
In tempo di pace si può blaterare di qualsiasi cosa. E non poche sono state e continuano ad essere le suggestioni critiche “anti-sistema” relative alle politiche economiche degli ultimi decenni, da parte di chi si concentra sulle forme fenomeniche del reale, senza vedere la sostanza dei rapporti sociali sottostanti, delle leggi di funzionamento del capitalismo, basato sull’accumulazione e sull’estorsione del plusvalore operaio.
In molti, dal Papa passando per la minuscola e sempre più inconsistente sinistra radicale nelle sue espressioni politiche e sindacali, fino agli accademici che vantano esplicitamente frequentazioni epistemologiche marxiane sulle “leggi di tendenza”, denunciano le disuguaglianze sociali. Tra questi, in molti puntano il dito contro le politiche economiche deflattive, la detassazione dei capitali, contro quelle strategie di gestione economica della crisi che hanno imposto ai debitori pubblici e privati di rimborsare i prestiti a colpi di svendite di capitali, compressione dei “diritti sociali e del lavoro”, abbattimenti dello “stato sociale” e gare al ribasso sui salari e sui prezzi. La conseguenza di queste politiche sarebbe il languire della domanda di merci e il fatto che gli sbocchi di mercato si restringono e la competizione globale tra capitalisti si fa più feroce. Di fronte a questo, ci si spinge a proporre come panacea democratica e per l’interesse di tutti, il superamento di Maastricht per salvare l’Europa, o addirittura la pianificazione economica, una sorta di rievocazione del capitalismo di stato, come possibile strada per uno sbocco diverso della crisi e per “scongiurare il peggio”.
Un peggio che intanto sta prendendo corpo sotto gli occhi di tutti, con la guerra appena iniziata in Europa.
Tutti coloro della sinistra radicale politica e sindacale che hanno cianciato a proposito di patrimoniale, di imposte progressive sul reddito, di nazionalizzazioni sotto il “controllo operaio”, di pianificazione dell’economia, di diritti individuali e questione ambientale, sono gli stessi che hanno sempre sproloquiato di internazionalismo, come frase retorica e altisonante con cui riempirsi la bocca in tempo di pace. E oggi ciarlano di “mobilitarsi per la pace per uscire dalla NATO”, “affinché l’Italia non sia coinvolta in una eventuale guerra della Nato”, di “solidarietà con il Popolo ucraino contro la guerra degli imperialismi”, di “una situazione che gli USA hanno creato contro i popoli dell’Europa”, tentando di riesumare i concetti di “popolo aggredito”, ogni volta cercando di stabilire su quale predone imperialista debba ricadere “la colpa” del conflitto, quale sia l’aggredito o l’aggressore, quale predone sia il maggiore “responsabile”.
Tutti abbarbicati, poco importa se volontariamente o involontariamente, all’angusto orizzonte nazionale di “casa nostra”, a quello della pace capitalista, per continuare a legittimare, attraverso un balletto democratico di popolo, l’estorsione di plusvalore operaio e a reclamarne la conseguente redistribuzione in rappresentanza degli interessi delle folte e numerose schiere di strati sociali che se ne appropriano sotto forma di redditi e sussidi elargiti dallo Stato.
L’utopia dei cretini circa il ruolo dello Stato borghese in tempo di pace fa sorridere, suscita diffidenze tra gli operai in difficoltà e consumati in fabbrica, mobilita entusiastici quanto superficiali opinionisti radicali estemporanei – folle interclassiste impoverite dalla crisi – intorno ai rituali e alle ricette questuanti della redistribuzione della ricchezza per la “giustizia sociale”.
