei Freikorps in Lettonia nel 1919, possiamo però sapere con certezza cosa vi faceva e non abbiamo ragione di dubitare che il suo grado di consapevolezza delle proprie azioni fosse inferiore a quello del suo camerata Ernst von Salomon, che descrive da protagonista e da nostalgico l’“epopea” baltica:

C’erano nel Baltico molte compagnie, corpi ordinati sotto capi sicuri di sé, regolarmente arruolati e che marciavano obbedendo ad ordini severi, orde di avventurieri irrequieti che cercavano la guerra, il bottino e il disordine, corpi patriottici che non si rassegnavano alla rovina della patria e volevano difendere i confini dall’irrompente torrente rosso. C’era anche la Landeswehr baltica, reclutata dai signori di quella regione decisi a salvare a ogni costo i loro sette secoli di tradizione, la loro solida, raffinata cultura e il baluardo orientale della signoria tedesca. […] Ecco i prigionieri: uno ha un’uniforme tedesca da ussaro, azzurra, e una sciarpa rossa intorno alla vita. «Tedeschi, eh?» urla Hoffmann precipitandosi su costui. «Tedeschi, eh?» gorgoglia assestando al prigioniero un pugno sulla faccia. Il prigioniero indietreggia barcollando, si raddrizza. Adesso restituirà il colpo, penso. Ma l’uomo ha una reazione inesplicabile: i muscoli del suo viso si irrigidiscono, impallidisce come non ho mai visto impallidire un essere umano. Due dei nostri trattengono Hoffmann, che vorrebbe precipitarsi di nuovo sull’uomo e continua a sibilare il suo: «Tedeschi, eh?». «Sì», risponde ad un tratto il prigioniero, schiacciando la parola fra i denti. «Sono tedesco, sì», dice con odio indicibile, «laggiù siamo in molti, tedeschi. Non avremo mai pace», prorompe a un tratto «finché questa maledetta Germania non sarà stata distrutta». Sono in tutto otto prigionieri, di cui tre lettoni, due cechi, un polacco, un ussaro del Volga, un ucraino e il tedesco. Il tedesco era un prigioniero di guerra in Siberia, poi si è arruolato nelle truppe rosse e appartiene al reggimento Liebknecht, composto in gran parte di prigionieri di guerra tedeschi e austro-ungarici. Viene dalla provincia di Sassonia e prima era montatore. «No», dice, sottoposto a un breve interrogatorio, «non ho parenti in Germania». Sì, è comunista. Comandava la guarnigione del casale assaltato. Kleinschroth è caduto ferito nelle loro mani ed è stato ucciso per suo comando. Quello che ora accadrà di lui non gl’importa. […] I prigionieri vengono condotti al muro del fienile. Si dispongono tranquilli davanti ai fucili. I lettoni e i cechi corrono quasi al loro posto, fissando cupi, rigidi e tormentati, le bocche delle armi. Il russo e l’ucraino, due contadini con le uniformi completamente a brandelli e con bionde barbe arruffate, si tolgono i berretti come se volessero farsi il segno della croce. Ma poi ci ripensano. Il polacco rabbrividisce e si mette a piangere piano. Il tedesco raggiunge indifferente il suo posto. Il tenente Kay, che ha preso parte all’assalto al casale, si volta e si allontana. Guardo in direzione di Hoffmann, che continua a scavare la tomba di Kleinschroth. Sto per raggiungerlo quando la salva esplode.[9]

Contrariamente a Radek, tuttavia, non attribuiamo eccessivo interesse al quesito se le “ragioni” dei carnefici della controrivoluzione fossero o meno “egoistiche”. Condividiamo altresì la valutazione di Pierre Broué sui membri delle organizzazioni nazionaliste tedesche nel 1923:

