LA MONTAGNA PROLETARIA E IL SORCIO BORGHESE – Per uno sciopero internazionalista in Palestina e in tutto il Medio Oriente

Il 18 maggio è stato proclamato uno sciopero generale dei lavoratori palestinesi in tutto il territorio della Palestina pre-1948, “dal Giordano al mare”, quindi dalla Cisgiordania e dalla striscia di Gaza comprendendo il territorio dello Stato di Israele. Lo sciopero ha dunque coinvolto anche i lavoratori arabi con cittadinanza israeliana.

Diversi giornali hanno rilevato che una cosa simile non accadeva da 85 anni, ovvero dalla rivolta Palestinese del 1936-1938 contro la colonizzazione sionista e contro il mandato britannico, sotto la sostanziale protezione del quale la colonizzazione avanzava prepotentemente, con la violenza economica e quella militare.

Lo sciopero generale di due giorni fa, proclamato in risposta alle aggressioni e ai linciaggi delle squadre di “centoneri” israeliani e alle violenze della polizia israeliana contro le proteste scatenate dagli sfratti di Sheikh Jarrah, sembrerebbe aver avuto una buona risposta in Israele, dove si sono fermati cantieri edili, trasporti (il 50% dei trasportatori sono arabo-israeliani), miniere, personale medico (il 23% degli infermieri e il 21% dei medici sono arabo-israeliani). La protesta si è allargata ad altri strati sociali, diversi impiegati pubblici non si sono presentati al lavoro ed i negozi arabi o hanno dichiarato la serrata o vi sono stati costretti dai garzoni in sciopero.

Questo sciopero, occasionato dal conflitto scaturito dai fatti di Gerusalemme Est, si inserisce in una situazione in cui la combinazione di pandemia e di crisi economica ha aumentato repentinamente il tasso di disoccupazione in Israele, così come il deficit dello Stato, che ha bruciato gli ultimi dieci anni di sforzi messi in campo per ripianarlo. Gli arabo-israeliani, che costituiscono circa il 20% della popolazione  di Israele, sono quelli che hanno pagato maggiormente il prezzo della crisi: molti proletari, ma anche strati intermedi e piccola borghesia. Si stimano in circa 500.000 i piccoli esercizi falliti in tutta Israele.

Purtroppo, sembra che il parallelo con lo sciopero generale del 1936 sia azzeccato soprattutto per le sue possibili pericolose conseguenze. È notizia di poche ore fa infatti che centinaia di lavoratori arabo-israeliani stiano ricevendo tramite messaggi WhatsApp la notifica del proprio licenziamento da parte delle aziende israeliane: “Sei licenziato” recita laconicamente la maggior parte dei messaggi. In altri viene anche illustrata la motivazione: “non sei fedele a Israele”.

Nel 1936, in presenza di una forte immigrazione di capitali e di manodopera ebraica dall’Europa, soprattutto dalla Germania nazista e dalla Polonia fortemente antisemita, le organizzazioni sioniste in Palestina – amministrazione ufficiosa ma parallela del mandato britannico – approfittarono dello sciopero generale dei palestinesi, oltre che per stroncare sul nascere ogni direzione democratico-borghese del movimento nazionale, anche e soprattutto per aumentare la marginalizzazione e la segregazione del proletariato arabo, in linea con la politica del “lavoro ebraico” portata avanti anche dal sindacato corporativo su base etnica ebraica Histadrut. All’epoca lo sciopero partì dai lavoratori del porto di Jaffa e fu proprio allora che iniziò lo sviluppo del moderno porto di Tel Aviv, che soppiantò completamente il primo.

Nell’ottica della “purificazione etnica” di Israele, una perdita di importanza economico-sociale dei cittadini israeliani di origine araba, in aggiunta ai già presenti elementi di discriminazione a livello politico-giuridico, potrebbe non venire del tutto per nuocere alle esigenze capitalistiche in Israele, che oggi può contare sia su una certa disponibilità di manodopera immigrata da paesi asiatici (India e Thailandia fra i primi) con livelli salariali molto bassi, che sugli strati più poveri e discriminati della società ebraica stessa: i mizrahì e i falasciah, gli ebrei la cui ascendenza proviene dai paesi arabi e dall’Etiopia.

È per questo che acquisisce fondamentale importanza il collegamento dei proletari palestinesi e arabo-israeliani con il proletariato ebraico e immigrato. L’unione dei lavoratori palestinesi della Cisgiordania e di Gaza con gli arabo-israeliani può essere un primo passo significativo verso l’unione con tutto il proletariato della regione, compreso quello ebreo. Solo lavorando in questa direzione sarà possibile costruire una forza paragonabile a quella espressa ad esempio dallo sciopero generale di Canton – Hong Kong del 1925 contro la dominazione britannica in Cina, lo sciopero più lungo della storia del movimento operaio (si concluse nella primavera dell’anno seguente). La differenza è che allora il proletariato inglese era molto lontano. Non così in Israele.

