L’UPGRADE DELL’ODIO E LA RICONFIGURAZIONE INTERNAZIONALISTA

“La storia di ogni società esistita fino ad ora è storia di lotte di popoli. Israeliani e palestinesi, tedeschi e italiani, russi e americani, membri della fratellanza musulmana e sionisti, furono continuamente in contrasto tra loro e sostennero una lotta ininterrotta a volte palese a volte nascosta…”

Potrebbe sembrare il Manifesto dei comunisti, ma non lo è. È il manifesto di chi è sempre disposto a mettere in secondo piano, o a trascurare del tutto, la questione fondamentale ormai all’ordine del giorno in tutto il mondo – nel XXI secolo assai più che nel XIX – e la cui soluzione ormai racchiude in sé la soluzione di tutte le altre contraddizioni del capitalismo: la questione di classe.

***

Da diverse settimane il mai sopito conflitto israelo-palestinese si è riacutizzato.  La guerra che sta in questi giorni insanguinando la striscia di Gaza è stata scatenata da un’intensa campagna di provocazioni da parte di Israele nel corso della festività islamica del Ramadan.

Nel solco della tradizionale politica della borghesia israeliana, la Corte suprema dello Stato ebraico ha annunciato una sentenza (che gli scontri hanno differito) che avrebbe decretato in via definitiva lo sfratto delle famiglie palestinesi insediate nel quartiere di Sheik Jarrah, a Gerusalemme Est. A Sheikh Jarrah si insediarono nel 1956 diverse famiglie di sfollati palestinesi, fuggite dalle violenze della “purificazione etnica” operata dalle truppe del neonato Stato di Israele nel 1948. All’epoca il quartiere, come tutta Gerusalemme Est, era sotto il controllo della Giordania, che, con l’assenso dell’ONU, donò ai profughi quei terreni per risiedervi.

La motivazione israeliana degli sfratti sarebbe che quei terreni erano, dal 1876 al 1948, abitati da coloni ebrei fuggiti nel corso della guerra. Secondo il cosiddetto “diritto di ritorno”, che prevede la possibilità per tutti gli ebrei di ritornare nelle proprie abitazioni abbandonate nel 1948, essendo lo Stato ebraico il titolare giuridico di quelle terre, esse devono tornare in possesso di cittadini israeliani. Questo “diritto di ritorno” è unidirezionale: i palestinesi costretti con la forza ad abbandonare le proprie case non hanno nessun diritto di rientrarne in possesso e, d’altro canto, quand’anche gliene fosse concessa l’opportunità, non troverebbero che nuovi edifici occupati da cittadini israeliani, costruiti sulle macerie accuratamente smaltite delle precedenti abitazioni.

È noto che Israele giustifica questa evidente arbitrarietà giuridica con la menzogna storica, contestata anche da studiosi israeliani[1], che nel 1948 gli arabi se ne andarono di loro spontanea volontà o perché istigati dai paesi arabi allora in guerra con il nascente Stato ebraico.

Ad ogni modo, alle proteste palestinesi contro questi sfratti arbitrari, ammantati da un altrettanto arbitraria legalità, alcune organizzazioni nazionaliste ebraiche hanno risposto con aggressioni e intimidazioni. Il pronto intervento delle forze dell’ordine israeliane in difesa degli aggressori dopo la reazione palestinese ha esacerbato la situazione portando ad una rapida escalation.

A scatenare le provocazioni israeliane, i successivi scontri, l’aggressione militare israeliana e la risposta di Hamas da Gaza, è stato un concorso di fattori interni ed internazionali che per il momento sono chiari solo in parte.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è ormai da 12 anni in carica, e sta affrontando diversi procedimenti giudiziari per corruzione in un contesto di ripetute elezioni parlamentari, dovute alla mancanza di una maggioranza stabile di governo. Nel frattempo, negli USA, storico e più potente alleato di Israele, l’amministrazione Trump, che ha riconosciuto unilateralmente Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, è stata sostituita da quella di Biden, della quale non è ancora chiaro quale sfumatura darà alla sostanzialmente scontata alleanza.