A questa “falsa coscienza” che viene servita ogni giorno al proletariato per offuscare costantemente il vero ruolo dello Stato borghese nella società divisa in classi – quello di organo di oppressione di una classe da parte di un’altra – che in determinati momenti del ciclo dell’accumulazione capitalista si riscopre Patria, fanno seguito fantasiose parole d’ordine, le quali, al di là di quali menti o ambienti le abbiano effettivamente partorite (se qualche accademico “anti-convenzionale” incapace di chiarire l’effettiva dinamica capitalistica, o qualche dirigente sindacale e politico radical-riformista che nonostante l’estremismo parolaio non si pone nell’ottica della soppressione sociale del compratore della forza lavoro!), coincidono oggettivamente e immediatamente con gli interessi nazionali di popolo di quegli strati sociali la cui esistenza è assicurata fintantoché esistono lo Stato borghese e le quote di plusvalore operaio trasferite ad esso sotto forma di imposte.
Dinanzi alla guerra imperialista, questa utopia dei cretini, si fa tragica, sollecita dal basso pulsioni la cui pericolosità cercheremo brevemente di indagare.
Innanzitutto, cerchiamo di comprendere cosa sia accaduto negli ultimi 50 anni, riportando alcuni stralci del nostro opuscolo Il Marxismo e la questione fiscale:
Nella crisi, di fronte alla calante redditività del capitale, i capitalisti hanno risposto in primo luogo intensificando lo sfruttamento degli operai e diminuendo i loro salari. (…) Come è noto una parte del plusvalore si ritrasforma in capitale, reinvestito dai capitalisti, mentre un’altra parte è da loro consumata come reddito. Una parte di questo reddito è consumata direttamente, un’altra parte, attraverso lo Stato, viene indirizzata alle “terze persone”. Questa parte di plusvalore che arriva allo Stato serve a far funzionare tutte quelle istituzioni atte a garantire il funzionamento del capitalismo (esercito, polizia, magistratura, burocrazia pubblica, trasporti pubblici, scuola, sanità, ecc.), un’altra parte ritorna ai capitalisti monetari sotto forma di interessi sul debito, un’altra agisce come capitale di Stato o come “partecipazione”, viene cioè investita in settori che a causa della loro alta composizione organica e quindi del loro troppo basso saggio del profitto esercitano scarsa attrattiva verso i capitali privati, imprese però che sono fondamentali per la società capitalista (il riferimento non è qui solo ad imprese come quelle aereo spaziali o siderurgiche, ma anche alle infrastrutture e al trasporto ferroviario di merci). Con la detassazione dei capitali quote maggiori di plusvalore restano nelle tasche dei capitalisti operanti, diminuisce la quota del plusvalore totale destinata al consumo improduttivo mentre aumenta quella disponibile per l’accumulazione. In tal modo si è cercato in questi anni di contrastare la difficoltà ad investire dovuta al calo della redditività del capitale. (…) di fronte all’abbassamento del saggio medio di profitto e con il profilarsi della crisi, la classe capitalistica ha reagito anche con l’aumento dell’intensità del lavoro, e con il maggiore consumo produttivo della forza-lavoro.
Nel frattempo, in tutti questi anni, l’immenso bacino di estorsione di plusvalore, su di un numero inimmaginabile di operai in Asia e in particolare in Cina, ha controbilanciato le difficoltà del ciclo dell’accumulazione e la caduta del saggio di profitto sul mercato mondiale.
Il meccanismo della cosiddetta detassazione dei capitali da parte dello Stato in quanto capitalista collettivo negli ultimi cinquant’anni, quindi, ha corrisposto alle esigenze dei capitali individuali, che però, nonostante si siano ritrovati con una maggiore disponibilità di plusvalore da capitalizzare, proprio in virtù di un ciclo di accumulazione che vede il saggio medio di profitto molto basso, hanno investito il loro plusvalore in speculazioni finanziarie e in titoli di stato. Stato che, a sua volta, non potendo comprimere oltre certi limiti la spesa pubblica, pena perdere la capacità di esercitare la sua funzione di “fedele macchina di oppressione”, è stato costretto ad indebitarsi ulteriormente. Il risultato prevalente di queste misure è stato quindi quello di aumentare il debito pubblico e di favorire la spinta dei capitalisti ad investire il loro plusvalore in speculazioni finanziarie e in titoli di stato, in realtà spostando solamente un problema che nel frattempo si è ingigantito.
