
Dall’introduzione al testo di Kurt Landau La guerra civile in Austria
Parte II
Con la caduta della Repubblica ungherese dei consigli, nell’agosto 1919, si ebbe anche un rallentamento della politica di riforme moderate portate avanti dal governo per dare sfogo alla pressione esercitata dal proletariato austriaco in seguito alle vicende ungheresi. La rivoluzione, pacifica e democratica nelle teorizzazioni dell’austromarxismo, venne rinviata a tempi migliori, e i progetti di socializzazione si trasformarono in una pura e semplice gestione della riconversione industriale. La reiterata promessa di avanzatissime riforme strutturali e la vasta politica di edilizia popolare portata avanti dalle amministrazioni municipali socialdemocratiche aveva a questo punto svolto il suo compito, allontanando il proletariato austriaco dal bolscevismo.
Alle elezioni politiche dell’ottobre 1920, le prime a cui parteciparono, i comunisti austriaci presero 26 mila voti, a fronte del milione di voti della socialdemocrazia e del milione e duecentomila dei cristiano-sociali. L’esperienza di governo socialdemocratica ebbe termine qui. Per il momento, la borghesia austriaca non aveva più bisogno del partito operaio-borghese ai vertici dell’esecutivo e, d’altro canto, già dal 1918 aveva iniziato a costituire dei corpi paramilitari controrivoluzionari come le Dorfwehren (milizie di villaggio), le Bauernwehren (milizie contadine), le Burgerwehren (milizie civiche), e le Heimwehren (milizie patriottiche), che, in virtù degli ampi finanziamenti elargiti dagli industriali austriaci e grazie alle armi fornite da Mussolini e da Horthy, assunsero una posizione predominante.
A dimostrazione della specificità dell’ambiente di incubazione del fascismo nell’area germanica è interessante notare che le Heimwehren, così come i Freikorps tedeschi, si caratterizzano per l’esercizio di una feroce violenza etnica nelle aree storicamente tedesche, che, con il trattato di Versailles o vengono assegnate ad altri Stati o la cui appartenenza viene demandata all’esito di plebisciti e nelle quali la popolazione tedesca è o rischia di diventare minoranza (ad esempio i paesi baltici, l’alta Slesia contesa dalla Polonia e la Carinzia in cui risiedeva una componente slovena).
Il 15 luglio 1927, in un moto di rabbia spontanea e incontenibile per la provocatoria assoluzione di alcuni fascisti responsabili di un sanguinoso eccidio proletario nel Burgenland, la classe operaia viennese insorse compatta e diede alle fiamme il Palazzo di Giustizia. Di quella straordinaria e tragica giornata ci ha fornito un appassionato e suggestivo resoconto – che vale la pena riprendere estesamente – un testimone d’eccezione, lo scrittore Elias Canetti, che da quel giorno intraprese uno studio che lo impegnò nel corso della sua intera esistenza e che riversò nel suo magnum opus Massa e potere:
Gli operai di Vienna, che normalmente erano disciplinati, avevano fiducia nei loro capi del partito socialdemocratico e si dichiaravano soddisfatti del modo esemplare in cui essi amministravano il Comune di Vienna, agirono in quel giorno senza consultare i loro capi. Quando appiccarono il fuoco al Palazzo di Giustizia, il borgomastro Seitz[1], su un automezzo dei pompieri, cercò di tagliar loro la strada alzando la mano destra. Fu un gesto assolutamente inefficace: il Palazzo di Giustizia andò in fiamme. La polizia ebbe l’ordine di sparare, i morti furono novanta. […] Mi trasformai in un elemento della massa, la massa mi assorbì in sé completamente, non avvertivo in me la benché minima resistenza contro ciò che la massa faceva. […] Io non so chi abbia dato come meta il Palazzo di Giustizia agli immensi cortei che provenivano da ogni zona della città. Si potrebbe anche pensare che la cosa avvenne da sé; ma non è un’ipotesi molto attendibile. Qualcuno deve pur aver lanciato per primo la parola d’ordine “Al palazzo di Giustizia!”. Tuttavia, non è importante conoscere il nome di quella persona, dal momento che la parola d’ordine fu fatta propria da chiunque poté udirla, e da ciascuno fu accolta senza esitazioni, riflessioni, titubanze, indugi o dilazioni, e tutti trascinò in una sola direzione. […] il suono più tagliente erano urla di sdegno, quando sparavano sulla folla, e la gente cadeva. Le urla, allora, diventavano tremende, soprattutto quelle delle donne si sentivano con chiarezza. […] L’ostinazione della massa, che appena ricacciata, subito risbucava compatta dai vicoli laterali. La gente non si lasciò distogliere dall’idea del fuoco, il Palazzo di Giustizia andò in fiamme, bruciò per ore, e in quelle ore la febbre salì, raggiunse il suo apice. […] Non vidi appiccare il fuoco al Palazzo di Giustizia, però me ne accorsi, prima ancora di vedere le fiamme, dal mutamento nel tono di voce della massa. Quel che era successo la gente se lo gridava da lontano; dapprima non capii; le voci suonavano gioiose, non