Ma il trucco è l’arma dei potenti di fronte ai popoli da dominare:
[…] Trucco oggi che tenta sostenere tutto l’artificio della menzogna guerresca con eccitamenti, lodi, promesse, stimoli, manipolati con sapienza ed abilità perché la benda che acceca i popoli continui a nascondere la realtà.
Trucchi che esaltano la morte per la patria, che esaltano e glorificano il delitto, che parlano e più e più di libertà, di luce, di progresso, di civiltà, quanto più e più ai popoli si chiede di distruggere, di massacrare, di delinquere.
Trucchi che rovesciano ogni senso morale e che chiamano eroe il delinquente, vigliaccheria la bontà, freddo cinismo la fremente solidarietà con tutti gli uomini, nobiltà eroica l’ebbrezza truce e sterminatrice dell’assassino, vinto dall’acre odore del sangue.
Trucchi necessari, indispensabili perché i popoli schiavi perdurino ad essere schiavi ed i dominatori a dividersi in pochi le spoglie della umanità!
F. Misiano, Il distintivo ai mutilati di guerra, 1916.
In un’intervista online per il Corriere del Veneto del 17 settembre, lo storico Marco Mondini, docente all’università di Padova, si spende per i fanti fucilati dai comandi del Regio esercito italiano durante la Prima guerra mondiale: «Tanti gli innocenti uccisi, va restituito loro l’onore».
L’articolo è un significativo condensato del clima che le classi dominanti di tutto il mondo vanno montando da qualche anno a questa parte. Un clima che tende insistentemente a riproporre un linguaggio funzionale ad una più vasta mobilitazione del proletariato in conflagrazioni belliche situate in un orizzonte ormai sempre meno distante.
Lo storico, volto noto dei documentari su Rai Storia, Rai 3 e La7, si schiera nella “battaglia” che vede FdI e Lega divisi su una legge per “riscattare” la memoria delle vittime di decimazione e parla di «memoria infangata» dei soldati fucilati sommariamente, dal momento che «non era possibile accertare» «quali fossero i colpevoli di violenze, diserzioni, sabotaggi, atti di codardia». Dall’altro lato di questo “fronte” da operetta troviamo Fratelli d’Italia, che ritiene «inaccettabile riscattare disertori, ladri e stupratori».
È veramente singolare vedere i nipoti ideali di quei pescicani che ieri si imboscarono arricchendosi sulle commesse di guerra, accapigliarsi oggi su chi fosse innocente e chi colpevole tra i condannati alla morte fisica e alla damnatio memoriae fra coloro che ebbero almeno il fegato di affrontare i pericoli della diserzione dopo che al fronte c’erano stati, dopo aver sguazzato nella poltiglia di fango e sangue delle trincee.
Disertori erano spesso quei proletari che avevano combattuto con coraggio, ma che si erano resi conto che il loro coraggio era stato speso per una causa indegna, che il loro coraggio aveva prodotto orfani e vedove, privato genitori dei propri figli, seminato lutti in famiglie che avrebbero potuto essere le loro, che in fondo erano le loro.
Per i comunisti internazionalisti, “innocenti” furono tutti i lavoratori che vennero trascinati a massacrarsi vicendevolmente dalla sconcia avidità di una borghesia che da sempre si agghinda con le variopinte piume sintetiche della “patria” e dell’“onore nazionale”. È poi abitudine di un inveterato forcaiolismo tricolore allineare i disertori sullo stesso Golgota insieme a “ladri e stupratori”. Non fa meraviglia. Solo chi difende come carne della propria carne la società mercantile può condannare il libero sfogo che la guerra garantisce alle peggiori pulsioni generate e coltivate in questo verminaio senza riconoscerne le cause.
Gli stessi “patrioti” che crocifiggono per la seconda volta i disertori insieme ai saccheggiatori e agli stupratori della truppa, frutti dell’abbrutimento estremo di una società bestiale – e soprattutto se appartenenti a classi di serie B – non hanno però alcuna difficoltà a commemorare ed esaltare come “eroi” i membri di quei corpi speciali “col coltello fra i denti” addestrati ed aizzati allo sgozzamento del “nemico” – in alcuni casi anche quando ormai prigioniero – in cambio di una lustra medaglietta, di una doppia razione e magari di una settimana di licenza da spendere nel più vicino bordello. Evidentemente, quando la ferocia è legittimata e funzionale alle esigenze del capitale, quando lo Stato borghese ne assume il monopolio, perde ogni sua connotazione “criminale”.
Ma quali sono allora gli atti di “violenza” che realmente rendono i soldati “colpevoli” agli occhi della classe dominante? Gli insulti agli ufficiali? un sigaro tenuto fra le labbra mentre passa un generale? le insubordinazioni? gli ammutinamenti, come quello della Brigata Catanzaro? Perché se è di questo che si tratta – e lo è – lo si dica apertamente, senza scadere nel ridicolo biasimo della “violenza” all’interno di quell’immane atto di violenza che è la guerra imperialista.
