AI CADUTI DELLA GUERRA DI CLASSE DOBBIAMO L’ORGANIZZAZIONE DI CLASSE

Abbiamo appreso poche ore fa della morte di Adil Belakhdim, 37 anni, militante sindacale, coordinatore del S.I. Cobas del Novarese e membro del coordinamento nazionale dello stesso sindacato. Ucciso da un crumiro che lo ha travolto e schiacciato con il camion che guidava, mentre forzava un picchetto organizzato dai lavoratori davanti al deposito territoriale della Lidl di Biandrate.

Questa uccisione, perché non si tratta di una morte accidentale, giunge al culmine di settimane che hanno visto gli operai della logistica iscritti al S.I. Cobas aggrediti da squadre di picchiatori e da crumiri, altri lavoratori corrotti o sotto ricatto, assoldati dal padronato per spezzare la coalizione operaia.

Il 27 maggio, a San Giuliano Milanese, decine di picchiatori di mestiere dell’agenzia SKP hanno assalito con spranghe, tirapugni e taser i lavoratori in picchetto davanti al locale magazzino FedEx-Zampieri. Gli operai hanno cercato di resistere alla meglio all’aggressione e, quando questa è finita, sono stati fatti oggetto di controlli e identificazioni da parte dei reparti di polizia arrivati di gran carriera. Il 10 giugno, alla Fedex-Zampieri di Tavazzano (Lodi) ad un operaio in presidio contro i licenziamenti operati dall’azienda è stata spaccata la testa a bastonate, mentre le “forze dell’ordine” – come è naturale che sia, se l’ordine da preservare è quello borghese – stavano a guardare. Di pochi giorni fa è l’aggressione con pugni, calci e mattoni contro tre lavoratori della Texprint di Prato, da parte di elementi legati alla proprietà e alla direzione della fabbrica e la distruzione del presidio, prontamente ricostruito il giorno dopo.

L’offensiva del padronato, mentre i dirigenti della triplice confederale sono capaci solo di chiedere tavoli di trattativa senza indire una sola ora di sciopero, è in pieno svolgimento, e si serve di tutte le armi a sua disposizione, non ultima l’arma statale, quale che sia l’esecutivo che al momento la dirige. Questa offensiva si è spinta, come in passato, all’aggressione fisica, e oggi, l’intransigente e irremovibile esigenza capitalistica del profitto è arrivata a uccidere un combattente di classe, che non ha raggiunto la famiglia in vacanza in Marocco, il suo paese d’origine, per rimanere a organizzare la lotta dei suoi fratelli di classe, in vista dello sciopero nazionale della logistica di oggi e della manifestazione nazionale di domani, 19 giugno, a Roma.

Vogliamo manifestare la nostra completa solidarietà con gli operai del S.I. Cobas, ai quali ci uniremo nello sciopero di oggi e nella manifestazione di domani, riproducendo un brano tratto dal bellissimo libro di Jeremy Brecher Sciopero! – Storia delle rivolte di massa nell’America dell’ultimo secolo (DeriveApprodi, Roma, 1998, pp. 171-177).

La vicenda trattata nel brano, lo storico sciopero generale di Minneapolis del 1934, organizzato dai Teamsters, è importante per ribadire da un lato la necessità della comprensione della fase in cui si opera, che vedeva allora, in piena Grande Depressione, un’ampia mobilitazione di quasi tutti i settori della classe operaia statunitense; dall’altro l’urgenza di porre le basi per la costruzione di quell’indispensabile organizzazione di classe che permise agli operai di Minneapolis di più di ottanta anni fa di contrapporre un formidabile inquadramento alla violenza padronale, sia privata che statale; che permise di costruire quella forza proletaria che sola può riuscire a trascinare alla lotta e ad egemonizzare altri strati sociali e che allora riuscì a piegare persino le istituzioni borghesi locali, esclusivamente in virtù di una potenza concreta, autonoma, di classe, espressione – che a quel livello di scontro diventa per forza di cose politica – di una lotta iniziata sul terreno economico, partita dai picchetti e arrivata al cedimento, da parte del padronato e del governatore del Minnesota, alle rivendicazioni degli operai. Esempio concreto delle potenzialità politiche di una lotta che in certi momenti storici, quando arriva ad essere generalizzata, può arrivare a dare l’assalto al cielo. Quell’assalto al cielo che compagni come Adil purtroppo non vedranno, ma a cui hanno dato il loro contributo fino all’estremo sacrificio.


