LO SVILUPPO DELLA TEORIA MARXISTA DELL’IMPERIALISMO: FASE AVANZATA DELL’ACCUMULAZIONE CAPITALISTICA NEL MERCATO MONDIALE

Dalla postfazione all’antologia Bagliori nella notte. La Seconda guerra mondiale e gli internazionalisti del «Terzo Fronte», Movimento Reale, luglio 2023.


I

Ora, signori miei, fate attenzione. Il nostro pianeta non è infinito. Al mondo c’è un numero limitato di paesi. Cosa succederà quando ogni nazione del mondo, perfino la più piccola e insignificante, si troverà tra le mani il proprio surplus e cercherà di scaricarlo sugli altri, i quali non sanno che farsene del proprio? Jack London, Il tallone di ferro, 1908

Per essere in grado di assimilare appieno nel quadro teorico marxista il portato di esperienze storiche legate al secondo conflitto mondiale è necessario ritornare ai capisaldi della teoria marxista dell’imperialismo.

Con brevi e frammentari accenni – nei suoi studi sul Capitale, nelle Teorie sul plusvalore, nei Grundrisse e nei suoi scritti sulla colonizzazione britannica in India – Marx era stato in grado di abbozzare gli strumenti per la comprensione di quei fenomeni concreti la cui evoluzione si sarebbe manifestata pienamente soltanto con la successiva maturazione imperialistica del capitalismo. Ci riferiamo alle riflessioni riguardanti la necessità dell’espansione economica dei paesi più avanzati e la loro temporanea dominazione dei paesi meno sviluppati, nei quali il capitalismo avrebbe distrutto le precedenti forme di produzione sottomettendo al proprio carattere specifico e alle proprie leggi immanenti le condizioni della produzione; e a quelle riguardanti lo sfruttamento dei paesi con una bassa produttività del lavoro da parte dei loro concorrenti più attrezzati; in sostanza, ci riferiamo all’individuazione della legge dell’accumulazione capitalistica, a quella della formazione del saggio medio di profitto e allo studio del commercio mondiale.

Lenin, grazie agli strumenti metodologici forniti da Marx e sulla scorta delle sue anticipazioni, individua una concreta differenza, fra il capitalismo che era andato sviluppandosi fino alla fine del XIX secolo e il capitalismo dell’epoca successiva, nell’intensificarsi della concorrenza e nel formarsi del capitale monopolistico. Il fatto che questa differenza – che Lenin coglie senza tuttavia approfondire analiticamente – non esprima altro che il passaggio da una fase iniziale ad una fase avanzata dello stesso processo di accumulazione del capitale da parte dei primi paesi in cui si sono affermate ed imposte le forme di produzione capitalistiche, ovvero il naturale dispiegarsi – ineguale nel tempo e nello spazio – della legge marxiana dell’accumulazione[1], non sminuisce la capacità dell’elaborazione teorica leniniana di individuare la mutevole costanza della formazione economico-sociale capitalistica nonché di fissare nella sintesi teorica, per sua natura sempre approssimativa, quelle caratteristiche fondamentali della nuova fase sulle quali impostare una corretta strategia rivoluzionaria del movimento operaio.

È un dato di fatto incontrovertibile che la più feconda ed efficace analisi della natura di una guerra imperialista, necessaria per l’impostazione dei compiti strategici dei rivoluzionari comunisti nel suo dispiegarsi, sia stata sviluppata da Lenin nel corso della Prima guerra mondiale. Alcune correnti politiche che si richiamano al marxismo e che, persino per gran parte del proprio lessico politico, proprio su questo tema specifico vivono di una sorta di rendita grazie ad un debito non riconosciuto nei confronti del rivoluzionario marxista russo, hanno ritenuto, ritengono e continueranno a ritenere discutibile quello che resta un dato di fatto.