Mondini, che si è probabilmente persuaso di essere in persino qualche modo “progressista”, si rammarica dell’eccessivo “rigore” applicato nell’esercito italiano, tanto più che quest’ultimo «non conobbe mai ammutinamenti di massa: diverso il caso dei francesi che nel 1917 ebbero metà delle loro divisioni di fanteria che si rifiutarono di combattere». È dunque lecito presumere che in questo caso, per l’accademico, il “rigore” della repressione fu più che giustificato…
Ma il vero clou dell’articolo è nelle conclusioni. Alla domanda dell’intervistatore: «L’esasperata applicazione del codice militare nella Prima guerra mondiale si dimostrò utile agli obiettivi dei comandi?» lo storico risponde secco: «Per nulla. Fu anzi controproducente. […] i giudizi sommari comminati sul campo senza processo non hanno riguardato naturalmente solo innocenti. La proposta di legge regionale suggerisce di attivare una commissione di storici accademici che valuti caso per caso: sarebbe un enorme servizio reso all’esercito attuale [corsivi nostri] che si porta dietro questo fardello di impopolarità; poi alla verità storica e soprattutto alle famiglie di tanti uomini additati spesso ingiustamente per cent’anni come traditori del nostro Paese».
Non avevamo dubbi di sorta sulla ratio di questa riesumazione storica: rendere un servizio. Stabilire un codice militare «utile agli obiettivi dei comandi», che non si riveli «controproducente» ai fini del massacro su scala industriale di cui la guerra imperialistica in corso in Ucraina non è che un pallido assaggio, “liberare il riso dalla pula”, “riabilitare” a titolo postumo i patrioti “innocenti” scremandoli dai “traditori”, dai “codardi”, per restituire popolarità all’esercito attuale e, soprattutto, a quello futuro. Sappiamo bene a cosa è funzionale la “popolarità” di un esercito borghese: a rendere di nuovo in qualche modo appetibile per la nostra classe il sacrificarsi per un simulacro che nasconde i più lerci appetiti di una classe di sanguisughe.
Il messaggio è chiaro ed è scandito con frequenza crescente e crescente insistenza. Ciò che si vuole far passare è l’idea che la guerra “nazionale” sia parte integrante di un ordine naturale, e perciò immutabile, delle cose; e che chi accetta questo ordine, anche a costo della propria vita, è abilitato a far parte di una comunità dalla quale è invece escluso chi questo stesso ordine rifiuta.
Sia ben chiaro, se i comunisti internazionalisti non possono che provare ribrezzo per chi ancora oggi condanna come «carne vigliacca e diarroica» i poveri disgraziati che più di cento anni fa percepirono inconsciamente l’inutilità del loro sacrificio e che cercarono di conservare intatte le membra e la pelle che le ricopriva, se riconoscono nella diserzione il prodotto spontaneo di un ancora inconsapevole rifiuto della guerra da parte della classe che ne paga il prezzo più alto, non hanno però mai conferito ad essa il carattere di una consegna politica, in quanto parola d’ordine illusoria, inconcludente, pacifista e fondamentalmente democratica nelle sue velleità di ottenere la fine della guerra con una sommatoria di “astensioni” individuali.
Nella lotta delle classi, la borghesia è sempre in grado di legare a sé una parte degli strati intermedi e della stessa classe operaia contro un proletariato che inizi ad alzare la testa. In un esercito borghese ci sarà sempre chi non diserta, pronto a farsi carnefice di singoli disertori o a dare loro la caccia se in gruppi. L’esperienza storica ha dimostrato in maniera irrefutabile che il movimento rivoluzionario può fermare la guerra imperialistica conquistando una parte dell’esercito e rivolgendola contro quella che rimane fedele alla classe dominante, prima di marciare, con le armi in pugno, verso i centri del potere del nemico in casa propria. Questa esperienza ha un nome, e non è “diserzione” ma disfattismo rivoluzionario.
Dal momento che la borghesia e i suoi “intellettuali” non possono restituire la vita che hanno rubato ai fucilati, né la voce che hanno loro sottratto relegandoli nel silenzioso Tartaro della storia insieme a tutti i massacrati nelle guerre del capitale, possono tenersi il loro “onore” al caldo e dove più gli aggrada. Non è il nostro onore. L’onore del proletariato è comprendere la propria causa e combattere per essa, e per essa soltanto, con tutto l’orgoglio, il coraggio, la determinazione di cui si è già mostrato capace.
Non ci interessano le “riabilitazioni storiche” partorite dagli scranni istituzionali o dalle cattedre accademiche borghesi. Ci sono riabilitazioni che insozzano più del “fango” che pretendono di rimuovere. Sarà un rovesciamento radicale dello stato di cose presente, sarà l’assalto al cielo a consentire alle vittime di ieri, di oggi e purtroppo di un prossimo domani, di rompere il silenzio e far valere il proprio punto di vista di classe da una posizione di forza, e non per stabilire “colpevoli ed innocenti” ma per ratificare la condanna senza appello ad un intero sistema sociale che ormai può offrire solo barbarie. La lotta rivoluzionaria contro la guerra imperialistica è già iniziata.