Negli ultimi anni, diversi paesi arabi che circondano Israele hanno mutato sia il proprio assetto interno che la loro usuale collocazione diplomatica verso Tel Aviv. La Siria è preda della guerra civile e dell’intervento militare delle potenze imperialistiche e regionali, l’Iraq è fuori dai giochi, il Bahrein ha normalizzato le sue relazioni con Israele e l’Arabia Saudita e l’Egitto hanno notevolmente raffreddato il proprio interessato sostegno verso la causa palestinese. Per contro, negli ultimi anni stiamo assistendo ad una evidente proiezione assertiva nell’area da parte della Turchia, che sembrerebbe intenzionata a sostituire i tradizionali paesi arabi nella bieca strumentalizzazione della causa palestinese.

In Cisgiordania, sotto il controllo dell’Autorità palestinese, non si tengono elezioni politiche da 15 anni, probabilmente per il fondato timore che il supporto della popolazione alle cariatidi di Fatah venga meno. Nella striscia di Gaza d’altronde, dal 2007, dopo una guerra civile è al potere il partito islamico di Hamas, interessato a porsi come unico valido difensore della causa nazionale palestinese.

A questa situazione si devono aggiungere le conseguenze della crisi pandemica, efficacemente affrontata da Israele sia tramite una massiccia campagna vaccinale che per mezzo dell’intensificazione della sua politica di segregazione nei confronti dei palestinesi. Nei territori palestinesi, infatti, per via delle carenze nelle strutture sanitarie e a causa dell’embargo israeliano, ai primi di maggio i vaccinati erano solo 300.000 su 5 milioni di abitanti.

Ma torniamo un po’ indietro nel tempo.

Il proletariato palestinese è da oltre un secolo sotto il tallone di ferro di due borghesie e di diverse potenze, sia imperialiste che regionali. Prima che l’emigrazione sionista dall’Europa acquisisse un certo peso in Palestina, alla fine del XIX secolo, la risistemazione della proprietà terriera ad opera dell’Impero ottomano aveva iniziato a distruggere le comunità di villaggio e gli antichi rapporti feudali, concentrando la maggior parte delle terre, dopo averne espropriati i fellah[2], nelle mani di pochi notabili assenteisti. I nuovi proprietari, interessati più alla remunerativa riscossione delle tasse per l’impero che alla modernizzazione o anche solo alla coltivazione delle terre, ne decretarono l’abbandono all’incuria, mentre i piccoli contadini che non erano costretti a lavorare a mezzadria o come braccianti nei pochi grandi fondi coltivati, dovevano sopravvivere con fazzoletti di terra talmente minuscoli da produrre un reddito persino inferiore al salario di un bracciante, miserabile reddito poi ulteriormente decurtato da tasse e usura[3].

L’inizio dell’emigrazione e della colonizzazione sionista, con il conseguente aumento della domanda di terreni, significò per i proprietari assenteisti, per i mukhtar e per gli sceicchi, la possibilità di fare buoni affari vendendo a caro prezzo le terre che avevano tolto ai contadini palestinesi. È bene ricordare dunque che la prima espropriatrice delle terre palestinesi fu proprio la classe dominante araba della regione, che le vendette ai coloni sionisti dopo averle rese incolte e paludose.

Ma è altrettanto doveroso sottolineare quelle che furono le caratteristiche specifiche della colonizzazione sionista della Palestina, che rappresentò l’incontro di diverse esigenze che nulla avevano a che fare con la Palestina stessa.

Le potenze coloniali europee, la Russia, l’Inghilterra, la Francia, per tutto il corso del XIX secolo avevano tentato di risolvere a proprio vantaggio la “questione orientale” e di spartirsi le spoglie del “grande malato” ottomano. Per alcune di esse, il sorgere del nazionalismo ebraico, in una fase in cui la sistemazione nazionale in Europa volgeva al termine, costituì una preziosa risorsa in tal senso.

Il sionismo nacque come risposta al nazionalismo antisemita delle popolazioni dell’Europa orientale alle quali agli ebrei, per una serie di circostanze di natura economica, non era stato possibile assimilarsi come in Europa occidentale. Le tappe fondamentali dell’ideologia e dell’organizzazione sionista furono scandite infatti dall’indicibile ferocia di quelli che sono passati alla storia come pogrom. Le violenze antisemite nei territori dell’impero russo, e le difficoltà di collocazione degli ebrei all’interno di un’economia arretrata ma in rapida trasformazione, portarono in Europa occidentale una forte emigrazione ebraica dall’est europeo, un risveglio dell’ideologia antisemita e una scossa profonda in parte della comunità ebraica occidentale, pienamente assimilata nei vari livelli della società capitalistica.