Il nucleo […] è sempre quello del dopoguerra: sono i teppisti dei corpi franchi, avventurieri esaltati, xenofobi, antisemiti, bestie da preda incapaci di vivere senza uniforme, senza armi, senza violenza, le teste calde e i disperati, tristi prodotti di quattro anni di guerra e di un lungo addestramento. Ma, a partire dal 1923, il movimento nazionalista cambia volto: con Adolf Hitler e i nazionalsocialisti comincia l’era dei demagoghi e l’azione di massa si sostituisce ai colpi di mano.[10]

Non c’è dunque bisogno di essere particolarmente “romantici” per avvertire un acuto senso di fastidio nel leggere le melliflue parole di Radek nel commemorare Schlageter. È sufficiente essere dei marxisti che non confondono il realismo politico con forzature ideologiche utili a coprire interessi estranei al proletariato per mezzo di grossolani equilibrismi retorici. Il marxismo non rifiuta il realismo politico, ciò che gli preme è stabilire quali interessi concreti un certo “realismo” esprima. Il riconoscimento della buona fede, del coraggio o persino dell’eroismo dell’avversario non ha nessun legame con la valutazione del suo campo storico. E questo eventuale riconoscimento non può dunque essere motivo di concessioni di sorta alle ragioni di questo campo. Il nemico è nemico, anche se eroico, così come la barbarie non è meno barbarie se commessa dal nostro campo. Tuttavia, così come l’eroismo non muta di segno la causa del nemico, così la barbarie, la crudeltà, o persino la mascalzoneria, in una certa misura inevitabili nei rivolgimenti rivoluzionari che smuovono una classe oppressa e disumanizzata, non possono mutare il segno della causa dell’emancipazione umana. Il marxismo non cade nell’infantilizzazione ideologica borghese che pretende di accumulare tutte le buone qualità nel proprio schieramento e tutti i difetti in quello dell’avversario, ma al tempo stesso non fa concessioni alla sua causa in virtù del suo eventuale eroismo ed onestà.

Non si può non rilevare, in dirigenti del Comintern come Radek, un certo scadimento della considerazione riservata ai propri interlocutori, russi e internazionali, cui si pretende di propinare – e purtroppo generalmente si propina – un guazzabuglio eclettico come quello in cui si afferma che

Il nazionalbolscevismo rappresentava nel 1920 un tentativo a favore di certi generali; oggi esprime l’unanime convinzione che la salvezza è nelle mani del partito comunista. Solo noi siamo in grado di trovare una via d’uscita alla situazione attuale della Germania. Porre la nazione in primo piano significa, in Germania come nelle colonie, compiere un atto rivoluzionario.[11]

È lecito chiedersi se la vera, unica, “differenza” concettuale tra il nazionalbolscevismo del 1920 e quello del 1923 non consista banalmente nel fatto che ora il nazionalbolscevismo ha ottenuto il placet di Mosca, e dunque chiedersi quale mutamento reale abbia prodotto questa svolta.

Per giustificare in senso “rivoluzionario” una palese apertura di credito alla piccola borghesia tedesca, che si vorrebbe equiparare a quella nazionalista-rivoluzionaria dei Paesi oppressi, mentre il grande capitale tedesco – traditore della “causa della nazione” – viene assimilato alle borghesie comparadore delle colonie, viene “fabbricata”, appoggiandosi su qualche brano di Lenin espunto dal suo contesto, la teoria della semicolonizzazione tedesca.