All’inizio del 1934 entrarono in sciopero i camionisti che lavoravano nei depositi di carbone di Minneapolis, cogliendo di sorpresa i datori di lavoro, e costrinsero alla chiusura sessantacinque dei sessantasette depositi; i proprietari capitolarono nel giro di tre giorni e concessero il riconoscimento del sindacato locale, il Teamster Local 574.

La sezione aveva uno statuto che ammetteva nell’organizzazione ogni categoria di lavoratori (era quindi in pratica un “sindacato di industria”, nella terminologia americana), e a essa cominciarono a iscriversi in massa camionisti e aiutanti di tutti i mestieri. La direzione non ufficiale dell’organizzazione era in mano ai fratelli Dunne e a Karl Skogeland, appartenenti al movimento trotskista americano. Quando le aziende di autotrasporti rifiutarono di firmare qualsiasi accordo con il sindacato, venne indetto un raduno di massa il 12 maggio, nel quale i camionisti decisero per lo sciopero. L’agitazione colpì la maggior parte delle attività: i grandi magazzini, le drogherie, le panetterie, le lavanderie, la distribuzione delle carni e dei rifornimenti in genere, le forniture per l’edilizia, tutte le fabbriche e il commercio all’ingrosso, le compagnie del gas e dei combustibili, le stazioni di servizio, le fabbriche di birra, i magazzini e le spedizioni di merci, tutti i trasporti in autocarro. Disse in seguito lo sceriffo: “Erano riusciti a bloccare completamente tutta la città; a Minneapolis non si muoveva neanche un camion”. Sole eccezioni erano le compagnie del latte, del ghiaccio e del carbone che avevano accettato il sindacato nelle loro aziende, le quali godevano di esenzioni speciali.

Nell’organizzazione dello sciopero la tattica principale era quella delle “squadre volanti”, un sistema di picchetti mobili che operavano partendo dal quartier generale, un vecchio garage preso in affitto per l’occasione; nei locali non c’erano mai meno di 500 scioperanti, giorno e notte; quattro telefoni ricevevano i messaggi dei capitani dei picchetti, che si trovavano in tutta la città con l’ordine di mandare informazioni ogni dieci minuti. “Un autocarro tenta di trasportare un carico di prodotti della Berman Fruit sotto scorta della polizia. Abbiamo solo dieci uomini, mandateci aiuti. Siamo riusciti a fare ritornare indietro cinque camion che stavano entrando in città… Faccio rientrare al quartiere generale le vetture 42 e 46”.

Sulla base di questi dati i dirigenti del traffico mandavano le vetture là dove erano richieste. Una squadra di motociclisti perlustrava la città con l’incarico di segnalare qualsiasi incidente; su un apparecchio speciale a onde corte gli scioperanti ascoltavano le istruzioni che la polizia riceveva via radio, e quando i telefoni erano sotto controllo le comunicazioni venivano date in codice. I picchetti controllavano le cinquanta vie di accesso alla città, facendo ritornare indietro gli autocarri non autorizzati dal sindacato. Giorno e notte 120 persone lavoravano per preparare i pasti; nel periodo culminante dello sciopero nel quartier generale vennero a mangiare 10.000 persone in una sola giornata. Venne organizzato un ospedale di emergenza con due medici e tre infermieri sempre a disposizione, e una officina con quindici meccanici curava le riparazioni delle cento vetture, automobili e autocarri, delle squadre volanti. Il quartier generale era sotto stretta sorveglianza, con guardie appostate sul tetto, armate di mitra, e gli scioperanti e quanti appoggiavano lo sciopero erano tenuti informati sull’andamento della situazione da costanti annunzi e dalle riunioni serali cui partecipavano migliaia di persone. Nello sciopero le autorità ufficiali consistevano in un Comitato composto da 100 camionisti della base del sindacato.

L’appoggio venne dato con slancio dagli altri lavoratori di Minneapolis: uno sciopero di solidarietà coinvolse 35.000 operai dei cantieri edili e i tassisti della città; la Farm Holiday Association, una combattiva organizzazione contadina, portò un valido contributo al vettovagliamento, e altri sindacati diedero dei contributi in denaro. Centinaia di operai si presentavano ogni giorno al quartier generale per dire: “servitevi di noi, questo è il nostro sciopero”.