Il ciclo dell’accumulazione mondiale sta per entrare in una fase nuova: per la prima volta, dopo la Seconda guerra mondiale, è nuovamente possibile una guerra imperialista tra le grandi potenze del mondo. Si annuncia un’epoca in cui l’inasprimento della concorrenza diventa turbolenza finanziaria, scontro commerciale, tecnologico e militare tra predoni imperialistici, con un ruolo dello Stato borghese adeguato alla fase che si sta tragicamente annunciando, in cui la sovranità nazionale, la difesa della patria, stanno tornando nell’agenda strategica delle borghesie più dei cosiddetti “vantaggi comparati” legati al libero commercio.
La prova di forza di Stati Uniti e Russia in Ucraina, le difficoltà dei paesi imperialisti in Europa, e la lotta per l’egemonia tra gli USA e la Cina nell’area del Pacifico e a livello mondiale ne sono la inequivocabile conferma. Non ci soffermeremo qui sui precedenti storici, ma una cosa è certa:
ancorando correttamente la politica fiscale al ciclo dell’accumulazione capitalistica, diventa possibile ipotizzare che con l’aggravarsi della crisi, e quindi man mano che tutte le misure messe in campo manifesteranno non solo la loro incapacità a risolverla, ma anche la loro tendenza ad aggravarla, si avvicinerà il momento in cui il capitale sarà costretto a ristabilire le condizioni di redditività, attraverso un nuovo rapporto tra lavoro pagato e lavoro non pagato, ad un più alto livello del rapporto pluslavoro/lavoro necessario. Questo ristabilimento può avere luogo mediante una massiccia distruzione di capitali. In questa tendenza alla crisi generale che può tradursi nella guerra imperialista, per le varie borghesie sarà necessario concentrare quote maggiori di plusvalore nelle mani del capitalista collettivo, dello Stato imperialista (…) per “mobilitare” gli “sfruttati”, armati ed equipaggiati, verso il prossimo macello mondiale.
In questo senso l’utopia dei cretini sull’aumento della quota di “stato sociale” della spesa pubblica, sulle politiche economiche espansive e fiscali progressive, può diventare in maniera sempre più palese la bandiera di una politica interna funzionale a ciascuno Stato imperialista, in uno scenario di tendenza alla guerra sul mercato mondiale.
Una posizione che, nell’illudere il proletariato sul ruolo positivo che lo Stato capitalista potrebbe svolgere (…) può farsi inaspettatamente vessillifera di una nuova mobilitazione di ceti parassitari, di mezze classi e strati intermedi per la spartizione del bottino del plusvalore operaio. Oggi dall’alto verso il basso della macchina amministrativa, un domani al di là dei confini geografici di uno Stato che si riscopre Patria. Non sono mere deduzioni logiche, ma è il corso degli avvenimenti storici e quello dei reali processi in atto, ad indurci a porre il problema in questi termini.
Ciò che è destinato a verificarsi a livello mondiale è il manifestarsi della crisi capitalistica anche nella forma della guerra imperialista. Ma è altamente improbabile che la classe operaia a livello internazionale possa e voglia sopportare indefinitamente tutto ciò che il sistema capitalistico ha in serbo per lei. La necessità della valorizzazione capitalistica si scontrerà con la forza inarrestabile dell’istinto di sopravvivenza del proletariato. Se nel corso di questa lotta si è costruita l’organizzazione di classe politicamente consapevole e radicata, sul terreno dell’indipendenza teorica e politica dalle altre classi, sarà possibile trasformare la crisi del capitalismo nel suo crollo, e il processo rivoluzionario potrà acquisire concretamente la forma della guerra di classe internazionale alla guerra imperialista.
