Liam O’Flaherty – IL SOLDATO SCARICATO

The Discarded Soldier [1], pubblicato originariamente su The Daily Worker, Special Magazine Supplement, 27 giugno 1925. Traduzione di Rostrum (marzo 2025), pubblicata nel n. 123 di Prospettiva Marxista, maggio 2025.


Nelle sue Memorie di un rivoluzionario Victor Serge ricorda quali furono le motivazioni che lo spinsero, lo costrinsero quasi, a dedicare, dalla fine degli anni ’20, parte delle proprie capacità espressive non soltanto alla pubblicistica politica ma ad una letteratura che fosse in grado di restituire, con altri mezzi, le istanze più profonde dell’impegno rivoluzionario:

Io concepivo, io concepisco ancora lo scritto come bisogno di una giustificazione più solida, come un mezzo di esprimere per gli uomini ciò che i più vivono senza sapere esprimere, come un mezzo di comunione, come una testimonianza sulla vasta vita che fugge attraverso di noi e di cui dobbiamo tentare di fissare gli aspetti essenziali per coloro che verranno dopo di noi.

Per Serge la testimonianza degli «aspetti essenziali» della «vasta vita che fugge» non poteva trascurare l’elemento tragico della conflittualità, della lotta, dell’amara contraddizione di una società lacerata dalla divisione in classi e di come le sue storture si riflettano, dolorosamente contorte, nell’esistenza di individui che nei suoi romanzi assurgono a simboli sociali senza nulla perdere della loro autenticità.
«Esprimere ciò che i più vivono senza sapere esprimere» significava programmaticamente rifiutare però la pretesa di “universalità” arrogantemente attribuita alle problematiche materiali, morali, psichiche e sentimentali dell’individuo borghese, alle sue squallide, piccole miserie quotidiane, da quella speleologia ombelicale a cui si riduce gran parte della letteratura (e non solo la letteratura) contemporanea.
È all’esistenza di chi maggiormente subisce i gravami e le sozzure della società capitalistica, a quella di chi incarna la necessità del suo improrogabile sovvertimento, che per Serge lo scrittore deve mettere a disposizione la propria sensibilità.
È in tal senso che inauguriamo questa rubrica, dedicata ad una letteratura dichiaratamente “di classe”, con un breve racconto dello scrittore irlandese Liam O’Flaherty [2].
Se oggi, nella Russia impegnata nella guerra imperialista in Ucraina, il proletariato delle periferie della federazione, povero, socialmente ed etnicamente marginalizzato, viene spinto a darsi in pasto alla propria borghesia vendendosi come pietanza di guerra su di un ricco “menù à la carte” in cui ogni chilometro di avanzamento, ogni tank, ogni elicottero abbattuto ha il suo prezzo in rubli sonanti, e in cui persino la morte al fronte figura come dessert – con laute pensioni di reversibilità a famiglie che non hanno altro da vendere che i propri congiunti –, O’Flaherty ci ricorda quanto valgono le promesse della classe dominante e quale sia il destino di chi, masticato e sputato, sopravvive alle sue guerre.
Ma anche alle nostre per ora più pacifiche longitudini, in tempi in cui più di un intellettuale, di un artista e di uno scrittore si esibisce in bellicose “danze della pioggia” per cercare di acclimatare la nostra classe ai prossimi uragani imperialistici – dai cui scrosci sapranno agilmente mettersi al riparo – è utile rileggere le pagine di chi, da proletario, ha vissuto l’esperienza della trincea con il fango ed il sangue alla gola.
In tempi in cui “guerrieri” da Premio Strega rimproverano sussiegosamente ai giovani della classe operaia d’Europa (perché sono loro che sempre finiscono in quelle che Andreas Latzko chiamava “insalate d’uomini”, al massimo condite con il pinzimonio di qualche volontario borghese) di non aver più «niente al mondo» per cui valga «la pena di morire»[3] è buona profilassi rileggere le pagine di chi, soldato, ha compreso di essere stato mandato a morire per niente.
In tempi in cui da confortevoli salotti televisivi ci viene severamente ricordato che «la pace non è gratis»[4], è opportuno rileggere le pagine di chi invece ci ricorda chi è che paga sempre il conto della pace e della guerra, anche quando le leggi dell’accumulazione capitalistica impongono di convertire la valuta corrente del sudore nella “divisa” del sangue.
In tempi in cui filosofi da dopocena confondono le proprie sonnolenze postprandiali con l’“intorpidimento” generato dalla “pace”[5], è rinfrancante rileggere le pagine di chi ha rifiutato la brodaglia della pace sociale, l’unica di cui vanno ghiotti i pifferai borghesi, preferendo il cordiale della guerra di classe, l’unica che resta sempre loro sullo stomaco.

