
“Niente è più facile che essere idealisti per conto d’altri. Un uomo satollo può facilmente farsi beffe del materialismo degli affamati, che chiedono un semplice pezzo di pane invece di idee sublimi”.
K. Marx, New York Daily Tribune, 11 maggio 1858
È di pochi giorni fa la notizia che dal prossimo trimestre la bolletta elettrica aumenterà del 40%, dopo che già nello scorso trimestre era aumentata del 20%. Secondo alcune stime, se questo aumento fosse confermato, corrisponderebbe a una spesa di circa 247 euro in più all’anno.
All’origine del rincaro in Europa ci sarebbe in primo luogo l’aumento delle quotazioni delle materie prime combustibili, a seguito di un aumento della domanda di energia provocato da una certa crescita economica globale – dato interessante soprattutto per chi si limita a recitare la formula rituale della “crisi”, come se il solo evocare la parola possa esimere da una concreta analisi strutturale che renda conto della specificità di ogni crisi.
Ma al rincaro contribuirebbero, per circa un quinto del totale, anche l’assolvimento degli obblighi del mercato Ets Ue, ovvero il Sistema per lo scambio delle quote di emissione dell’UE. In pratica viene fissato un tetto alla quantità totale di alcuni gas serra che possono essere emessi dagli impianti che rientrano nel sistema. Il tetto si riduce nel tempo, in modo tale da ridurre, teoricamente, le emissioni totali. Sotto questo tetto, gli impianti acquistano o ricevono quote di emissione che, se necessario, possono essere scambiate, infatti, la limitazione del loro numero totale garantisce che le quote disponibili abbiano un valore. A fine anno gli impianti devono restituire un numero di quote sufficiente a coprire interamente le loro emissioni se non vogliono subire pesanti multe. Se un impianto riduce le proprie emissioni, può mantenere le quote inutilizzate per coprire il fabbisogno futuro, oppure venderle a un altro impianto che ne sia a corto. L’abbassamento del tetto implica che il prezzo delle quote di emissioni di gas inquinanti aumenti gradualmente, per spingere le aziende a decarbonizzare. Le aziende consumatrici di carbone sono incentivate a indirizzarsi verso il gas, e questo produce l’aumento delle tariffe in bolletta, dal momento che la maggior parte delle centrali termoelettriche che producono energia bruciano soprattutto gas.
Non c’è bisogno di specificare che questi rincari influiscono maggiormente su chi vive di salario, e ancora di più su chi vive di un salario basso.
Ovviamente, alla divulgazione della notizia dell’aumento del costo dell’elettricità ha fatto seguito da un lato l’assicurazione, da parte dell’attuale ministro della “transizione ecologica”, che il governo farà di tutto per non penalizzare le “famiglie”, dall’altro non è mancata la consueta retorica del “dovere” di affrontare la transizione verso energie più “sostenibili”, “senza indugi e con sacrifici enormi”. Molto bene. Sacrifici di chi? Di tutti, indistintamente? Del popolo, della cittadinanza, della nazione? Ci risiamo. Popolo, cittadinanza, nazione, definizioni altisonanti quanto vuote in una società che è divisa in classi, una classe dominata e una classe dominante, e nella quale gli Stati e i Governi sono l’espressione di questa divisione che ha il compito specifico di mantenerla nell’interesse di chi domina.
Se qualcuno non lo avesse ancora afferrato, il compito di sacrificarsi spetterà alla classe che ha pagato e paga tutt’ora il prezzo più alto dell’inquinamento e della devastazione ambientale prodotte dall’accumulazione del capitale; la classe che conta i suoi caduti sul fronte del lavoro per asbestosi, per avvelenamento nelle industrie chimiche, per tumori prodotti da radiazioni e oggi anche per Covid-19, grazie all’indebolimento polmonare provocato dai particolati respirati in una vita passata in fabbrica a sudare il salario e a valorizzare quel capitale che oggi si scopre una coscienza “green”. Alla coscienza verde del capitale è arrivato il momento di opporre una buona volta la coscienza di classe del proletariato, l’unico baluardo per non farsi strumento delle lotte titaniche fra i grandi gruppi del capitale mondiale, che impugnano e finanziano la cosiddetta “sensibilità ambientale” per indirizzare colossali investimenti pubblici e privati verso i settori della “green economy” e per scaricare i costi della “transizione” sulle spalle della classe operaia.
Le energie pulite, le fonti rinnovabili, il recupero dei materiali, il prodotto a basso impatto ambientale, ecco i settori sui quali frazioni importanti del capitale mondiale stanno puntando nel tentativo di rilanciare il ciclo dell’accumulazione.
