LA QUESTIONE DELL’ESERCITO EUROPEO

TRA FORMULE IDEOLOGICHE E NODI REALI

Pubblichiamo e condividiamo un articolo dei compagni della redazione di “Prospettiva Marxista”, pubblicato sul numero 117 della rivista (maggio 2024).


L’acuirsi delle conflittualità lungo alcune linee di faglia degli assetti imperialistici sta comprensibilmente alimentando formule ideologiche in cui si esprimono tanto le esigenze delle borghesie e delle centrali imperialistiche di attrezzare il proprio “fronte interno” quanto l’organica incapacità borghese di affrontare coerentemente, sul piano dell’analisi politica e della riflessione storica, quei nodi, quelle contraddizioni che derivano dalla stessa natura di classe della propria condizione di dominio e del proprio esercizio di potere.

È tornata in auge, come ciclicamente si è già verificato, una specifica formulazione ideologica sul versante del rapporto tra realtà e mito, tra possibilità e velleità, dell’unificazione politica dell’imperialismo europeo. Questa formulazione ha acquisito un nuovo slancio nella sua circolazione dopo un lungo periodo di comprensibile marginalizzazione, dati gli scarsi riscontri sul piano degli effettivi sviluppi dei rapporti tra gli Stati membri dell’Unione europea. Tale formula ideologica prevede che i Paesi europei arrivino a dotarsi di un esercito comune sulla spinta della comprensione da parte delle loro élite – consapevolezza che sarebbe resa ancora più chiara e incalzante dal moltiplicarsi delle situazioni di conflitto a livello globale, dall’Ucraina alla Striscia di Gaza e al Mar Rosso, e dagli scenari di un eventuale disimpegno statunitense da accordi e dispositivi militari collettivi, Nato in primis – dell’inadeguatezza della dimensione nazionale a fronte delle sfide poste da concorrenti forti di una stazza continentale (Stati Uniti, Cina, India). I tempi della traduzione di questa consapevolezza in effettive istituzioni, in una realtà politica unitaria e rappresentata da una compiuta dimensione statuale continentale, sarebbero scanditi sostanzialmente solo dai travagliati passaggi imposti dalle forche caudine di un consenso democratico e di massa che si è dimostrato distante da questa suprema “coscienza” e suscettibile di essere traviato e manipolato da forze borghesi arretrate, ignare della necessità di unificarsi o troppo marginali e localistiche per riconoscersi in questo obiettivo. Occorre impostare la questione su altre basi, facendo innanzitutto chiarezza su alcuni termini della questione stessa, sottraendoli a deformazioni ideologiche e alla vulgata falsa e fuorviante di una grossolana teleologia di stampo borghese. Quando si parla di esercito europeo non si può che presupporre uno Stato europeo. A meno che per esercito europeo non si intendano forme stabili di collaborazione tra forze armate nazionali, centri di comando congiunti in aree e per compiti specifici (situazioni per altro già in essere da tempo senza che si siano rivelate il mitico embrione destinato inevitabilmente e gradualmente ad evolvere pienamente in esercito europeo), questo dispositivo militare non può che essere integrato e collegato con un potere politico europeo, in grado di stabilirne obiettivi, criteri di impiego, modalità di coinvolgimento in ragione di interessi riconosciuti e assunti come propri. Un esercito europeo – se veramente di esercito europeo si tratta – non può che rispondere a comandi posti in condizione di superiorità gerarchica, di priorità politica, rispetto a quelli che eventualmente continuano a sovrintendere unità e strutture militari ancora organizzate su base nazionale. Un esercito europeo, così come una politica estera europea, non può essere considerato veramente tale senza l’unificazione politica dell’Europa in un nuovo Stato unitario.