Troppo impegnate nel sottoporre a capziose radiografie testi come L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, per trovarvi passi falsi teorici, veri o presunti limiti di stampo hilferdinghiano o per negarne a volte persino il diritto di cittadinanza all’interno dell’elaborazione marxista, queste correnti sono solite contrapporgli le più “rigorose” formulazioni di studiosi marxisti (peraltro non prive a volte di spunti di un certo valore e interesse) che hanno avuto però il non trascurabile difetto di non essere state in grado di produrre esperienze di una qualche validità sul campo della battaglia politica rivoluzionaria di classe. Un “difetto” pagato a caro prezzo dal proletariato e che invece di essere vagliato criticamente con la stessa severità applicata all’elaborazione di Lenin – i cui “successi” sono tacitamente o esplicitamente attribuiti a felici “congiunzioni astrali” – si tenta ancora di aggirare, con un più o meno consapevole intento autoassolutorio, invocando la “responsabilità” di quelle che un Leopardi avrebbe chiamato circostanze oggettive “matrigne”.

Queste critiche hanno sempre rifiutato di comprendere il compito specifico che si ponevano testi come L’imperialismo: ovvero quello di essere strumenti di immediata battaglia politica, nel bel mezzo di una crisi catastrofica del capitalismo mondiale, per consentire al movimento operaio internazionale di trascinarsi fuori dal pantano dello sbandamento pressoché totale in cui lo avevano cacciato l’opportunismo e il socialsciovinismo con chiare ed inequivocabili indicazioni di lotta rivoluzionaria. L’opuscolo di Lenin su L’imperialismo non era e non pretendeva certamente di essere un trattato che ambisse all’esaustività scientifica. Per parafrasare Marx, il “saggio popolare” di Lenin non voleva essere «un coltello anatomico» ma un’arma[2]. Il suo oggetto, l’imperialismo, era il suo nemico, che non voleva confutare bensì annientare. Le debolezze di cui forse risente sono state del tutto secondarie rispetto al compito di delineare tempestivamente una chiara strategia rivoluzionaria per gli internazionalisti, una strategia che ha dimostrato la propria validità nel gettare le fondamenta di una nuova Internazionale e nel trasformare, su almeno un fronte, la guerra imperialista in guerra civile, costringendo le altre potenze imperialiste a concludere la guerra per non incorrere nello stesso, reale, concreto, imminente pericolo rivoluzionario.

La solidità del marxismo risiede nel riconoscere apertamente i limiti ma anche la validità di tutte le elaborazioni teoriche che dimostrino sostanzialmente di richiamarsi al suo metodo ed ai suoi princìpi, senza sottoporle ad una manicheistica beatificazione o scomunica e soprattutto senza manifestare, al livello precosciente, quel frenetico bisogno di mantenersi nell’alveo di ciò che in fondo la borghesia ritiene “presentabile” o “rispettabile”, secondo quelli che sono i suoi criteri, e che in conclusione non è altro che l’ennesima forma della subordinazione ideologica alla classe dominante. Non è un caso se certe espressioni di radicalismo puramente verbale, prive di qualsiasi fondamento scientifico marxista, nel definire Lenin un “rivoluzionario borghese” approdino all’identificazione della funzione sociale del partito di Lenin con quella della controrivoluzione staliniana, che identifichino bolscevismo e stalinismo. Un approdo accettabilissimo da tutto l’apparato ideologico del capitale, che nell’ultimo secolo ha fatto di questa identificazione uno dei suoi massimi strumenti di scollamento tra il proletariato e la sua coscienza teorica, al di qua e al di là dei confini del cosiddetto “socialismo reale”.