Fu proprio in Europa occidentale, infatti, che il sionismo trovò le sue prime sistematizzazioni ideologiche e le sue prime organizzazioni, ad opera principalmente di Theodor Herzl, un giornalista e scrittore austriaco che assistette alla degradazione di Dreyfus a Parigi e che cercò sponsor per il suo progetto presso il Kaiser tedesco e l’organizzatore di pogrom Plehve, ministro dello Zar. Furono la Francia e l’Inghilterra però a cogliere per prime le potenzialità del sionismo nell’ottica della colonizzazione della Palestina, la prima tramite i finanziamenti del barone Rotschild, al quale, da non-sionista, premevano innanzitutto gli interessi francesi nell’area, la seconda tramite un sostegno economico e politico, non ultima la dichiarazione Balfour del 1917, che prometteva l’appoggio britannico ad un “focolare ebraico” in Palestina nello stesso momento in cui appoggiava le rivendicazioni nazionali arabe in funzione anti-turca.

Ma non è soltanto la sua funzione concreta di “testa di ponte” coloniale dell’Europa a caratterizzare la natura imperialista del sionismo. Altrettanto reazionaria è la sua impostazione ideologica.

Fin dall’inizio, il progetto sionista di insediamento nella “terra di Sion” non teneva in nessun conto l’esistenza di popolazioni autoctone. La tacita omissione di qualsiasi accenno al legame della terra palestinese con i suoi abitanti prefigurava eloquentemente che la loro sistemazione non doveva essere problema dei colonizzatori. I coloni acquistavano pezzo dopo pezzo la Palestina per “restituire la terra di Israele al suo popolo”, il fatto che nei precedenti 17 secoli altre popolazioni si fossero insediate su quella terra non aveva nessuna importanza e, a differenza di altri progetti coloniali, il sionismo non si proponeva di sfruttare le risorse umane di forza lavoro locale, ma di sostituirle completamente. La coesistenza con altre popolazioni, quale che fosse il loro ruolo sociale, non era teoricamente contemplata.

Se all’inizio le prime colonie sioniste, che si reggevano con sottoscrizioni e finanziamenti della comunità ebraica europea, furono costrette ad impiegare manodopera locale a causa della scarsità dell’emigrazione e dell’insostenibilità economica dei livelli medi di salario richiesti dagli emigrati europei rispetto ai bassi salari di cui si accontentavano i fellah, con il progredire della colonizzazione e con il migliorare delle condizioni dell’economia sionista il progetto di “purificazione etnica” si fa più esplicito: nessun lavoratore arabo deve essere impiegato in aziende o fattorie ebraiche. Se questo consolida i legami degli operai ebrei con il progetto sionista, dall’altro lato getta in uno stato di semi-perenne disoccupazione le masse proletarie arabe, costrette ad abbassare ulteriormente le proprie richieste salariali per trovare uno straccio di lavoro. Il protezionismo sionista ovviamente si estende ai prodotti dell’agricoltura, che devono essere di esclusiva produzione ebraica, rendendo così ancor più difficili le condizioni dei piccoli contadini. La borghesia araba, che d’altro canto non ha alcun interesse a mitigare il proprio sfruttamento delle masse palestinesi, ha buon gioco ad imputare all’intera popolazione ebraica, con parte della quale ha fatto e continua a fare lucrosi affari, l’intera responsabilità della condizione disperata del proletariato e dei contadini palestinesi, indirizzando odio e violenze lontano da sé.

L’oppressione e l’espropriazione dei palestinesi, dunque, non ha inizio con la nascita dello Stato di Israele nel 1948, ed è fin dall’inizio contraddistinta dal suo carattere duplice: lo sfruttamento capitalistico della borghesia araba ed in parte ebraica a cui si somma la violenza giuridico-politico-militare del sionismo, prima e dopo la sua erezione a sistema statale.