Definito quindi che, quando si affronta il tema dell’unificazione politica dell’Europa (politica estera, fisco, esercito, capacità di proiettarsi stabilmente come entità unitaria nell’agone della competizione imperialistica mondiale) si intende la formazione di uno Stato europeo che superi, attraverso una riorganizzazione dei livelli di potere e di gerarchia istituzionale che in altri contesti storici ha assunto varie configurazioni, l’esistenza di sovranità esercitate da una molteplicità di Stati in relazione alle prerogative proprie della dimensione statuale, ribadiamo ancora una volta la nostra convinzione, frutto del nostro impegno a sottoporre la questione europea ad un’analisi fondata sui criteri e gli strumenti concettuali del marxismo. Non si può escludere in assoluto la possibilità che all’attuale suddivisione dello spazio europeo in molteplici Stati nazionali e sovrani possa subentrare un’entità statuale unica. Ciò che abbiamo negato e continuiamo a negare è la possibilità che tale esito possa derivare per via consensuale, in forza della crescente consapevolezza politica del fatto che, singolarmente, senza mettere in comune le proprie risorse e i propri poteri e devolvendoli stabilmente ad una nuova autorità comune e riconosciuta, gli Stati europei – essi stessi esito di un processo storico che ha prodotto specifiche ed effettive forme di rappresentanza delle borghesie organizzatesi e definitesi come classe dominante a livello nazionale – da soli “non ce la possono fare”. Se nascerà davvero uno Stato europeo sarà perché è emersa una forza unificatrice, espressa da uno Stato o da una coalizione di Stati, capace di imporre – contro resistenze interne ed esterne all’Europa, contro altre concezioni di integrazione politica corrispondenti ad altri interessi borghesi – la propria guida e in una certa misura la propria interpretazione all’unificazione continentale.

Se non si inquadra la questione europea entro queste essenziali coordinate, si è destinati a misurarsi con essa da un punto di vista distorto, illusorio. Estremamente esemplificativa a questo proposito è l’intervista a Romano Prodi, «custode indiscusso del sogno bruxellese»[1], pubblicata nel numero di marzo del mensile cattolico Jesus.

Uno dei passaggi che per primi colpisce per la forza con cui rivela la profondità di una concezione del tema dell’unificazione politica europea, di un approccio a questo nodo storico enormemente distanti, in termini metodologici si potrebbe persino definire antitetici, rispetto ai nostri criteri è quello in cui descrive i funerali di Jacques Delors: «La cerimonia di Stato è stata solenne e poi alla fine, al momento dell’uscita, è avvenuto qualcosa di commovente: le autorità tutte ferme, i familiari dietro la bara e i ragazzi dell’Erasmus, il programma che con lui ha preso avvio, che suonavano musica jazz». Non abbiamo certo nostalgia o simpatia per le salve di cannone, i reparti militari in alta uniforme, i picchetti d’onore e le note marziali degli inni – tutte coreografie che storicamente hanno accompagnato i trionfi e le celebrazioni degli eroi delle classi dominanti, assai più raramente le finora effimere vittorie del proletariato – ma non ci sembra davvero un caso che Prodi abbia isolato e valorizzato questa differenza tra le esequie di un “padre dell’Europa” ancora disunita e quelle dei grandi esponenti delle guerre di unificazione nazionale nell’epoca del capitale come Cavour o Lincoln, come Ho Chi Minh o Mao Zedong. Ed è significativo che la commozione di Prodi non lasci spazio ad uno spiraglio di riflessione su che cosa indichi il fatto che l’ultimo saluto ad uno statista che avrebbe legato il proprio nome all’unificazione europea sia stato reso dai rappresentanti di un programma di mobilità studentesca che nella stragrande maggioranza dei casi si è tradotto nella possibilità per i figli della borghesia di concedersi un periodo di bohème confortevole, all’interno del percorso di preparazione all’esercizio della propria professione. Sono questi i percorsi umani, politici e intellettuali, sono queste le prove che dovrebbero forgiare il materiale umano per realizzare l’obiettivo dello Stato europeo nell’era delle guerre, delle lotte, delle crisi dell’imperialismo? Ma il passo in cui ci sembra emergere con straordinaria chiarezza l’ossatura della concezione di Prodi dell’unificazione europea è quello in cui affronta la crescita della forza tedesca, con le sue conseguenze e le scelte che comporterebbe in Europa. «Si sta preparando un’Europa con un solo Paese leader», di fronte alla capacità economica e industriale della Germania «non mi pare ci sia molto da fare» e l’ostinazione francese a non riconoscerlo è definita nei termini di una negazione della realtà. La soluzione: «Basterebbe dunque che la Francia dicesse “la storia è cambiata” e mettesse a disposizione il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza Onu, l’arma nucleare…». La questione aperta dell’esercito comune? «Se la Francia passasse il diritto di veto e l’arma nucleare all’Europa il giorno dopo si fa l’esercito europeo e la politica estera europea»[2]

