Hugo Urbahns – PAROLE DI UN INSORTO

Hugo Urbahns

Pubblichiamo la dichiarazione rilasciata da Hugo Urbahns al processo contro i dirigenti del Partito comunista di Germania, tenutosi cento anni fa a seguito della fallita insurrezione di Amburgo dell’ottobre 1923. Dal testo di Larisa Rejsner, Amburgo sulle barricate, Movimento Reale, Roma, 2023, pp. 249-251. Originariamente pubblicato su La Correspondance Internationale, n. 12, 22 febbraio 1925, p. 100.


«Meglio bruciare nel fuoco della rivoluzione che marcire sul letame della democrazia»* 

Il processo ai comunisti di Amburgo si avvia alla conclusione. All’udienza del 14 febbraio, dopo l’arringa finale, il compagno URBAHNS ha rilasciato le sue ultime dichiarazioni. Ha parlato con il linguaggio deciso di un rivoluzionario. Le sue dichiarazioni definiscono e mettono in piena luce i risultati morali dell’insurrezione del 1923. I passaggi migliori sono riportati di seguito:

L’accusa ha parlato di giustizia ed ha invocato i morti. Noi indichiamo le migliaia di casi in cui i più eminenti politici tedeschi e gli uomini che dirigono la vita economica del Paese hanno innumerevoli morti sulla coscienza. Di chi sono vittime le donne, gli anziani, i pensionati che accendono le loro stufe a gas? Chi è responsabile dei bambini che muoiono di fame? Tutte queste morti pesano ben più delle sofferenze della polizia e della popolazione neutrale nella guerra civile. Tutte queste morti pesano ben più di quelle di coloro che sono caduti nelle necessarie battaglie di strada.
Si è parlato di una giustizia rigorosa che misurasse colpo per colpo. Ma dov’è questa giustizia? Il giovane comunista Jungmichel di Bergdorf è stato vendicato? – Riconosciamo il vostro diritto di trattarci come nemici mortali della società borghese e colpevoli di alto tradimento. Vi neghiamo il diritto di condannarci in nome della giustizia.
Le leggi sono state sospese da un governo che ha calpestato la Costituzione. Non avete il diritto di invocare le leggi contro di noi.
Un pubblico ministero ha potuto dire che la necessità non conosce legge. Quindi coloro che hanno combattuto sulle barricate ad Amburgo avevano ragione. La necessità non conosce legge. Non avrebbero potuto fare altrimenti!
L’accusa sostiene che ero a conoscenza dei preparativi dell’insurrezione del 23-24 ottobre. Che avrei dato l’ordine di iniziare l’azione, che poi mi sarei messo in viaggio; quindi, che sarei tornato pacificamente a casa il 23 ottobre, mentre erano in corso gli scontri. L’accusa ha ritenuto di dover stabilire che non ero direttamente coinvolto negli scontri di piazza. Rifiuto questa giustizia ipocrita. Siete i miei nemici di classe e non avete il diritto di giudicarmi. Qui io subisco la violenza. Ma il tribunale del proletariato, davanti al quale un giorno compa-riremo tutti, mi manderebbe al patibolo come un miserabile e un traditore se, sapendo che avremmo combattuto, me ne fossi tornato pacificamente a casa.
La verità è che l’accusa non sa nulla degli eventi che hanno preceduto e accompagnato l’insurrezione. Essa si riduce a costruzioni ipotetiche. È solo grazie a queste ipotesi che otto militanti, me compreso, si trovano sul banco degli imputati. Otto uomini contro i quali, nel giro di un anno, l’istruttoria non è stata in grado di produrre prove sufficienti!
L’istruttoria ha prodotto contro di noi spie pietose come Selbiger, un neuropatico come Felix Neuman, che ora fa la sua parte nel processo di Lipsia, esperti socialdemocratici come Schultz ed Ehrenteit. Schultz della Lega Repubblicana nell’ottobre 1923 ha combattuto dall’altra parte delle barricate, a fianco della polizia e della fanteria di marina. Qui ha svolto il suo mestiere.
Ringraziamo l’accusa per averci permesso di parlare dall’alto di questa tribuna al proletariato tedesco. Condannateci. Sia che ci mandiate per anni in colonia penale, in prigione o in una fortezza, l’onore del combattente rimane nostro. Il comunismo e l’idea dell’insurrezione armata si faranno strada nella classe operaia, nonostante i vostri verdetti, se non grazie ad essi.
Migliaia di noi hanno già varcato la soglia delle prigioni, a testa alta, con questo grido sulle labbra: «Viva il Partito Comunista!» Un partito che conta tanti martiri e tanti combattenti coscienti, un partito che in Russia ha saputo condurre milioni di uomini alla vittoria attraverso i più grandi sacrifici, questo partito non deve temere i vostri colpi. Voi ci condannerete, ma il nostro pensiero sarà ancora più vivo. Le masse lavoratrici diranno con noi: «È meglio bruciare nel fuoco della rivoluzione che marcire sul letame della democrazia».

Alle parole di Urbahns, in tutta la sala è scoppiato l’applauso.
Il verdetto sarà emesso il 18 febbraio [1925].


NOTE

* Hugo Urbahns (Lieth, 18 febbraio 1890 – Stoccolma, 16 novembre 1946). Di famiglia contadina. Maestro. Simpatizzante socialista prima della guerra, nel 1914 viene arruolato. Nel 1918 aderisce allo Spartakusbund, poi alla KPD. Militante tra i più noti della sinistra del partito dal 1921, nel 1923 è segretario del distretto della Wasserkante. Viene arrestato il 13 gennaio 1924 e trattenuto come capo dell’insurrezione di Amburgo, sebbene eletto membro del Reichstag nel maggio 1924 (e di nuovo nel dicembre 1924). Dopo un anno di custodia, compare in tribunale nel gennaio 1925 come principale accusato e dichiara di essere stato, all’epoca dell’insurrezione, Polleiter del distretto di Wasserkante, assumendosi ogni responsabilità. Condannato a dieci anni di fortezza, viene rilasciato il 26 ottobre 1925 perché il Reichstag insiste sulla sua immunità parlamentare. Espulso dalla KPD nel novembre 1926, fonda nel 1928 il Leninbund, un’organizzazione antistalinista. Nel 1930, convinto del fatto che l’Unione Sovietica stava muovendosi verso il capitalismo e che stesse perseguendo una politica imperialista nei confronti della Cina, rompe con Trotsky. Costretto ad emigrare dalla Germania nel 1933, trova rifugio in Cecoslovacchia e poi in Svezia. Al tempo dei processi di Mosca, l’ambasciatrice sovietica a Stoccolma, Alexandra Kollontaj, tenta di farlo espellere dalla Svezia, ma nessun altro Paese gli concede il visto d’ingresso. Alla fine della Seconda guerra mondiale rifiuta di tornare in Germania e rimane in Svezia, dove muore nel 1946.

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