A proposito dell’economia postbellica tedesca Arthur Rosenberg scrive:

La quantità eccedente dei generi alimentari e delle materie prime consumate dal popolo tedesco era pagata, prima della guerra, con i proventi della fiorente esportazione e con gli utili dei capitali impiegati all’estero. La guerra mondiale rese impossibile l’investimento di capitali all’estero e annientò l’esportazione. Pur prescindendo totalmente dalle richieste di riparazione dell’Intesa, dopo il 1918 era un compito disperato per l’economia tedesca pagare le forniture estere il cui fabbisogno era cresciuto per la diminuzione delle materie prime e dei generi alimentari, dovuta alla perdita dell’Alsazia-Lorena, dei territori polacchi e delle colonie. Questi problemi connessi alla bilancia commerciale e alla bilancia dei pagamenti e alle riparazioni portarono nel dopoguerra ad una grande crisi permanente dell’economia tedesca.[12]

Sull’inflazione tedesca Rosenberg aggiunge:

A partire dalla fine della guerra la valuta tedesca subì una progressiva svalutazione, poiché le riserve tedesche in oro e in divise non erano assolutamente sufficienti a pagare i necessari acquisti all’estero, anche a prescindere dalle richieste di riparazione dell’Intesa. Si dovette quindi cercare di ottenere merci dall’estero in cambio di marchi-carta, la cui massiccia offerta sul mercato estero ne abbassò a tal punto il valore da ridursi a circa un terzo verso la metà del 1919. Col crescente indebitamento della Germania verso l’estero non era possibile evitare una certa svalutazione del marco; neppure potenze vincitrici che si trovavano in una situazione economica incomparabilmente migliore della Germania, come l’Italia e la Francia, riuscirono ad evitare nel dopoguerra l’inflazione.[13]

La crisi tedesca, accentuata dalle richieste di riparazioni, giustificava tuttavia la definizione della Germania come semicolonia?

Una potenza dell’imperialismo, capace di sostenere militarmente per quattro anni due fronti di guerra contro le più grandi potenze della sua epoca e senza subire danni sostanziali al proprio apparato produttivo[14], poteva trasformarsi improvvisamente in un Paese capitalisticamente arretrato in virtù della perdita delle sue colonie (poche e non eccessivamente rilevanti dal punto di vista economico), di alcune parti del suo territorio (non vitali per la sua sopravvivenza come Stato-nazione) e dell’obbligo di fornire riparazioni alle potenze vincitrici della guerra?

Se la Germania fosse stata deindustrializzata, se il suo apparato produttivo fosse stato completamente smantellato per trasformarla in un Paese agricolo o in una riserva di materie prime per l’industria delle potenze vincitrici, la tesi della semicolonizzazione avrebbe potuto avere una qualche legittimità, ma in realtà, dal momento che la Germania era prevalentemente un Paese importatore di materie prime agricole e per l’industria sia prima che dopo la perdita dell’Alsazia-Lorena e dei territori polacchi, come avrebbe potuto in seguito a queste perdite pagare le riparazioni di guerra se non prevalentemente con prodotti industriali? (va da sé che le riparazioni corrisposte in valuta tedesca avrebbero avuto la funzione di rendere possibile l’acquisto di beni tedeschi, motivo in più per accentuare una svalutazione competitiva del marco tedesco). Sarebbe alquanto inconsueto che delle potenze coloniali, generalmente ad alto tasso di industrializzazione, permettessero ai prodotti industriali provenienti dalle proprie colonie di inondare – perdipiù gratuitamente – i propri mercati, danneggiando in tal modo l’industria della madrepatria. Eppure, secondo i fautori della tesi della semicolonizzazione tedesca, precisamente questa sarebbe stata la politica delle potenze dell’Intesa, in primis della Francia, nei confronti della Germania sconfitta.

Ma era poi auspicabile per il capitale delle maggiori potenze dell’Intesa trasformare la Germania in una semicolonia? Dal momento che la Germania non poteva rappresentare un mero bacino di materie prime, considerato che le sue capacità tecnico-produttive erano rimaste pressoché inalterate, e che una delle caratteristiche fondamentali del capitalismo maturato imperialisticamente è l’esportazione di capitali (il capitale non si valorizza nei deserti industriali) appare chiaramente come il vero bacino a cui erano interessate le principali potenze vincitrici della Prima guerra mondiale fosse quello di plusvalore da estorcere alla classe operaia tedesca.