Nel corso degli ultimi 73 anni il conflitto arabo-israeliano è stato scandito da almeno 6 guerre: quella del 1948, quella del Sinai nel 1956, la guerra dei sei giorni del 1967, quella del Kippur del 1973, quelle in Libano del 1978 e 1982, più diverse guerre a bassa intensità dagli anni 2000 ad oggi. In tutte queste guerre il proletariato palestinese è stato utilizzato come pedina, come merce di scambio, come prima linea sacrificabile, come carne da cannone dalle varie borghesie regionali: Giordania, Egitto, Siria, Iraq. E, tramite queste, nel gioco imperialista per l’influenza nell’area da parte di potenze come la Francia, l’Inghilterra, gli USA, l’URSS (poi Russia).

I proletari palestinesi sono stati cacciati a forza dalle loro case, rinchiusi in bantustan in Cisgiordania e a Gaza – sempre più ristretti dal rosicchiamento dell’espansione territoriale di Israele. Gli enormi campi profughi nei paesi limitrofi sono stati scientemente mantenuti dagli Stati arabi “amici della causa palestinese” in condizioni di cronica indigenza e di mancanza di infrastrutture adeguate, con l’intento di coltivare delle gigantesche serre di odio contro lo Stato ebraico, che, dal canto suo, conta su questo odio per compattare il proletariato dietro il mito della fortezza assediata, baluardo di democrazia e civiltà contro la prospettiva di una seconda shoah.

Questo è il contesto nel quale viene ad inserirsi il massacro di questi giorni, a cui ci sentiamo di aggiungere la relativa novità delle proteste dei lavoratori arabi di cittadinanza israeliana, che introducendo un elemento di fermento sociale nella stessa Israele, avrebbero la potenzialità, se riusciranno a liberarsi del condizionamento ideologico nazionalista, di costituire un ponte con la classe operaia israeliana.

A parte questo, assistiamo ad un tragico film già visto: da un lato la violenza indiscriminata su scala industriale scatenata da uno Stato imperialista contro le masse palestinesi, dall’altro frazioni politiche della rachitica borghesia palestinese pronte a sacrificare qualche migliaio di proletari, fra cui donne e bambini, da mettere sul piatto dell’opinione pubblica mondiale. Per ottenere un’indipendenza che sanno benissimo di non poter raggiungere con le proprie forze? Certamente no. Semmai per avere qualche carta da giocare al tavolo della diplomazia internazionale e vedersi riconosciuto un ruolo di interlocutori che permetta loro di continuare a vivacchiare dei loro affari.

Per ottenere quale risultato Hamas invierebbe su telegram ai gazawi l’annuncio dell’orario in cui lancerà i suoi razzi su Tel Aviv? Non certo per motivi di efficienza bellica, visto che i suoi pochi razzi vengono in gran parte intercettati in volo e colpiscono vittime civili (e sembra perlopiù arabo-israeliane), ma esclusivamente per mettere in mostra la sua “potenza” e accreditarsi fra i proletari palestinesi come l’unica forza politica in grado di difenderli militarmente. Ciò che conta è che il proletariato palestinese non si volga verso una propria autonomia di classe.

Per la borghesia di Israele vale lo stesso discorso: per essa è necessario che il proletariato israeliano si riconosca incondizionatamente nel mito nazionale, e nulla più dello scatenamento dell’odio palestinese può riuscire nello scopo. È facile alla classe dominante israeliana alimentare un clima di terrore grazie ai lanci di razzi, alle autobombe e agli attentati palestinesi. Quello del terrore palestinese è un rubinetto che la borghesia israeliana sa sapientemente aprire quanto basta per ricordare alle masse israeliane l’union sacrée, per poi richiuderlo rapidamente con la sua soverchiante potenza bellica.

Se non bastasse, nel corso degli anni la borghesia israeliana ha collaudato il suo metodo di “selezione artificiale” della classe dirigente palestinese, tramite operazioni di intelligence, arresti e “omicidi mirati”, volti a eliminare elementi problematici per la sua gestione della situazione e a promuovere alcune forze politiche piuttosto che altre. A tal proposito non abbiamo dubbi che abbia sempre messo nel suo mirino qualsiasi eventuale tendenza classista o internazionalista potesse anche solo minimamente iniziare a manifestarsi e che non fosse preventivamente stroncata da Hamas o dall’Autorità palestinese.

