L’URNA ELETTORALE PUÒ ACCOGLIERE SOLO LE CENERI DI UN’ILLUSIONE

Abbiamo troppo rispetto per quella quota di proletari che si è recata ai seggi per il referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno, credendo sinceramente che potesse essere l’occasione per invertire un senso di marcia che da decenni garantisce sempre più mano libera ai padroni e impone sempre più precarietà e insicurezza ai lavoratori, per pontificare ora su cosa avrebbero o non avrebbero dovuto fare. Sarebbe troppo facile e costituirebbe, almeno per noi, una scelta politicamente inconsistente. Né ci interessa disporre di un piccolo pulpito di cartapesta da cui proclamare a gran voce il fatidico “l’avevamo detto”, magari dopo aver bisbigliato caute riserve mentre si invitava ad utilizzare lo strumento referendario.  Il quorum è stato drasticamente mancato e sul palcoscenico della politica borghese si assegnano le parti. A destra, i tronfi apologeti del disimpegno utile alla conservazione di un assetto in cui le prerogative delle frazioni borghesi di riferimento sono pienamente tutelate, celebrano la loro triste e facile vittoria, fino a rivendicare il desolante grido di battaglia del “tutti al mare”; a sinistra c’è chi si arrabatta per far tornare i conti di una sconfitta che vorrebbe spacciare come solida premessa di future vittorie, mentre i “riformisti” (un tempo con questo termine si indicavano quelle componenti socialiste alternative alla più coerente prospettiva rivoluzionaria, oggi indica solo i pasdaran della cancellazione di ogni, seppur vaga, reminiscenza di tematiche e preoccupazioni sociali che possano essere di intralcio al totale appiattimento sull’eterno presente dello strapotere padronale) si scatenano nella condanna dell’“ideologia” (leggasi qualsiasi attitudine ad un approccio critico verso questo strapotere) e si adoperano a blindare ancor più gli esiti del loro servizio reso al padronato, come le norme del Jobs Act che alcuni quesiti referendari intendevano abrogare. Noi preferiamo rivolgerci a quei lavoratori chiamati al voto da quelle stesse forze politiche e sindacali che, nei fatti, non hanno nemmeno condotto una vera battaglia, e che oggi sono abbandonati a subire gli effetti e i contraccolpi dell’insuccesso dell’operazione. Noi preferiamo sollecitare un ragionamento, una riflessione, preferiamo cercare di fare di questa sconfitta un’occasione di crescita politica.

Le norme del Jobs Act, che riducono le responsabilità imprenditoriali di fronte all’insicurezza sui luoghi di lavoro, sono il frutto di una lunga fase di arretramento della classe lavoratrice, di un suo gravissimo indebolimento all’interno dei rapporti di forza di classe nel quadro complessivo della società. Questo indebolimento ha ragioni storiche reali, profonde, ma le burocrazie sindacali e le formazioni politiche che rappresentano la sinistra parlamentare hanno fatto tutto fuorché impegnarsi a ridurre gli spazi di arretramento, a contrastare la ritirata disordinata della nostra classe, di quella classe che, almeno un tempo, rappresentava sulla carta il loro essenziale referente sociale (basti pensare, ancora una volta, alle responsabilità politiche del varo del Jobs Act o della legge Fornero, alla sostanziale passività mostrata dai sindacati confederali di fronte alle numerose iniziative filo-padronali adottate dai vari Governi “amici”). La nostra classe sconta un periodo, di durata forse inedita nella storia italiana, di sempre più grave e nefasto affievolimento della coscienza politica di appartenere ad una comune dimensione sociale, della capacità di trasmettere esperienze e tradizioni di organizzazione e di lotta. Il peso politico della nostra classe, la sua capacità di affermare i propri interessi, si sono drammaticamente ridotti nell’insieme del quadro sociale (basti pensare alla spaventosa “normalità” con cui la cronaca e la sfera politica registrano i numeri delle morti e degli infortuni sul lavoro). In questo contesto sociale, che senso aveva affidare alla conta di un corpo elettorale interclassista, in cui dominano pressoché incontrastate le politiche e le ideologie padronali, questioni che riguardano direttamente e specificatamente la condizione della classe lavoratrice e l’esigenza di arginare lo strapotere imprenditoriale? Che senso aveva affidare ad un corpo sociale in cui oggi furoreggiano gli umori xenofobi piccolo borghesi, in cui il tema della cittadinanza è diventato una carta vincente dell’operazione populista di compattare un senso di appartenenza nazionale che va di pari passo con la divisione e la vulnerabilità della classe lavoratrice, il responso circa i tempi per la richiesta di cittadinanza? Le sigle politiche e sindacali che hanno ingaggiato questa battaglia, salvo poi nemmeno impegnare in essa il grosso delle loro energie e dei loro mezzi, hanno davvero ragionato su cosa avrebbe comportato la prevedibile sconfitta per gli stessi lavoratori che l’iniziativa referendaria si proponeva sulla carta di tutelare?  

Ognuno elabori la propria risposta. Da parte nostra non possiamo non scorgere in questa attitudine anche una chiara matrice di classe, una evidente separazione, un’estraneità, oggettivamente conflittuale, con gli interessi della classe lavoratrice. Questo, e non da oggi, ci spiega “chi gliel’ha fatto fare”.

“Da qualche parte bisognava pur iniziare”. Questa è la frase che sovente ci viene rivolta dagli onesti, dai sinceri reduci della sconfitta referendaria. Sarebbe, ancora una volta, troppo facile rispondere che per noi non si tratta di cominciare, ma di continuare in un impegno militante che portiamo avanti quotidianamente, senza aspettare scadenze elettorali e senza illudersi che gli strilli da talk show o le dispute a colpi di battute sul web possano sostituirlo; un impegno che, come esperienza storica di classe, è iniziato ben prima di noi. Siamo parte di una storia che ci ha lasciato preziosi insegnamenti da acquisire con serietà, umiltà e consapevolezza che non esistono comode alternative mediatiche od operazioni di marketing che possano sostituire un necessario processo formativo, un lavoro politico tenace, lontano dai riflettori della politica borghese. Ci sono lavoratori che avvertono il bisogno di iniziare in qualche modo ad opporsi al degrado delle loro condizioni, che avvertono l’urgenza di mettere in discussione un sistema in cui ciò che è loro garantito è solo la precarietà e lo sfruttamento, che pensavano che questo punto di partenza potesse essere il referendum? Va bene. Ora si rifletta davvero su quale reale punto di appoggio possa costituire la base per iniziare. La proposta che rivolgiamo loro è quella che scaturisce dalle migliori esperienze del movimento operaio e rivoluzionario: studiare, propagandare, organizzare.

Chi crede che esistano pretese soluzioni all’oppressione di classe capaci di aggirare l’impegno, la dedizione, i sacrifici che questo tipo di impegno richiede si sta solo illudendo. Nella lotta politica, nella guerra di classe, le illusioni si pagano. E il costo può essere anche molto più pesante di quello delle illusioni che hanno accompagnato la finta battaglia del referendum.

Oggi per un proletario impegnarsi politicamente nella coerenza dei propri interessi di classe significa davvero andare controcorrente, strappare risultati che possono apparire modesti rispetto alle energie che richiedono, significa rinunciare alle facili visibilità e ai facili slogan della politica borghese. Ma significa anche sfuggire alle sue illusioni. Significa ingaggiare quella lotta che, sola, può fare di un proletario un libero, consapevole, combattivo soggetto politico e non una pedina in un gioco governato da forze nemiche.

Prospettiva Marxista – Circolo internazionalista «coalizione operaia»

Lascia un commento