È a questo fondamentale interesse ed alle difficoltà delle potenze vincitrici più deboli che va fatto risalire il contrasto all’interno dell’Intesa riguardo alla politica da adottare nei confronti della Germania. Se da un lato le aspirazioni egemoniche della Francia sul continente esigevano un prolungato indebolimento della potenza tedesca, dall’altro, il versamento delle riparazioni tedesche in merci non soltanto non avrebbe giovato alla Francia nella ricostruzione industriale del Nord devastato dalla guerra ma avrebbe altresì indebolito l’economia francese; dunque, l’assimilazione del bacino carbonifero tedesco diventava un imperativo da sostenere economicamente per mezzo di accordi con le aziende private tedesche, politicamente con l’appoggio a spinte autonomiste (ad esempio in Renania) e militarmente con l’occupazione del territorio interessato.

Altre potenze dell’Intesa, come gli Stati Uniti, che non avevano subìto le stesse conseguenze del conflitto sperimentate dalla Francia e che avevano una grande esigenza di valorizzare il proprio capitale sovraccumulato, o come l’Inghilterra, estremamente attenta a non consentire l’imporsi di una qualsiasi potenza egemone in Europa (pericolo per scongiurare il quale aveva appena combattuto e sconfitto il Reich tedesco), potevano permettersi una politica maggiormente “comprensiva” nei confronti della Germania.

Scrive Rosenberg:

Quando per il desiderio di investire nella maniera più proficua i grandi capitali accumulati cominciò a svilupparsi un mutamento di indirizzo nei più autorevoli ambienti finanziari e politici americani, l’attenzione cadde sulla Germania, la quale, sebbene nel 1923 fosse completamente dissestata, presentava una situazione caratterizzata simultaneamente da una grande penuria di capitali e da una forte capacità produttiva. Qualora si fosse riusciti a ristabilire la normalità in Germania, a risolvere le sue crisi politiche all’interno e all’estero in maniera di trasformarla in una debitrice corretta e fidata, si sarebbe allora aperto un campo addirittura illimitato di possibilità finanziarie.[15]

Il che è esattamente quanto avvenne, a partire dal 1924, con il Piano Dawes.

La massiccia esportazione di capitali in un Paese che, benché sconfitto in guerra, abbia conservato intatte le basi della propria potenza industriale non può che accelerare il processo di restaurazione della potenza politica e militare. Per quanto la Germania del primo dopoguerra avesse perso o comunque disponesse in misura molto ridotta di quella forza militare che accompagna il rango di potenza dell’imperialismo, continuava tuttavia ad essere perfettamente integrata nel tessuto imperialista del capitalismo. Pur non disponendo più, nell’immediato dopoguerra, di un esercito in grado di competere nel confronto bellico con le altre potenze, il pompaggio internazionale di capitali in un’economia con un altissimo tasso di sfruttamento del proletariato[16] permise alla Germania, seppure in maniera contraddittoria e non lineare, di riacquisire rapidamente il rango di potenza mondiale, di ricostruire e ampliare la propria capacità bellica, di partecipare da protagonista ad una nuova guerra imperialista mondiale, per la spartizione dei mercati e per l’esitazione di capitali sovraccumulati da valorizzare, a soli venti anni dalla conclusione della prima e a meno di dieci dalla crisi del 1929.

Prescindendo da questi esiti, che non potevano certo essere noti nel 1923, l’esistenza stessa di una grande borghesia industriale, capace non soltanto di estorcere gigantesche quantità di plusvalore al proletariato tedesco, ma altresì di esportare merci e capitali[17] nonché di tessere una rete di rapporti internazionali nell’ottica di riacquisire la propria posizione nel consesso delle potenze mondiali, erano elementi già all’epoca[18] sufficienti per scartare come inconsistente qualsiasi tesi sul riproporsi di una “questione nazionale” tedesca. La debolezza economica, la perdita di forza militare e persino una qualche forma di tutela politica nei confronti di una potenza dell’imperialismo che sia stata sconfitta in una guerra che non ne abbia però annientato le fondamenta industriali e nella quale si conservino i margini di un’azione politica autonoma, non sono sufficienti ad alterare la natura imperialistica del Paese in questione, dunque il carattere profondamente, inequivocabilmente reazionario della sua borghesia, grande, media e piccola[19].

continua…


NOTE

[1] Intervento di Paul Frölich al Reichstag, cit. in P. Broué, op.cit., p. 646.