Evidentemente però l’imperialismo francese si muove ancora lungo le coordinate di una costruzione europea da sostenere e sviluppare solo se conforme prioritariamente ai propri interessi, solo se è un’Europa con il ruolo egemone di Parigi. “Passare” i propri strumenti politici e le proprie armi ad una generica Europa in cui questo ruolo francese non è garantito continua a non essere un’opzione. Né può bastare a superare questa logica con i suoi imperativi un’astratta consapevolezza che solo cedendo le proprie prerogative sovrane ad un’altra borghesia europea si potrebbe raggiungere una dimensione commisurata ad altri imperialismi di stazza continentale. La natura di classe della borghesia non ha finora mai contemplato questa logica di lungo periodo e “generale”, capace di rimuovere – senza scontri ed esercizio della forza, senza vincitori e vinti – il proprio congenito “particolare”. E difatti a fine febbraio il presidente francese Emmanuel Macron ha ulteriormente rilanciato la proposta di coinvolgimento militare dei Paesi sostenitori dell’Ucraina in guerra con la Russia, fino ad evocare la possibilità di dispiegamento di truppe sul terreno. Sale sulle ferite di un quadro politico tedesco che si è ripetutamente e aspramente diviso sulla guerra in Ucraina, ennesima stoccata ad un imperialismo tedesco che ha pagato a caro prezzo gli effetti del conflitto, i colpi inferti ai propri rapporti politici ed economici con la Russia, il raffreddamento nelle relazioni con la Cina, l’accentuarsi delle dissonanze con alcuni dei Paesi dell’Europa centro-orientale, sua storica area di influenza e proiezione. Di volta in volta Berlino ha dovuto, in maniera travagliata e sofferta, adeguarsi a nuovi superiori livelli, imposti da altre potenze, di coinvolgimento nell’appoggio militare a Kiev e lo storico partner all’interno dell’asse renano ha alzato ulteriormente l’asticella. Non stupisce il deciso rifiuto espresso dal Governo tedesco[3] e il cancelliere Olaf Scholz, a conferma della delicatezza della questione e del disagio provocato dalla mossa francese, ha aggiunto considerazioni dal tono critico e recriminatorio circa l’impegno di altre potenze a sostegno dello sforzo militare ucraino, suscitando malumori e piccate risposte tra le file dello schieramento occidentale[4]. Il conflitto ucraino, sospinto nel febbraio 2022 ad un superiore livello di scontro dall’offensiva di una Russia in affanno nelle dinamiche di mutamento dei rapporti di forza imperialistici, è stato impugnato dall’imperialismo statunitense, ancora pienamente “potenza europea”, in chiave essenzialmente anti-tedesca. Questo dispositivo, questo cerchio di ferro stretto intorno alle direttrici e alle fonti di alimentazione della forza imperialistica tedesca è oggettivamente utilizzabile e utilizzato, ovviamente in varia misura e a seconda degli interessi e delle capacità, anche da altre potenze. Quando è riemerso il tema della forza militare e dell’esercito europeo, i vertici politici dell’imperialismo francese hanno voluto mostrare ancora una volta come possano mettere in difficoltà un partner europeo fondamentale che però non deve diventare troppo forte e troppo assertivo.   