Periodicamente, alle borghesie israeliana e palestinese e alle potenze che manovrano nell’area, vecchie e nuove, è necessario un aggiornamento di quell’odio che si è sedimentato nella psicologia delle masse israelo-palestinesi dopo decenni di violenze reciproche (anche se asimmetriche). È necessario un upgrade.

Questo è il quadro della situazione.

Di fronte a questa tragedia, che oggi può apparire irrisolvibile, quale dovrebbe essere il punto di vista classista e internazionalista?

Il punto di vista classista e internazionalista è quello che indica al proletariato palestinese la necessità di una difesa dalle violenze dello Stato di Israele che non sia subordinata alla direzione politica della borghesia palestinese rappresentata da Hamas o Fatah. È quello che rivendica la necessità per il proletariato palestinese e quello israeliano di unirsi sul terreno di classe nella comune lotta alle rispettive borghesie.

Da parte della cosiddetta “sinistra radicale” vengono ripetuti gli stessi anatemi e le stesse ricette di sempre: “libertà per il popolo palestinese”, “chi non si schiera è complice”, “appoggio incondizionato”, “dalla parte dei palestinesi senza se e senza ma”. Chi tenta di dare una maggiore verniciata di “marxismo-leninismo” alla questione utilizza strumentalmente il principio dell’autodeterminazione nazionale e la duplice oppressione palestinese per giustificare una scelta di campo a favore di una delle borghesie, o di uno degli schieramenti borghesi, in conflitto. In ogni caso il minimo comune denominatore è il completo abbandono anche di un qualsiasi accenno alla demarcazione di classe[4].

Innanzitutto, è sempre curioso riscontrare nei campioni dei “popoli oppressi” una singolare mancanza di coerenza: l’oppressione nazionale palestinese o kurda suscita una giusta commozione e indignazione, mentre l’oppressione nazionale degli uiguri da parte della Repubblica popolare cinese non merita neanche un post su facebook; l’indipendenza catalana è degna di riconoscimento e di entusiasmi, mentre quella del Tibet non ha rilevanza, e potremmo continuare a lungo.

Da internazionalisti non subordiniamo la valutazione storica della rivendicazione dell’autodeterminazione nazionale all’appartenenza a presunti “popoli di sinistra” o “di destra”, ma a criteri ben definiti e non suscettibili di incoerenze ideologiche.

Certo, qualcuno concepisce l’internazionalismo comunista come l’affratellamento delle libere patrie, il che, oltre che essere più vicino al mazzinianesimo che al marxismo, è anche contraddittorio, dal momento che finché vi saranno stati-nazionali all’interno del modo di produzione capitalistico questi non potranno che avere interessi contrastanti, ed ogni “affratellamento” di stati nazionali non potrà essere altro che una coalizione di interessi contrapposta a quelli di altri stati.

Ma internazionalismo non significa: “a ciascuno la sua patria”, significa al contrario che “il proletariato non ha patria” e se, in alcuni casi ha dovuto lottare per averne una è stato solo ed esclusivamente in funzione della lotta di classe e della rivoluzione che dovrà abolirla.

Uno dei procedimenti che spesso viene utilizzato per tacciare di astrattismo e “principismo” una posizione coerentemente internazionalista è quello di rievocare la considerazione che della lotta indipendentista irlandese ebbero Marx ed Engels nel XIX secolo. Ed è proprio l’utilizzo strumentale di paragoni di questo tipo che rivela la profonda incomprensione del metodo marxista, rendendo possibile respingere al mittente qualsiasi accusa di astrattismo.

Nel corso della loro vita politica Marx ed Engels mutarono la loro valutazione della lotta irlandese per l’autodeterminazione nazionale, e questo mutamento fu sempre determinato da due fattori estremamente concreti: 1) lo sviluppo della rivoluzione proletaria in un paese capitalisticamente sviluppato e oppressore, in questo caso l’Inghilterra e 2) un’attenta valutazione dei rapporti di forza delle classi in un paese arretrato e oppresso dal primo, in questo caso l’Irlanda.