[2] A. Rosenberg, Storia della repubblica di Weimar, 1934, Sansoni, Firenze, 1972, pp. 135-136.

[3] P. Broué, op. cit., p. 644.

[4] «Rilanciata nel corso della campagna seguita all’assassinio di Rathenau, la parola d’ordine dell’organizzazione dell’autodifesa operaia comincia a concretizzarsi al tempo dell’occupazione della Ruhr: dapprima nella stessa Ruhr, dove in seguito all’espulsione delle forze di polizia tedesche e alla continua infiltrazione degli uomini dei corpi franchi, essa diventa una necessità impellente per tutti i lavoratori, poi nel resto del paese». Cfr. P. Broué, op. cit., pp. 669-670.  A proposito delle Centurie Proletarie, che rappresentano la forma specifica in cui si manifesta la necessità dell’autodifesa operaia nel 1923, Broué riporta le parole del dirigente comunista Paul Böttcher: «Non si tratta di un gioco militare… le nostre centurie non hanno obiettivi militari… in caso di provocazioni e di attentati terroristici reazionari, esse devono essere pronte a reagire immediatamente…»

[5] Tra coloro che respinsero prontamente questa “strana” interpretazione vi furono i comunisti cecoslovacchi R. Sommer e A. Neurath, che ne avvertirono immediatamente il fetore à la “1914”. Pur di depotenziare la validità di queste critiche si è voluto attribuirle esclusivamente alle dinamiche dello scontro interno tra i dirigenti russi ed i loro rispettivi sostenitori in Europa, quando non si è arrivati ad insinuare, con una forzatura alquanto grossolana, che l’internazionalismo della loro posizione fosse il prodotto dell’esigenza di due dirigenti appartenenti alla minoranza tedesca dei Sudeti di non urtare il sentimento nazionale dei militanti comunisti cecoslovacchi, il cui Stato aveva ottenuto l’indipendenza in virtù del Trattato di Versailles,. Cfr. C. Basile, saggio introduttivo a Victor Serge, op. cit., p. 195.

[6] Jacob Walcher (Wain, 7 maggio 1887 – Berlino Est, 27 marzo 1970). Di famiglia operaia. Tornitore. Nella SPD dal 1906. Nel 1910-1911 frequenta la scuola di partito e in seguito è giornalista a Stoccarda. Organizzatore del gruppo spartachista nella stessa città nel 1914, viene arrestato l’anno successivo e mobilitato. Presidente del congresso fondativo della KPD, porta con sé più del 50% degli indipendenti di Stoccarda. Membro della Centrale nel 1920 è un sostenitore della partecipazione allo sciopero generale contro il Putsch di Kapp. Segretario della Centrale e responsabile del lavoro sindacale nel 1921, nel 1923 tiene informato Trotsky sulla situazione tedesca. Espulso come destro nel 1928, entra nella KPO e poi nella SAP. Emigrato nel 1933, si avvicina brevemente a Trotsky. Internato in Francia nel 1939, nel 1941 riesce a raggiungere gli Stati Uniti, dove partecipa al comitato per una Germania democratica. Nel 1946 torna nella RDT ed è ammesso nella SED, dalla quale viene espulso nel 1949, per essere reintegrato nel 1956.