Quella a cui da anni stiamo assistendo è una colossale migrazione di capitali: frazioni del capitale sciamano come locuste sul settore delle energie rinnovabili, settore in espansione sul medio periodo e ad alta profittabilità – tra l’altro accelerando, in questa affannosa rincorsa all’ossigeno di un congruo saggio di profitto, l’accumularsi delle contraddizioni che porteranno all’inceppamento del processo della valorizzazione capitalistica, con tutto quel che può conseguirne a livello strutturale e sovrastrutturale.
Seminari, conferenze, servizi telegiornalistici, documentari, film, saggi, romanzi pubblicità martellanti, prodotti green, eco, bio, a chilometro zero, una sensibilità che diventa senso comune e discrimine fra ciò che è alla moda e ciò che non lo è. Se poi essere alla moda è anche etico… lo stigma e la colpevolizzazione di chi non si adegua (senza curarsi delle sue possibilità materiali di adeguarsi, naturalmente) è servito. Quale altro significato può avere questo massiccio battage se non quello della costruzione di un’esigenza, di un mercato; se non quello della classica offerta che fa violenza alla domanda? Occorre creare consenso, un’opinione pubblica adeguata; occorre sbloccare risorse, indirizzare finanziamenti, promuovere regolamentazioni e vincoli, ad esempio tasse e limitazioni sui veicoli inquinanti per obbligare ad acquistare costose auto ibride ed elettriche. Per farlo occorre rivolgersi ai Governi, e, affinché il tutto sembri molto democratico, molto popolare, molto dal basso, mobilitare gruppi politici come strumenti di pressione, finanziarli, riesumarli dal dimenticatoio e dall’irrilevanza nella quale hanno sonnecchiato per decenni e trasformarli in movimenti “di massa”… almeno finché servono.
Qualcuno, molto ingenuo o molto furbo, potrebbe sostenere che se la dinamica del capitalismo può risolvere il problema ambientale, tanto meglio. Si innalzino dunque peana alla santa trinità delle tre P: pianeta, popolo e soprattutto… profitto. Ma è veramente plausibile?
No, non è plausibile, perché il capitalismo è produzione ipertrofica, produzione per la produzione. Certamente non si produce per soddisfare bisogni, se è vero che viviamo in un mondo in cui si producono derrate alimentari utili a sfamare più di 9 miliardi di persone ma al tempo stesso centinaia di milioni di esseri umani soffrono di malnutrizione e decine di milioni trascinano la propria esistenza tra i tormenti della sottonutrizione cronica, fino a morirne. Lo stesso discorso vale per la produzione di altri beni di consumo o di beni strumentali: il capitalismo produce più di quanto ci sia bisogno (per non parlare della produzione inutile, dannosa o nociva) e al tempo stesso lascia parte dell’umanità in condizione di bisogno. È di per sé evidente che questa iperproduzione, intrinseca al capitalismo, sia la causa principale dell’inquinamento catastrofico a cui stiamo assistendo. Se ad un’economia basata sul profitto e sul risparmio dei costi di produzione convenisse spendere maggiormente nei costi di produzione, non sarebbe un’economia basata sul profitto, non sarebbe capitalismo. Per risolvere la “questione ambientale” le classi dominanti economicamente e politicamente, dovrebbero ragionare nell’interesse della specie, a lungo termine, e non in base ai bilanci trimestrali… Ed è proprio quello che non sono e non saranno mai capaci di fare. Non per cattiveria o per indifferenza, per quanto sia innegabile – a dispetto di tutti coloro che gridano: “non esiste un pianeta B” fingendo di non accorgersi che il pianeta B esiste ed è quello in cui suda e muore la classe operaia mondiale – che le conseguenze del disastro i borghesi le pagheranno meno degli altri o più tardi di tutti gli altri, ma perché questo modo di produzione ha le sue proprie leggi di funzionamento.
No, non è plausibile, perché i colossali investimenti nella “green economy” e la conseguente nuova produzione inquinano quanto quella basata sul carbon fossile, e comunque in ultima istanza si fondano su quest’ultima, sommando produzione a produzione, inquinamento a inquinamento, devastazione a devastazione su scala planetaria, magari reimpiegando parte infinitesima dei mostruosi profitti per creare piccole oasi verdi nei paesi a capitalismo maturo, alla stregua di “villaggi Potemkin”, per tacitare la coscienza verde di qualche sprovveduto. Quando non si tratta semplicemente di alimentare tendenze di mercato che diano il via a speculazioni finanziarie (fondi bancari internazionali, titoli legati a “progetti” green) del tutto slegate dalla produzione, che si gonfiano fino a creare nuove gigantesche bolle pronte a scoppiare disastrosamente.
continua…