
Dalla postfazione all’antologia Bagliori nella notte. La Seconda guerra mondiale e gli internazionalisti del «Terzo Fronte», Movimento Reale, luglio 2023.
VIII
Proprio in quei dintorni avevamo perso un amico in circostanze analoghe: si era trasferito qui dalla città, dopo aver fatto cinque anni di Lager, credendo di essere più al sicuro. Ma era rimasto quello di prima: e, vedendo il suo principale maltrattare e sfruttare sempre più vergognosamente gli operai deportati dalla Russia, non aveva saputo tacere. Aveva detto quello che un uomo dabbene deve dire; e poco dopo era stato arrestato, perché il suo principale era l’Orstgruppenleiter del partito. Dagli interrogatori dei russi non risultò nulla. Né battiture né promesse ebbero alcuna efficacia. Da settimane ormai il nostro amico si trovava nella piccola prigione locale, finché venne l’ordine: consegna alla Gestapo. La notte precedente alla partenza egli scrisse una lettera d’addio, poi si tagliò le vene dei polsi. Da tutti i villaggi circostanti vennero gli uomini alle esequie: e mostrarono coraggio facendo così. Le domeniche, anche i giovani e le ragazze straniere deponevano fiori sulla sua tomba. Friedrich Schlotterbeck, Sangue e libertà in Germania, 1945
Il reclutamento forzato di manodopera straniera da inviare in Germania era ovviamente condizionato dall’andamento della guerra e dalle sue necessità economiche. Se nel primo periodo della guerra, vittorioso per il Terzo Reich, le deportazioni furono relativamente contenute, man mano che la guerra si protraeva ed allargava, l’industria bellica doveva necessariamente sopperire alle esigenze produttive cui non poteva far fronte il proletariato tedesco sotto le armi. L’economia tedesca si trasformò a tutti gli effetti in un’economia di guerra i cui costi furono scaricati soprattutto sulle spalle del proletariato dei paesi occupati.
Stando ai dati forniti da Elisabeth Behrens, se nell’ottobre 1940 gli operai stranieri impiegati nel lavoro coatto in Germania erano 1,15 milioni, nei primi mesi del 1941 erano già diventati 3,5 milioni, dei quali 1,5 prigionieri di guerra (1 milione di francesi, gli altri britannici, belgi e polacchi) resi disponibili dai campi di prigionia e 2 milioni di operai civili. Il reclutamento forzato era organizzato dai reparti dello stato maggiore dell’economia di guerra, dalle diramazioni estere del Ministero del lavoro tedesco e direttamente dalle Agenzie delle imprese tedesche. Dopo l’«operazione Barbarossa» si aggiunsero 1,2 milioni di lavoratori forzati, in prevalenza provenienti dall’URSS e sottoposti alla politica nazista dell’«annientamento mediante il lavoro».
Dal novembre 1941 l’imperialismo tedesco approntò una radicale ristratificazione del proletariato multinazionale in Germania. Mentre gli operai dell’Europa occidentale avevano sostituito gran parte degli operai tedeschi rimasti attivi nelle miniere, negli armamenti, nelle manutenzioni e in agricoltura, i polacchi e i russi vennero impiegati nei lavori più pesanti, sporchi e pericolosi.
Fra aprile e agosto 1942, altri 1,6 milioni di forzati furono deportati in Germania dall’URSS (facendo salire al 30% la percentuale dei lavoratori russi sul totale della manodopera straniera), ma anche dalla Francia, dal Belgio e dall’Olanda. Alla fine del 1942 gli operai stranieri in Germania, costretti a lavorare per il prolungamento della guerra e quindi della loro condizione di forzati, erano circa 6 milioni. Questo costante afflusso di manodopera permise al Reich di rinfoltire regolarmente le file della Wehrmacht. Nel 1943 altri 1,4 milioni di persone – prigionieri di guerra esclusi – furono deportate in Germania dalle SS, spesso spopolando intere aree con vere e proprie “cacce” all’uomo e alla donna.
Dal gennaio 1943, in seguito ai primi rovesci militari del nazismo, vennero mobilitate sul fronte della produzione bellica anche tutte le riserve di forza lavoro tedesca. Tutti gli uomini dai 16 ai 65 anni e le donne dai 17 ai 45 anni furono sottoposti a registrazione e all’obbligo di lavoro nelle industrie di rilevanza militare, procedendo ad una massiccia proletarizzazione di strati sociali fino a quel momento attivi nel commercio o in piccole aziende artigianali, considerate sacrificabili all’economia di guerra. Soltanto la metà dei registrati poté però essere effettivamente impiegata nell’industria bellica (circa 1,3 milioni di persone).
Dal 1943 iniziò anche l’impiego massiccio della manodopera proveniente dai campi di concentramento. La scala dell’inumanità della condizione operaia sotto il tallone di ferro nazista era suddivisa in 5 gradini: al di sotto degli operai tedeschi si trovava quello relativamente privilegiato degli “stranieri in generale”, scandinavi, anglo-sassoni, francesi, italiani; poi venivano i polacchi; seguivano più in basso gli operai dell’Europa orientale; si arrivava alla semischiavitù dei russi, per raggiungere, sul fondo, la condizione di materia prima sacrificabile rappresentata dagli ebrei, costretti a lavorare a ritmi disumani e al di sotto di qualsiasi minimo di sussistenza vitale, con conseguente e pianificata morte per fatica, fame, malattie, fino allo sterminio diretto nelle ultime fasi della guerra.