Al polarizzarsi degli interessi cittadini contribuì anche il fatto che pure il mondo degli affari cominciò a organizzarsi, facendo capo alla Citizen’s Alliance, una delle associazioni imprenditoriali più potenti del Paese, con tutta la sua schiera di informatori segreti; essa aveva consacrato gran parte dei suoi sforzi a tener fuori da Minneapolis i sindacati e per una generazione aveva avuto in questo senso un successo quasi totale. I dirigenti del mondo imprenditoriale avevano creato il loro centro operativo, fornito di caserme, ospedale e servizio vettovagliamento; con l’inasprirsi del conflitto, essi avevano rivolto un appello per la “mobilitazione in massa dei cittadini” allo scopo di spezzare lo sciopero e avevano cominciato a organizzare un “esercito del cittadino”, i cui membri vennero poi in parte inseriti in corpi speciali di polizia.

Con chiarezza eccezionale, due classi sociali organizzate si trovavano l’una di fronte all’altra, pronte per la battaglia. La battaglia ebbe inizio davvero lunedì 21 maggio. Un gruppo di picchettatori, uomini e donne, vennero attirati in un’imboscata della polizia da una spia che si era infiltrata ne quartier generale degli scioperanti, e furono picchiati duramente. Uno scioperante descrisse quale fu l’effetto dell’imboscata: “nei primi giorni dello sciopero nessuno portava armi e bastoni; andavamo in giro disarmati, ma poi abbiamo imparato la lezione. In tutto il quartiere generale si vedeva gente che scavava trincee e segava tubi di piombo”.

Quando “l’esercito dei cittadini” cominciò a occupare il mercato e a muover ei camion, gli scioperanti colpirono con precisione militare. Ecco come uno dei leader dello sciopero descrisse quanto accadde:

“Le nostre riserve le abbiamo organizzate in questo modo. Per una giornata intera mandammo picchetti di quindici o venti uomini provenienti da tutta la città alla sede centrale della Central Labor Union della Ottava Strada, così che entro la mattina di lunedì avevamo sul posto, anche se nessuno lo sapeva, un distaccamento di 600 uomini, tutti armati di bastoni. Altri 900, più o meno, li tenevamo di riserva al quartier generale. Anche all’interno del mercato furono piazzati in posizioni chiave altri picchetti, con uomini senza il distintivo del sindacato. Sparsi per la città, nelle loro postazioni regolari, restavano solo i picchetti strettamente necessari. I nostri che stavano nel mercato erano in costante collegamento con il quartier generale tramite i motociclisti e il telefono. I poliziotti speciali (quelli dell’”esercito dei cittadini”), i nostri picchetti li spinsero a poco a poco da una parte, in modo da isolarli dai poliziotti veri. Fatto questo venne dato il segnale e 600 uomini uscirono in massa dalla sede centrale della Central Labor Union; marciavano in formazione militare, per quattro, ciascuno col suo bastone, diretti al mercato. Continuavano a venir fuori. Quando i giovanotti del bel mondo, gli Alfred Lindley e tutto il resto, che si aspettavano di farsi un picnic con un po’ di gentaglia impazzita dalla paura, si videro davanti questa bella comitiva, cominciarono a farsi un’idea del conto da saldare. Poi abbiamo chiamato i picchetti che stavano al quartier generale, i quali marciarono al centro del mercato circondando la polizia. Quelli (la polizia) si trovarono proprio in mezzo senza possibilità di scampo. A intervalli facevamo delle puntatine contro di loro in modo da separarne un po’. Questa faccenda continuò per un paio d’ore, finché quelli tirarono fuori le armi. Sapevamo bene che questo sarebbe successo, era previsto, ed era anche chiaro che a questo punto i picchetti non potevano più combattere contro di loro. Non puoi mica batter ei fucili col bastone! Il rapporto di forza diventa, diciamo, poco equilibrato. Così avevamo trovato uno dei nostri, un pezzo d’uomo che non aveva paura di niente, e l’avevamo messo su un camion con altri 25 uomini. Aveva l’ordine di guidare il camion dritto contro lo schieramento di polizia e di non fermarsi per nessuna ragione. Sapevamo che l’avrebbe fatto. È venuto giù per la strada come un razzo suonando la tromba fin dentro la piazza del mercato, a tutta velocità. I poliziotti gli fecero segno di fermarsi, ma lui via sparato; loro si sono fatti da parte e così il camion è finito in mezzo a loro. Allora i picchetti sono saltati giù addosso ai poliziotti. Noi si pensava che mescolandoci a loro in lotta corpo a corpo non si sarebbero arrischiati a sparare perché avrebbero ammazzato poliziotti insieme con gli scioperanti, e ai poliziotti questo non piace. Dalla nostra parte le perdite della giornata furono un osso del collo rotto e una testa sconquassata da un colpo destinato a un poliziotto che l’aveva schivato e allora la botta era finita su uno degli scioperanti, e un po’ di costole rotte. Dall’altra parte, una trentina di poliziotti in ospedale.”