Nel tornare alla teoria marxista dell’imperialismo, è opportuno puntualizzare un aspetto fondamentale, spesso trascurato anche da teorici marxisti di rilievo, ovvero che essendo l’estorsione di plusvalore l’unico scopo della produzione capitalistica, per quest’ultima il plusvalore non può mai essere eccedente. Il fenomeno dell’imperialismo non nasce in effetti tanto da una difficoltà capitalistica nel realizzare il plusvalore o da un’eccedenza di plusvalore quanto, al contrario, dal fatto che, in prossimità di determinati livelli dell’accumulazione del capitale nelle aree capitalisticamente mature, il plusvalore tende a risultare insufficiente a riprodurre adeguatamente il processo di valorizzazione del capitale. La composizione organica del capitale raggiunge un livello tale che il capitale addizionale ottenuto con il plusvalore estorto alla forza lavoro in un ciclo precedente non è più in grado di estorcere una quantità soddisfacente di ulteriore plusvalore nel ciclo successivo. L’estensione della produzione, all’interno dello stesso ramo produttivo o della stessa area geografica, può certamente ottenere una massa di plusvalore pari o persino superiore in termini assoluti a quella del ciclo precedente, cionondimeno questa quantità risulta insufficiente relativamente alla dimensione raggiunta dal capitale. Questo fenomeno, che si esprime nella caduta tendenziale del saggio di profitto, è dovuto alla sovraccumulazione del capitale.

A questo punto, il capitale addizionale, per estorcere una quantità di plusvalore sufficiente a valorizzarlo, deve essere esportato, in altri settori, in altre aree geografiche nelle quali la composizione organica del capitale risulti meno elevata, oppure, può trovare la propria redditività al di fuori della sfera della produzione, ad esempio nella speculazione. L’esportazione di capitali e lo sviluppo del capitale fittizio hanno dunque una comune origine nel raggiungimento di determinati livelli da parte del processo di accumulazione.

Uno dei risultati dell’espansione del mercato mondiale, conseguenza di un’accumulazione capitalistica che si verifica storicamente nelle condizioni di uno sviluppo ineguale e combinato nelle diverse aree geografiche del pianeta, è l’inevitabile coesistenza al suo interno di differenti gradi di uno sviluppo economico dalla comune natura capitalistica, fenomeno che rende possibile, attraverso lo scambio ineguale, il drenaggio del plusvalore prodotto nelle aree meno sviluppate verso i paesi capitalisticamente maturi. Lo sfruttamento imperialistico, infatti, non si verifica soltanto nel rapporto tra paesi capitalisticamente maturi e aree precapitalistiche ma anche – e ormai potremmo dire essenzialmente – nel rapporto tra paesi capitalistici a differenti gradi di composizione organica del capitale. Semplificando al massimo, possiamo affermare che nei limiti in cui negli scambi internazionali si realizza la tendenza al livellamento dei saggi di profitto, le merci prodotte nei paesi ad alta composizione organica del capitale vengono vendute sulla base di prezzi di produzione che generalmente eccedono il loro valore, mentre le merci prodotte nei paesi a più bassa composizione organica del capitale vengono vendute, in condizioni di libera concorrenza, sulla base di prezzi di produzione in genere al di sotto del loro valore[3]. Producendosi in tal modo un trasferimento di plusvalore, il paese più sviluppato può sfruttarne uno economicamente meno sviluppato, ma quest’ultimo, sempre grazie al commercio estero, può a sua volta sfruttare altri paesi ancora meno sviluppati

Si tratta di una dinamica che dimostra quanto poco l’imperialismo come sistema abbia bisogno per sopravvivere di colonie precapitalistiche che rimangano tali affinché in essi si “realizzi” il plusvalore prodotto nei paesi colonizzatori, e che smentisce le verbose teorizzazioni sul “neocolonialismo”, le quali rifiutano di vedere nello sfruttamento imperialistico principalmente un rapporto tra gradi diversi di uno stesso sviluppo capitalistico.

Lo sviluppo capitalistico delle aree precapitalistiche è stato anche un prodotto dell’esportazione di merci e capitali in queste aree e, nel suo procedere, questo sviluppo ha rappresentato un aumento delle possibilità di esportazione di merci e capitali da parte dei paesi capitalisticamente maturi. Solo nella misura in cui perdevano il loro carattere precapitalistico, nella misura in cui si industrializzavano, le colonie assumevano un’importanza crescente come aree di sbocco, dal momento che la capacità di acquisto di merci e capitali cresceva insieme allo sviluppo capitalistico.