Nel 1944, su 35,9 milioni di occupati in Germania, ¼ dei posti di lavoro era occupato da lavoratori stranieri e ½ da donne.
Fino al 1942 gli operai tedeschi rimasti attivi nella produzione beneficiarono oggettivamente del feroce sfruttamento della classe operaia europea messo in atto dall’imperialismo tedesco e, in una certa misura, vi parteciparono con compiti di sorveglianza della produzione.
La rigidissima divisione razziale e la pianificata disparità di condizioni materiali tra le varie componenti del proletariato in Germania fu un formidabile strumento della borghesia tedesca per impedire l’unificazione di una classe operaia multinazionale nella lotta contro il nazismo.
Ogni contatto dei lavoratori stranieri con gli operai e in generale con la popolazione tedesca che non fosse quello gerarchicamente stabilito nei luoghi di lavoro era severamente vietato e punito in quella che aveva tutte le caratteristiche di una forma di apartheid.
Gran parte delle funzioni di sorveglianza erano affidate dal Terzo Reich a operai di recente e forzata proletarizzazione provenienti dagli strati intermedi, politicamente affidabili e dotati di pieni poteri nei confronti della manodopera straniera, mentre gli operai tedeschi meno giovani o “politicamente dubbi” venivano inviati al fronte sotto lo stretto controllo degli ufficiali e delle SS. I “sorveglianti” operai tedeschi erano a loro volta considerati responsabili del rendimento degli operai sotto il loro controllo, cosa che rendeva ancora più difficile il manifestarsi della solidarietà di classe. Nondimeno, anche in queste condizioni, oltre alle spinte rivendicative degli operai stranieri deportati, relativamente numerosi furono i tentativi di opposizione clandestina di piccoli nuclei di operai tedeschi nelle fabbriche del Reich durante la guerra. Alcuni di questi gruppi operai cercarono di convincere – e in alcuni casi vi riuscirono – gli altri operai tedeschi, tramite volantini e cartoline illegali, a solidarizzare con gli operai stranieri e a cercare di alleviarne le penose condizioni, ad esempio fornendo loro di nascosto generi di prima necessità, sigarette e abiti. Questi eroici tentativi furono rapidamente e brutalmente stroncati dal capillare apparato poliziesco nazista.
Gli operai stranieri, dal canto loro, si sforzarono da subito di organizzare clandestinamente una propria difesa di classe, perlopiù su base multinazionale, cercando contatti con gli operai tedeschi – indispensabili dal punto di vista pratico e logistico –, rivendicando maggiori razioni, protestando contro i ritmi di lavoro, sabotando la produzione e a volte persino reagendo violentemente ai soprusi dei corpi di sorveglianza. Nonostante la repressione, si verificarono anche degli scioperi. Nella seconda metà del 1941 furono arrestati mediamente 7.588 operai al mese per aver partecipato a delle astensioni dal lavoro, di questi arrestati il 25% erano tedeschi. Nel 1942 in Germania gli arrestati per aver preso parte a degli scioperi furono 21.521, dei quali il 17% erano tedeschi. Nel 1943 la maggior parte degli scioperanti era composta da operai italiani. Nella prima metà del 1944 in Germania avevano scioperato in tutto 193.024 operai stranieri e 12.945 tedeschi.
Nel 1944, frazioni della borghesia tedesca e cerchie militari, sempre più consapevoli della terribile portata delle conseguenze dell’inevitabile disfatta tedesca, provarono con un tentativo di colpo di Stato a “scaricare” il nazismo – che fino ad allora da tali ambienti era stato sostenuto senza suscitare alcuna incisiva o determinante ripulsa “morale” – per provare a trattare con le potenze Alleate una resa meno catastrofica. Per farlo tentarono di ritorcere contro il regime hitleriano l’ormai famoso piano “Valchiria”, che era stato appositamente studiato per reprimere un’eventuale insorgenza di classe all’interno del paese. Il fallimento del tentativo – che oggi viene presentato dalla pubblicistica storica borghese, dalla letteratura e dal cinema come un alto, eroico e soprattutto “nazionale” esempio di resistenza tedesca al nazismo, quando non si trattò d’altro che di uno scontro interno tra frazioni borghesi che avevano in comune la medesima ferocia antiproletaria – non portò solamente alla liquidazione dei congiurati e dei loro complici nell’esercito, ma soprattutto ad una vastissima e meticolosa ondata repressiva che distrusse pressoché tutti i nuclei clandestini rimasti di un’opposizione proletaria in Germania proprio alla vigilia della sua devastante sconfitta in guerra. Negli ultimi giorni del conflitto, solo piccoli gruppi armati di lavoratori stranieri e pochissimi operai tedeschi cercarono di combattere armi alla mano contro un regime che non cedeva un solo millimetro del suo feroce controllo interno[1], spesso con l’intento di conquistare quel minimo di spazio necessario per sviluppare organismi di classe autonomi in grado di rapportarsi non solamente in forma passiva nei confronti dell’occupazione Alleata.
NOTE
[1] «Iniziative di autoliberazione proletaria alla vigila stessa dell’entrata degli Alleati riuscirono solo in casi eccezionali, per esempio a Kiel». Cfr. P. Brandt, Dopo Hitler. Antinazismo e movimento operaio 1945-1946, Editori Riuniti, Roma, 1981, p. 120.