Sulla base di un’analisi di questi fattori Marx ed Engels passarono da una posizione che vedeva nella rivoluzione del proletariato inglese la sola via per un’indipendenza irlandese a quella che assunsero in seguito, e che riteneva la rivoluzione nazionale irlandese il possibile innesco di una rivoluzione proletaria britannica. In entrambi i casi, la rivendicazione nazionale era subordinata alla rivoluzione proletaria: funzionale ad essa o suo risultato. Il cambio di passo fu determinato dallo sviluppo di una borghesia irlandese capace di esprimere una certa forza politica e dal momentaneo aggiogamento del proletariato inglese al proprio Stato, per il tramite di un’aristocrazia operaia socialmente corrotta dai sovraprofitti imperialistici.

Nella maggiore (e migliore) parte dei casi chi oggi rivendica una Palestina libera pone come unico criterio alla base del suo appoggio “incondizionato” una sacrosanta indignazione morale contro l’oppressione e un concetto giuridico di indipendenza nazionale eticizzato, valido in sè. Ma anche dal punto di vista di una rivoluzione proletaria in Israele, il paese oppressore capitalisticamente sviluppato, e da quello dei rapporti di classe nei territori palestinesi, arretrati e oppressi, è possibile oggi riproporre la specifica valutazione della lotta irlandese come modello della lotta in Palestina? Crediamo che i fatti siano sufficientemente eloquenti nel negare questa possibilità.

Ci si potrebbe rimproverare, con molta faciloneria, un internazionalismo di principio, astratto, ideologico, dal momento che i rapporti di forza del proletariato in Palestina non consentirebbero una posizione autonoma di classe e quindi, nell’esigenza di dare una consegna di azione immediata alle masse palestinesi sotto attacco, sarebbe molto più concreto schierarsi, “qui e adesso” con il “popolo” palestinese.  Tuttavia, la concretezza di chi critica questa posizione è una concretezza che si pone oggettivamente al servizio di altre classi. Noi non siamo disposti ad abbandonare la nostra trincea per combattere in quella di qualcun altro. Una posizione coerentemente classista e internazionalista va perseguita e affermata in ogni circostanza, anche quando le sue possibilità di trasformarsi in azione concreta non sono all’orizzonte visibile. Anche quando farlo non è popolare, anzi, soprattutto quando non lo è.

Lo sdegno, la commozione, la rabbia di fronte all’infamia, alla vista del massacro di donne e bambini, di giovani e vecchi sotto le bombe, guida il nostro sentimento di comunisti rivoluzionari, ma non può da solo determinare l’orientamento politico di classe. A noi premono le vite di quelle migliaia di proletari che, armate solo di sassi contro carri armati e caccia – mentre i loro presunti rappresentanti e difensori si dilettano in spettacoli pirotecnici appariscenti e qualche volta letali solo per la popolazione civile – non hanno nessuna speranza di scampare al macello. E ci premono a tal punto da non volerle vedere massacrate esclusivamente per soddisfare una certa retorica del Davide contro Golia… fatta sulla pelle degli altri. È chi non si schiera con il proletariato palestinese ed israeliano, contro la borghesia israeliana e palestinese, ad essere complice di queste ultime. Noi ci siamo storicamente schierati. In nome di una presunta concretezza, altri abbandonano questo schieramento e ne abbracciano uno che ha il solo pregio di arrecargli la soddisfazione dell’azione immediata, ma nociva.

Il proletariato palestinese, è inutile negarlo, da solo non ha purtroppo la forza di portare avanti un processo di liberazione nazionale, mentre alla borghesia palestinese, fradicia, marcia, reazionaria su tutta la linea, mancano sia la forza che la volontà di perseguirlo. Restano due vie per la sistemazione nazionale dei palestinesi: la via imperialista, passando per una sanguinosa guerra tra potenze regionali e Stati manovrati dalle potenze imperialistiche, che potrebbe creare uno Stato palestinese al prezzo della distruzione di Israele e di milioni di vite; oppure la via rivoluzionaria, imboccata dal proletariato di tutta la regione, che è l’unico ad avere la forza di classe per opporsi a questo scenario e che sopprimerebbe ogni oppressione nazionale facendola finita con le borghesie arabe, israeliane, egiziane, giordane e turche. È difficile? No, è difficilissimo. Ma non esiste altra via che non sia utopistica o reazionaria.