stridule, non avide, ma come liberate. Era il fuoco l’elemento di coesione. Sentivi il fuoco, la sua presenza era schiacciante, anche laddove non riuscivi a vederlo lo avevi in mente, la forza di attrazione del fuoco e quella della massa facevano tutt’uno. Le salve della polizia scatenavano urla di sdegno, le urla di sdegno nuove salve: ma dovunque ti trovassi esposto agli spari, o dovunque tu ti fossi apparentemente rifugiato – il legame con gli altri, palese o nascosto, a seconda del luogo, conservava comunque la sua efficacia, magari per vie tortuose, visto che non era possibile diversamente; e quel legame ti riconduceva nella sfera dominata dal fuoco. […] Avevo sperimentato, una volta per tutte, ciò che in seguito avrei chiamato una massa aperta; avevo visto come si era formata: moltissimi uomini erano confluiti da ogni parte della città in lunghi cortei che da nulla si lasciavano deviare o confondere, orientati dalla posizione dell’edificio che portava il nome della Giustizia, ma che a causa di quell’infame verdetto incarnava ai loro occhi l’ingiustizia in sé. Avevo visto che la massa non può non disgregarsi, che teme moltissimo la propria disgregazione e fa di tutto per evitarla; che essa si specchia nel fuoco che ha acceso e riesce a evitare la disgregazione solo finché quel fuoco continua a bruciare. La massa si oppone ad ogni tentativo di spegnere il fuoco, perché la sua vita dura quanto dura quel fuoco. La massa sopporta ogni assalto, si lascia mettere in fuga, dividere, ricacciare indietro; ma, benché i caduti, i morti e i feriti siano distesi per le strade, sotto gli occhi di tutti, e benché la massa sia priva di armi, essa si raduna di nuovo, perché il fuoco brucia ancora, e il suo riflesso illumina il cielo sopra le piazze e le strade.[2]
In seguito alla repressione venne proclamato uno sciopero generale, sabotato dalla socialdemocrazia e schiacciato con l’ausilio della violenza legale dello Stato e quella illegale delle milizie reazionarie. Proprio le Heimwehren ebbero in questa circostanza un’occasione di rapida crescita, diffondendosi anche nella regione di Vienna. Nel 1928 i membri di queste formazioni fasciste ammontavano a 150.000 organizzati, pari a sei volte gli effettivi dell’esercito austriaco, ma le stesse “democratiche” potenze dell’Intesa che avevano imposto all’Austria di conservare solo un esercito minuscolo, non avevano naturalmente niente da ridire sulla creazione di giganteschi corpi paramilitari preposti alla conservazione del sistema capitalistico.
Nel settembre del 1931 un tentativo di “Marcia su Vienna” da parte dell’Heimwehren fallì per via di contrasti interni alle stesse formazioni fasciste, mentre il governo “legale” era pronto ad aprire i cancelli del potere ai golpisti. La “Marcia su Vienna” si risolse in una farsa, a qualche arresto e ad un processo nel quale tutti i leader del putsch vennero assolti per “avere agito nell’interesse dello Stato e del paese”.
L’anno successivo il cristiano-sociale Dollfuss[3] fece entrare i rappresentati delle Heimwehren nel governo da lui presieduto e nel 1934 questi assunsero il controllo della pubblica sicurezza.
continua…
NOTE
[1] Karl Josef Seitz (Vienna, 4 settembre 1869 – Vienna, 3 febbraio 1950). Nel 1918 assunse la presidenza del Partito operaio socialdemocratico e, dopo la proclamazione della Repubblica, fu presidente dell’Assemblea Nazionale Provvisoria (ottobre 1918-febbraio 1919) e dell’Assemblea Costituente (1919-1920), fungendo da capo dello Stato fino all’elezione del primo presidente regolare. Eletto borgomastro di Vienna nel 1923, fu protagonista della stagione riformatrice socialdemocratica della città noto con il nome di Vienna rossa. Nel 1934 venne costretto alle dimissioni e incarcerato per ordine di Dollfuss in seguito alla fallita insurrezione operaia del 1934. Internato dai nazisti nel campo di prigionia di Mauthausen (1944-1945), dopo la liberazione fu membro del Nationalrat (Assemblea Nazionale, la Camera bassa del Parlamento) dal 1945 fino alla morte e presidente onorario del Partito socialdemocratico.
[2] Elias Canetti, Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931), Adelphi edizioni, Milano, 2007, pp. 249-256.
[3] Engelbert Dollfuss (Texing, 4 ottobre 1892 – Vienna, 25 luglio 1934). Esponente del partito cristiano-sociale, ministro dell’Agricoltura nel 1931-32, cancelliere federale e ministro degli Esteri dal 1932 alla morte (dal 1933 anche ministro della Difesa nazionale), nel 1933 sciolse il parlamento e proibì tutti i partiti politici, instaurando un regime dittatoriale (una nuova costituzione fu promulgata nel 1934). In politica estera si appoggiò soprattutto all’Italia, interessata a evitare che l’Austria, con il sopravvento delle correnti naziste, fosse indotta all’Anschluss con la Germania hitleriana. Il 25 luglio 1934 fu assassinato dai nazisti durante un fallito tentativo di colpo di stato.