Il pieno sfruttamento imperialistico non solo non necessita di rapporti di dominazione coloniale, ma anzi, a lungo andare, trova in essi degli ostacoli. Ciò è stato dimostrato proprio da quei paesi che nell’ultimo secolo hanno spezzato più o meno violentemente i vincoli al loro pieno sviluppo capitalistico posti in essere dal dominio coloniale. La storia della decolonizzazione non ha rappresentato altro che il processo di rimozione degli ostacoli allo sviluppo di nuovi mercati capitalistici operata dalle emergenti borghesie nazionali delle aree coloniali. Questo processo assumeva connotati violenti, di rivoluzione nazionale democratico-borghese, laddove si scontrava con le resistenze di quelle frazioni borghesi e di quei settori del capitale delle potenze imperialiste i cui commerci risentivano della concorrenza della manifattura coloniale e la cui tenuta dipendeva dai bassi prezzi delle materie prime; con le resistenze della vasta pletora di burocrati e funzionari impiegati nella greppia dell’amministrazione coloniale, civile e militare, e con l’esigenza politico-militare delle potenze coloniali di mantenere il diretto controllo su determinate aree anche soltanto per sottrarle all’influenza di altri concorrenti imperialistici.

Tuttavia, lo stesso processo favoriva le frazioni e i settori del capitale maggiormente interessati all’allargamento della base mondiale per l’estrazione di nuovo plusvalore, dal momento che l’ulteriore industrializzazione dei paesi che, attraverso l’ottenimento di una più o meno formale indipendenza politica, si erano emancipati dall’immobilismo coloniale allargava enormemente le possibilità di esportazione di capitale nel mondo da parte dei paesi più sviluppati.

Si può legittimamente affermare che l’imperialismo capitalistico ha riempito di nuovo contenuto le vecchie forme di dominio coloniale finché questo stesso contenuto non ha spezzato quelle forme. In fondo è stato lo stesso processo imperialista ad aver abolito il colonialismo attraverso le rivoluzioni nazionali e anticoloniali.

L’allargamento del mercato mondiale, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, ha iniettato nel sistema gigantesche masse di plusvalore addizionale che hanno considerevolmente allungato la vita del capitalismo, mentre faceva emergere dalle aree arretrate nuove potenze imperialistiche. La temporanea “soluzione” delle contraddizioni derivanti dalle esigenze dell’accumulazione del capitale nei paesi capitalisticamente maturi ha creato a sua volta le premesse per nuove e più dirompenti contraddizioni a livello mondiale.

Come abbiamo visto, l’imperialismo è l’espressione storicamente giunta a maturazione della necessità del capitalismo di superare le difficoltà che, all’interno degli Stati in cui essa si è spinta più in avanti, l’accumulazione (con il suo portato di concentrazione) pone inevitabilmente alla valorizzazione del capitale, mediante un’affluenza di plusvalore addizionale proveniente dall’esterno. La concorrenza tra le frazioni del capitale mondiale nell’assicurarsi l’esclusività o quote di maggioranza nello sfruttamento di questi bacini di plusvalore addizionale è all’origine dell’influenza politica, indiretta o diretta, sulle aree di espansione economica esercitata dagli Stati dai quali i capitali concorrenti si fanno rappresentare.

Il raggiungimento, o piuttosto anche soltanto il pericoloso avvicinarsi del punto critico in cui il grado di estorsione di plusvalore non è più sufficiente a valorizzare il capitale delle principali potenze dell’imperialismo – in relazione alle dimensioni date dell’accumulazione e alle “quote” di spartizione del mercato mondiale determinate dai precedenti rapporti di forza – e l’insopprimibile necessità delle varie frazioni e settori del capitale mondiale di conservare o accrescere i propri pozzi di estrazione di plusvalore, si fanno strada attraverso tutti i livelli della formazione economico-sociale capitalistica, fino a quello delle sovrastrutture politico-statali, provocando violenti sommovimenti nell’instabile equilibrio tra gli Stati borghesi: le guerre imperialistiche generalizzate.