Se da un lato la Palestina non può svolgere in Medio Oriente il ruolo che aveva l’Irlanda nello schema strategico di Marx applicato all’Inghilterra, è anche vero che ad oggi il proletariato israeliano è ideologicamente asservito alla propria borghesia e al proprio Stato come e più degli operai inglesi all’Impero di sua maestà. Questo è il capolavoro della borghesia israeliana, con l’aiuto delle borghesie arabe: la piena identificazione della classe dominata con il nazionalismo borghese e il fanatismo religioso. Tuttavia, se anche il 99% del proletariato israeliano fosse ideologicamente corrotto dal nazionalismo, comunque non sfuggirebbe alle leggi del capitalismo che lo costringeranno a muoversi come classe, non potrà quindi mai essere identificato con la borghesia, e nessun comunista rivoluzionario potrà ritenersi, in nessun momento, esonerato dal compito di propugnare e costruire l’internazionalismo classista.

E ora? Qui e adesso?

Ora il proletariato palestinese deve difendersi dalle violenze israeliane senza diventare carne da macello per Hamas o altre frazioni borghesi, e al tempo stesso deve perseguire la sua autonomia di classe nel corso degli scioperi, delle proteste, delle lotte in atto. Difendersi opponendo violenza alla violenza non preclude di provare in ogni modo a stabilire contatti con il proletariato israeliano, che avrebbe la forza di contribuire alla risoluzione del problema se solo potesse intravedere uno spiraglio internazionalista nell’odio nazionale che lo circonda e di cui è esso stesso infettato. Non vogliamo entrare nel merito dell’equiparazione di Israele con la Germania nazista, ma a quelli che la propongono così a cuor leggero replichiamo: se fu possibile ad alcuni comunisti internazionalisti francesi costruire una piccola rete organizzativa con alcuni soldati tedeschi durante l’occupazione nazista in Francia, deve essere possibile quantomeno porsi un obiettivo simile anche in Palestina.

E gli operai in Italia? Cosa devono fare?

Certamente dare al proletariato mediorientale un segnale di inequivocabile internazionalismo sia dal punto di vista della proiezione pubblica sia dal punto di vista dell’azione concreta, dove e nella misura in cui i rapporti di forza lo consentano. Un buon esempio lo hanno fornito quei portuali che si sono rifiutati di caricare armi destinate all’Arabia Saudita e a Israele. Ancora più significativo e inequivocabile sarebbe impedire il carico delle armi vendute dall’imperialismo italiano a tutti gli attori del conflitto mediorientale: Qatar, Emirati Arabi ed Egitto primi fra tutti.

Sono 73 anni che i finti strateghi del movimento operaio nostrano accettano le carte del mazzo truccato della classe dominante appiattendosi sulla soluzione nazionale della questione palestinese, il cui unico risultato – che era l’unico possibile con questa impostazione – è l’upgrade dell’odio in una spirale senza fine. Questo non è nemmeno più utopismo, è quello che viene descritto come l’aspettarsi un risultato diverso perseverando nell’errore. Non è troppo tardi per far saltare banco e carte truccate, non è troppo tardi per una riconfigurazione internazionalista.

I 75 operai palestinesi della fabbrica israeliana Yamit Sinon di filtrazione delle acque, situata presso la città di Tulkarem, in un’assemblea svoltasi nei primi giorni di gennaio 2021 nella quale hanno deciso uno sciopero a tempo indeterminato.

[1] I. Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, 2015.

[2] I piccoli contadini arabi della Palestina.

[3] Nel 1936 il processo di concentrazione della proprietà fondiaria araba era avanzato al punto che circa 65.933 piccoli appezzamenti di meno di dieci ettari coprivano il 36,7% delle terre, mentre 150 appezzamenti dai 100 ettari in sù coprivano il 27% delle terre. Cfr. N. Weinstock, Storia del sionismo, Massari, 2006.

[4] Notiamo, en passant, l’ipocrisia di chi sostiene con veemenza la specificità, se non la pari importanza, della questione di genere rispetto alla questione di classe ma che nella striscia di Gaza la subordina – se non la ignora completamente – alla questione nazionale. E non ci risulta che il governo di Hamas, che poche settimane fa voleva imporre la necessità del permesso di un uomo per ogni donna che volesse muoversi a Gaza, costituisca un faro di emancipazione femminile. Questo la dice lunga sul posto che per costoro occupano la lotta di classe e la questione di genere rispetto al principio nazionale. Di fatto è sempre la prima ad essere “messa da parte”.

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