Sono il ciclo della accumulazione del capitale, le difficoltà della sua valorizzazione, i riflessi di queste difficoltà nella complessiva formazione economico-sociale ad immettere continuamente nuovo materiale infiammabile nel processo rivoluzionario, non le idee, non la volontà, non gli individui. È il movimento oggettivo del capitale a determinare la crisi e le guerre, a mettere in moto la classe e a creare le condizioni sociali per la formazione del partito di classe, dove la sintesi teorica delle esperienze dei precedenti cicli di lotta può e deve costituire uno dei presupposti del processo rivoluzionario. È compito dei comunisti lottare senza posa per preservare questa sintesi teorica, per connettere il proletariato alla “sua” teoria, consapevoli che è la lotta di classe il terreno favorito di questa connessione, consapevoli che è questa lotta che spinge gli operai a costituirsi in classe e con ciò in partito politico indipendente.
Siamo consapevoli che il proletariato non acquisisce automaticamente e immediatamente coscienza di sé solo sulla base delle sue condizioni materiali ma che è costretto da queste condizioni e dalle esigenze della sua lotta a elaborare delle risposte, e che i comunisti devono favorire questo processo di elaborazione mettendo in rilievo e facendo “valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell’intero proletariato, nelle varie lotte nazionali dei proletari” e sostenendo “costantemente l’interesse del movimento complessivo”. D’altro canto, non è possibile considerare la coscienza teorica come una dottrina metafisica e metastorica e pretendere che la realtà si adegui ai propri schemi astratti, in una autoconsolatoria, solipsistica e autoreferenziale declamazione rituale. L’indipendenza politica del proletariato è un processo complesso e difficoltoso, fatto di assimilazione teorica, indagine del reale e scambio di informazioni e conoscenze circa le esperienze di classe a livello internazionale; ed è materialisticamente corretto trarre dei principi teorici dal corso stesso del processo reale e utilizzarli come guida per l’azione, ma questa attitudine alla sperimentazione nel campo di classe da parte di chi ritiene che in ogni situazione concreta ci si debba sforzare di trovare una risposta concreta, non ha niente a che vedere con quella di chi, con la fretta di un “alchimista sociale”, si aggira maldestramente nel laboratorio della storia nell’illusione di manipolare qualsiasi elemento gli capiti a tiro per ovviare alla temporanea mancanza di effettivi reagenti di classe. Questo perché, al preteso “sforzo” di ragionare “in modo concreto” non corrisponde una effettiva conoscenza della situazione reale, rischiando di diventare solo un esercizio stilistico senza alcun riscontro nella realtà immediata a cui si vorrebbe ciecamente subordinare la profusione dell’impegno militante.
Occorrerà, pertanto, un lavoro politico e teorico costante di smascheramento ideologico per favorire negli operai l’affrancamento dal condizionamento della borghesia e delle altre classi, comprendere i contrasti e le faglie del mercato mondiale entro le quali gli operai si metteranno in movimento.
Dal momento in cui la tendenza alla crisi generale può tradursi nella guerra imperialista, in una fase in cui sarà necessario per la borghesia concentrare quote maggiori di plusvalore nelle mani dello Stato imperialista essa dovrà mobilitare l’intera nazione e servirsi delle mezze classi e degli strati statal-parassitari per sottomettere gli operai nel fronte interno della produzione e nel fronte esterno della guerra. Il processo di proletarizzazione di questi strati intermedi nonché l’espressione dei loro antagonismi parziali, potrà facilitare il loro arruolamento alla causa nazionale del capitale in funzione imperialistica e antioperaia.
La consegna per noi è data: contro il massimalismo riformista dei falsi amici del proletariato. In una fase come l’attuale, in cui gli operai hanno attraversato un lungo e nefasto periodo di totale disgregazione, è necessario contribuire, senza tergiversare, all’indipendenza teorica e politica del proletariato da tutte le altre classi, facilitarne il formarsi del suo esercito internazionale, separato dalle influenze piccolo-borghesi e statal-parassitarie che si mobilitano con la falsa coscienza borghese di “popolo” o di “classi non sfruttatrici” nei diversi angusti orizzonti nazionali.