Sono almeno tre le acquisizioni di comprovata validità dell’elaborazione leniniana riguardo alle guerre dell’imperialismo: la prima è che la categoria di imperialismo non è un “diploma” da conferire a questo o quel paese che abbia superato a pieni voti un “esame di idoneità” nei tanto spesso menzionati cinque contrassegni, ma si riferisce complessivamente ad un’epoca del capitalismo, ad una sua fase ormai aperta. Ciò significa che oggi, nel pieno dispiegarsi di questa fase su tutta la superficie del pianeta, laddove c’è capitalismo c’è imperialismo. Altra questione è parlare di maturazione imperialista di un singolo paese, registrando nient’altro che l’ascesa al rango di potenza di questo singolo paese capitalistico nella fase imperialista. Il mercato capitalistico mondiale non può essere diviso concettualmente in compartimenti stagni, oggi meno che mai. Tutti i paesi, in quanto capitalisti, sono organicamente parte dell’imperialismo, anche se non sono potenze dell’imperialismo. La circostanza che alcuni paesi non siano potenze, nel generale contesto imperialistico, non diminuisce in nulla il carattere reazionario della loro natura capitalistica.

La seconda acquisizione, che discende dalla prima, è che la guerra tra potenze dell’imperialismo – o, ancora meglio, la guerra combattuta per gli interessi di potenze dell’imperialismo contrapposte, anche per il tramite di interposti Stati capitalisti dipendenti – è reazionaria su tutti i fronti, e, in quanto tale, va denunciata e combattuta dai socialisti rivoluzionari di tutti i paesi coinvolti a vario titolo.

Nella misura in cui la guerra mondiale distrugge e svalorizza ingenti quantità di capitale creando nuovi margini per un’ulteriore accumulazione, non costituisce in quanto tale una minaccia per il capitalismo ma rappresenta invece una valvola di sfogo che può consentirgli di “risanarsi”, di prolungare la propria esistenza complessiva, se – ed è questa la terza fondamentale acquisizione di Lenin –  non creasse anche le possibilità oggettive per il rivolgimento rivoluzionario del capitalismo da parte del suo becchino storico: il proletariato.

Le guerre interimperialistiche possono in effetti minare la solidità degli Stati borghesi belligeranti, aprendo un varco per la pressione rivoluzionaria di un proletariato spinto all’azione di classe dal catastrofico peggioramento delle proprie condizioni di esistenza.


NOTE

[1] «Si è visto che la crescente accumulazione del capitale implica una sua crescente concentrazione…» K. Marx, Il Capitale, Utet, Torino, versione digitalizzata, 2009, Libro III, Sez. terza, p. 1818.

[2] Cfr. K. Marx, Introduzione a “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel”, 1843.

[3] Il prezzo di costo della merce è costituito dai mezzi di produzione consumati più la forza lavoro impiegata (c + v), ai quali, per ottenere il valore della merce, si deve aggiungere il plusvalore (c + v + pv). Tuttavia, il prezzo di produzione è costituito dalla somma del prezzo di costo più il profitto medio, il quale, essendo il plusvalore una grandezza relativamente più piccola laddove la composizione organica del capitale (il rapporto tra capitale costante e capitale variabile a parità di saggio del plusvalore) è più alta, negli scambi internazionali affluirà maggiormente proprio laddove la composizione organica del capitale è maggiore. Per avere una visualizzazione grafica di quanto detto:

capitali con diversa composizione organica (dalla più bassa alla più alta)valore del prodottosaggio medio del profitto (somma dei pv / il numero dei capitali)prezzo (prezzo di costo + saggio di profitto medio)differenza
60c+40v+40pv =14022122-18
70c+30v+30pv =13022122-8
80c+20v+20pv=12022122+2
85c+15v+15pv =11522122+7
95c+5v+5pv =10522122+17

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