È importante invece che lo sciopero palestinese non assuma le caratteristiche dello sciopero generale di Belfast del 1974 – seppure a parti invertite – ovvero quelle di una mobilitazione della classe operaia su linee etniche e confessionali ad uso e consumo della borghesia.

Gli scioperi, in certe situazioni, possono diventare un’arma della borghesia quanto i missili e i razzi. Tuttavia, rappresentano e rappresenteranno sempre un’arma a doppio taglio per la borghesia che, specie quando è debole, la impugna con cautela e solo se vi è costretta. Effettivamente è quanto è avvenuto nei giorni scorsi in Palestina, dove, di fronte ad un’iniziativa che pare partita direttamente da comitati di lavoratori, il partito arabo-israeliano Ra’am ha tentennato prima di aderire, così come hanno aderito gli altri partiti borghesi: Fatah, Hamas e il Movimento islamico.

Lo sciopero è pur sempre uno strumento di lotta specifico della classe operaia e una borghesia che lo incoraggi rischia il destino dell’apprendista stregone. È esattamente quanto vorremmo vedere in Palestina – nell’impossibilità materiale di condizionare direttamente gli eventi – auspicando che lo sciopero generale del 18 maggio scorso possa rappresentare un primo terreno di coltura per delle avanguardie operaie che mettano in discussione il controllo nazionalista borghese della lotta, affinché i prossimi scioperi siano autenticamente “generali”, ovvero coinvolgano tutti i lavoratori della regione. È il solo terreno sul quale sia possibile l’incontro e l’unità di classe con il proletariato israeliano per la risoluzione rivoluzionaria della questione nazionale palestinese.

Le soluzioni proposte dai liberali, dai pacifisti, dagli internazionalisti con le idee confuse, vorrebbero che l’unità e la lotta del proletariato mediorientale si prefiggessero come obiettivo uno stato laico, binazionale e con parità di diritti in Palestina. Tutto questo è molto bello, ma è anche decisamente utopistico da un lato e troppo poco dall’altro.

Utopistico se ritiene possibile che la borghesia israeliana sia disposta anche solo a contemplare la possibilità di rinunciare senza difendersi con le unghie e con i denti ad uno “Stato ebraico” che preserva il predominio etnico di una minoranza rispetto alla demografia degli arabi.

Troppo poco se ritiene che quando il proletariato mediorientale riuscirà a coalizzarsi su linee di classe contro le borghesie nazionali dovrà accontentarsi di mezze soluzioni. La montagna della mobilitazione rivoluzionaria della classe operaia dovrebbe partorire il sorcetto della sistemazione nazionale borghese.

Tutti coloro che si riconoscono nell’autentico internazionalismo proletario non possono che salutare con favore la mobilitazione della classe operaia palestinese e arabo-israeliana, ma questo non significa subordinare un’osservazione attenta e lucida all’entusiasmo per l’avvenimento o fare del desiderio il padre del pensiero. Non possiamo permettercelo, per rispetto di una classe operaia che per risollevarsi ha bisogno di chiarezza e di serietà. Noi – e chi come noi si riconosce in un internazionalismo non annacquato, né astratto, né principista –  ci sforziamo di proporre un orientamento classista, nel riconoscimento delle determinazioni storiche concrete della condizione proletaria palestinese e del suo rapporto con le altre classi, con gli Stati e con le potenze imperialiste – lavorando nei limiti delle nostre esigue forze perché questo orientamento possa raggiungere quanti più lavoratori possibile in Italia e nel resto del mondo. Questo presuppone un basilare rispetto dei nostri potenziali interlocutori, a cui sottoponiamo un ragionamento, non il solleticamento ruffiano dell’emotività, buono a raccogliere facili e immediati ma poco solidi consensi.

Non lasciamo che i frutti della lotta del proletariato in Palestina vengano raccolti dalla borghesia palestinese e israeliana. Noi ragioniamo in termini di classi, di proletariato e di borghesia, non di generici oppressi, definizione non priva di ambiguità che in passato è stata utilizzata anche dalla borghesia per coprire più di una nefandezza.

La bandiera dei cosiddetti oppressi è quella degli sfruttati, e ha un solo colore in tutto il mondo: rosso. Come il sangue che periodicamente versa in guerra e quotidianamente sputa nella galera del lavoro salariato la classe operaia, di tutte le nazioni, etnie, religioni, colori di pelle.


Alleghiamo il link con il commento e la traduzione del nostro articolo curata dalla redazione del A free retriever’s digest. https://afreeretriever.wordpress.com/2021/05/21/the-proletarian-mountain-and-the-bourgeois-mouse/

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