Al contempo, non è inspiegabile come Berlino, da parte sua, si sia opposta, in occasione del Consiglio europeo del 21-22 marzo, alle proposte di debito comune per finanziare il complesso militare dell’Unione. Se l’imperialismo francese non intende “passare” le proprie risorse ad un’Europa su cui altre potenze esercitano la leadership, l’imperialismo tedesco non si mostra disponibile a devolvere la propria forza economica a supporto di progetti comunitari sui quali la propria impronta dovesse risultare troppo tenue. Quel ciclo europeo che si era dispiegato per un lungo arco di tempo dopo la Seconda guerra mondiale e che era proceduto sulla base della combinazione della forza economica tedesca confinata entro forti limiti politici con la funzione di guida politica esercitata da un imperialismo francese declinante ma con ancora a disposizione leve politiche e risorse militari importanti non è più riproducibile, almeno con esiti e risultati paragonabili a quelli ottenuti in passato. Il sostanziale stallo in cui, dopo la moneta unica e la sconfitta dell’asse renano nel tentativo di centralizzare l’Europa nell’opposizione all’iniziativa bellica americana in Iraq nel 2003, sono state bloccate, frenate e neutralizzate le spinte verso una riorganizzazione dello spazio politico continentale nel senso di una concentrazione dei poteri dello Stato in un nuovo assetto superiore alla dimensione nazionale, non è un’anomalia passeggera in attesa che il destino dell’Europa unita fatalmente si compia. Se questo stallo verrà superato in direzione dell’unificazione politica del continente sarà perché si è affermata una forza adeguata. Non può essere esclusa però nemmeno la possibilità che lo spazio europeo rimanga diviso in Stati sovrani e che questo assetto sia quello che si confronterà con l’intensificarsi della conflittualità imperialistica su scala globale. Compito delle avanguardie di classe che cercano di incarnare il marxismo nel corso degli sviluppi storici dell’imperialismo, che lavorano alla formazione e al radicamento del partito rivoluzionario nelle tensioni, nelle convulsioni, nelle contraddizioni di questi sviluppi, non è quello di scommettere su uno di questi possibili scenari, magari finendo addirittura per “tifare” per le forze e gli schieramenti borghesi che appaiono funzionali alla realizzazione della propria previsione. È necessario invece, avendo individuato in generale le condizioni storiche sulla base delle quali si potranno concretizzare i vari scenari, analizzare attentamente il corso reale degli avvenimenti, confrontarlo rigorosamente con le proprie ipotesi. Senza mai dimenticare che non esiste garanzia a priori che possa escludere che lo sforzo più assiduo e sincero nell’applicare i criteri e gli strumenti metodologici del marxismo alla realtà storica in divenire possa andare incontro ad errori o a conclusioni maturate in ritardo rispetto ai compiti e alle esigenze posti dalla lotta di classe. Il marxismo può vivere nella Storia solo attraverso la presenza e l’opera dei marxisti, e i marxisti possono sbagliare. Questa consapevolezza, lungi dall’essere paralizzante, deve ispirare con ancora più forza un grande senso di responsabilità, una cura estrema e il massimo impegno nel tentativo di assolvere i compiti di orientamento strategico che la teoria marxista rende possibili.     


NOTE

[1] Andrea Malaguti, “I guai del Pd e il pane buono dell’Europa”, La Stampa, 7 aprile 2024.

[2] Daniele Rocchetti, “Europa ultima chiamata”, Jesus, marzo 2024.

[3] Guy Chazan, Henry Foy, “Berlin lashes out against Macron’s plan for sending troops to Ukraine”, Financial Times, 28 febbraio 2024.

[4] David E. Sanger, Christopher F. Schuetze, “It’s Germany’s turn to unsettle its allies”, The New York Times (International Edition), 6 marzo 2024.

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