[7] Friedrich Carl Heckert, detto Fritz (Chemnitz, 28 marzo 1884 – Mosca, 7 aprile 1936). Di famiglia operaia, muratore. Nel 1902 entra nella SPD. Lavoratore migrante, dal 1908 al 1911 si trasferisce in Svizzera, dove entra in contatto con i bolscevichi. Nel 1912 dirige il sindacato degli edili a Chemnitz, dove organizza un forte gruppo di spartachisti e in cui dirige localmente la USPD. Arrestato nell’ottobre 1918, in novembre è presidente del locale consiglio degli operai e soldati. Membro fondatore della KPD, è membro supplente della Centrale del partito nel 1919 e titolare dal 1921. Vice della sezione sindacale della Centrale della KPD ha un ruolo importante nei preparativi insurrezionali clandestini del 1923. Nell’ottobre è ministro dell’economia nel governo sassone di Zeigner. Membro della destra del partito, passa al centro staliniano. Dal 1928 è membro del Presidium del Comintern. Gravemente ferito dalle SA naziste, muore a Mosca.

[8] K. Radek, Leo Schlageter, il vagabondo nel nulla, in Victor Serge, op. cit., pp. 443-444.

[9] E. von Salomon, I proscritti, Baldini & Castoldi, Milano, 2008, pp. 70-76.

[10] P. Broué, op. cit., p. 670.

[11] P. Broué, op. cit., p. 674.

[12] A. Rosenberg, op. cit., p. 32.

[13] Ibidem, p. 34.

[14] «… un paese le cui fabbriche erano tecnicamente assai moderne e capaci di una gigantesca produzione…». A. Rosenberg, op. cit., p. 178. «La rivoluzione tedesca si svolge in un paese fortemente industrializzato, di alto livello tecnico, il cui proletariato possiede un grado notevole di qualificazione professionale. Storicamente parlando, il proletariato tedesco non può correre il rischio perciò di prendere prematuramente il potere, giacché le condizioni obiettive della rivoluzione sono mature da tempo.» P. Broué, op. cit., p. 728.

[15] A. Rosenberg, op. cit., p. 166.

[16] «Fin dal 1921 l’intera borghesia industriale, commerciale e finanziaria della Germania ha costruito un sistema speculativo sulla caduta del valore del marco. Il costante deprezzamento della carta-moneta emessa dalla Reichsbank ha consentito “impercettibili” tagli ai salari, rendendo la competitività tedesca insuperabile in quasi tutti i mercati mondiali. Alla lunga ne è risultata una riduzione delle energie dei lavoratori attraverso la sottonutrizione e il supersfruttamento della forza-lavoro, il logoramento degli impianti industriali e la mancanza di innovazione tecnologica. Ma, a parte ciò, si facevano ottimi affari. I profitti della Germania sono stati convertiti in dollari, sterline inglesi, yen e pesetas, investiti con vantaggio e sicurezza in Sudamerica o in qualsiasi altra regione». Albert (Victor Serge), I ricchi contro la nazione, novembre 1923, in Victor Serge, op.cit., p. 351.

[17] Ad esempio, nella Russia sovietica, in seguito al Trattato di Rapallo, ma anche altrove (vedi nota precedente).

[18] Effettivamente, già nel 1924, Amadeo Bordiga rifiutava su queste basi la tesi di una “quistione nazionale” tedesca. Cfr. A. Bordiga, Il comunismo e la quistione nazionale, Prometeo, Rivista mensile di cultura sociale, n. 4 del 15 aprile 1924. Articolo presente nelle appendici documentarie di questo volume.

[19] Seguendo il criterio opposto, si potrebbe definire una “semicolonia” persino il Giappone, una potenza imperialistica sconfitta nella Seconda guerra mondiale, la cui Costituzione post-bellica è stata dettata dagli Stati Uniti e che è peraltro sottoposta a forti limitazioni nelle possibilità di riarmo, considerandone dunque “progressivo” il nazionalismo.

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