[…] Dopo “la battaglia dei poliziotti scappati”, per intervento del Governatore e di mediatori federali venne raggiunto alla meglio un compromesso che lasciava le questioni più importanti al punto di prima; tutto quindi faceva prevedere un secondo sciopero. Il capo della polizia chiese un raddoppio del bilancio per poter assumere altri 400 uomini, mantenere una scuola di addestramento e comprare mitragliatrici, fucili e baionette, elmetti di acciaio, manganelli e motociclette. Gli imprenditori finanziarono un’enorme campagna sui giornali e alla radio, mettendo in particolare rilievo un attacco mosso dalla direzione della International Brotherhood of Teamsters, il sindacato nazionale dei camionisti, alla direzione locale, in cui quest’ultima era definita “comunista”. I lavoratori prepararono le riserve alimentari per un assedio di quaranta giorni.

Il 5 luglio si ebbe il più grande raduno di massa della storia di Minneapolis, preceduto da un marcia di gruppi di contadini e operai; due aerei seguivano dall’alto lo svolgersi del corteo e l’addensarsi della folla al raduno, il quale rappresentò la mobilitazione e il dispiegamento delle forze che avrebbero sostenuto i camionisti nel caso di un altro scontro. Quando il 16 luglio riprese lo sciopero, i camionisti ricostituirono un’organizzazione anche più perfetta della precedente, pubblicarono un quotidiano che in due giorni arrivò a diecimila copie, e conservarono l’appoggio dei contadini, permettendo a tutti i membri delle organizzazioni agricole di far entrare i loro autocarri in città e di crearvi il loro mercato.

I primi giorni di sciopero furono tranquilli, ma poi la polizia tentò di spezzare l’agitazione con il terrore. Il 20 luglio un camion accompagnato da 50 poliziotti armati di fucili si avviò verso la piazza del mercato; un secondo autocarro con a bordo 50 scioperanti tagliò la strada al primo; la polizia aprì il fuoco e nel giro di dieci minuti, 57 persone, fra le quali anche 13 passanti, vennero ferite, due mortalmente. […]

Trovandosi di fronte a un imminente fallimento dello sciopero, a un raduno di massa cui parteciparono 25.000 persone i lavoratori decisero di riprendere il picchettaggio a dispetto dell’ordinanza del governatore e della Guardia Nazionale. Il governatore reagì facendo circondare il quartier generale dello sciopero alle 4 della notte del primo agosto, facendo arrestare i principali dirigenti e ordinando che fossero eletti nuovi capi. Gli scioperanti risposero intensificando il picchettaggio. […]

Scrisse Charles Walker: “Lo sciopero era stato condotto in modo tale che ormai nelle file degli scioperanti si erano formati migliaia di capi e che i picchetti erano in grado di funzionare da soli. Anziché decapitare il movimento, l’arresto dei leader gli aveva infuso, almeno temporaneamente, uno slancio frenetico”. Come ebbe a dire un operaio, “vennero costituiti centri periferici di direzione nell’intera città; in tutto ce n’erano venti”.

In questo frangente il governatore fu costretto a fare marcia indietro: fece liberare i prigionieri e rimettere in funzione il quartier generale dello sciopero, e per salvare la faccia presso i suoi elettori fece anche occupare la sede della Citizen’s Alliance. Lo sciopero continuò e a un mese dall’inizio del conflitto, in una città ormai in crisi, i datori di lavoro dovettero soccombere alle enormi pressioni esercitate perché si giungesse ad un accordo, e si decisero a capitolare. Il successo fu celebrato dai sostenitori dello sciopero con una baldoria di dodici ore.

Circolo internazionalista “coalizione operaia”

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