Liam O’Flaherty

Il Soldato Scaricato si era trascinato nella sua soffitta per morire. Giaceva sul suo letto sbrindellato. Aveva acceso la candela accanto a sé affinché gli illuminasse l’eternità. La sua testa che spuntava dalle lenzuola era un ritratto di morte. Il volto era pallido e smunto e macilento, come il volto di un uomo che annega, sprofondando in un fiume scuro al chiaro di luna. La luce della sua candela era la sua luna che bruciava ondeggiando.
Il Soldato Scaricato si avvinse strettamente cercando di trovare un po’ di calore. Le sue mani magre vagavano sui vestiti, stringendoli attorno al suo corpo in cerca di protezione dagli spifferi gelidi. Le vene sulle mani spiccavano come serpenti blu, strisciando fuori dalla carne. La morte era nei suoi occhi. Erano macchie blu pallido, con bordi rossi, affondate in profonde cavità. Erano semichiusi dalla spossatezza.
Le mani caddero esauste sulle vesti.
Povero Soldato Scaricato. Povera inutile carne da cannone. Povero strumento rottamato del capitalismo. Ma qualche anno prima era un giovane forte con occhi luminosi e un corpo liscio ed elegante, perfetto in ogni sua parte e poi… I sergenti reclutatori vennero e guardarono il suo corpo e lo vollero a combattere la guerra per il capitalismo. Lo portarono via dalla libertà della sua solitaria casa sul mare. Lo ammassarono con altri in un battaglione. Fu spedito tra mostruosi cannoni, che sputavano morte. Fu fatto marciare attraverso campi intrisi di sangue fino alle trincee, dove gli uomini giacevano rannicchiati in buche, vegliando tutta la notte in attesa della morte.
Era acclamato e coccolato dalle belle signore. Lo chiamavano eroe. Cantavano per lui. Lo festeggiavano. Degli uomini grassi gli appuntavano medaglie sul petto, per il suo valore, dicevano.
Poi di nuovo venne scagliato contro nemici sconosciuti, spinto da dietro, maledetto, spronato, picchiato, imprigionato quando si lamentava, rimandato ad uccidere, tra il rombo dei cannoni e il fango delle trincee.
Poi alla fine venne colpito da una granata che lo scagliò in aria, tra proiettili roventi e una pioggia di terra e fumo. Fu ridotto ad un ammasso farfugliante di carne in poltiglia. Non era più un eroe. Era un relitto. Il capitalismo non lo voleva. Le signore non lo acclamavano più. Gli portarono dei fiori in ospedale per qualche mese e poi se ne dimenticarono. I nastri sbiadirono sul suo petto. Fu gettato nella grande città, senza una casa, indesiderato, senza un centesimo.
Il capitalismo non aveva più bisogno di lui. Il capitalismo lo dimenticò. Il capitalismo lo imprigionò quando chiese del cibo. I servi del capitalismo lo picchiarono con le mazze, quando chiese del pane. Lo chiamarono bolscevico, una minaccia pubblica, un flagello della società. Minacciarono di gettarlo in un manicomio.
Così strisciò nella soffitta per morire, sognando la sua casa sul mare – sognando la libertà della sua giovinezza e il sole caldo.
Non c’era nemmeno del romanticismo nella sua morte oscena. Non pensava al romanticismo. Pensava alla sua casa e alla luce del sole. La fame che gli rodeva le viscere lo rendeva più debole. Gli offuscava la vista e trasformava i rumori che riecheggiavano nelle sue orecchie. Venne trasportato dalla sua soffitta alla sua casa sul mare.
I rumori lontani del traffico cittadino gli sembravano il rumore delle onde che di notte si infrangono contro una costa rocciosa. Il ricordo portò un sorriso sulle sue labbra. Cominciò a delirare. Poteva vedere l’alba che stava sorgendo nella sua casa. Poteva vedere le onde – ora dolci e allegre – che si infrangevano placide sulle spiagge sabbiose in un timoroso sussurro.
Poi il sole che sorgeva ad est, sopra le colline, scintillando sulle balze coperte di rugiada. Il sole. Il bellissimo sole caldo. L’uomo morente gettò via i vestiti. Voleva mostrare il suo petto al sole. Allungò le membra con un sospiro di gratitudine. Voleva mostrare ogni muscolo al calore rigenerante.
Poi ascoltò. Ah. Eccolo. Il canto dell’allodola mentre l’uccello si librava tra le nuvole soffici, intonando il suo canto mattutino di gioia. Sentì il profumo dei fiori selvatici che crescevano in riva al mare. Vide le alghe scintillanti sulle rocce, scoperte dalla marea che si ritirava. Sentì il profumo della brezza marina salata che spazzava l’oceano.
Ah! Presto si sarebbe rimesso, ora che era tornato a casa. Presto avrebbe potuto correre, saltare e gridare come un tempo. Niente più fame. Niente più vagare per strade sporche e brutte. Niente più odori fetidi nei bassifondi. Niente più guerra, niente più fragore di cannoni, niente più uccisioni. Gioia. Essere di nuovo al sole – il grande sole glorioso che lo riscaldava.
Ma, ah! Il sole era troppo caldo. L’uomo morente si leccò le labbra secche con la lingua. La secchezza della morte era nella sua gola. La sua lingua ne era impregnata. Le sue vene erano ora in fiamme. La febbre della morte era su di lui – lo stava divorando e lui pensava che fosse il sole. Il suo cervello ebbe un capogiro. Poi sorrise di nuovo. La sua testa si girò di lato sul cuscino.
Le sue labbra si distesero in un sorriso.
Vide sé stesso avvicinarsi ad una sorgente di montagna, sotto una rupe torreggiante che lo riparava dal caldo opprimente del sole. Ora voleva frescura ed acqua. Eccola lì davanti a lui – l’acqua che scorreva dalla base della rupe, gorgogliando come il vino da una bottiglia. Si inginocchiò sul poggio erboso accanto alla sorgente. Si chinò finché la sua testa non fu tra il crescione d’acqua. Il ruscello era sulle sue labbra e lo soffocava.
Poi, mentre l’acqua gli lambiva le labbra, tese le membra per godersi la squisita bevanda e… Il suo spirito svanì nella notte eterna. Il Soldato Scaricato era morto


NOTE

[1] La traduzione letterale del termine inglese discarded (scartato) è stata con ogni probabilità impiegata dall’autore per l’assonanza con la parola discharged (congedato, smobilitato). Non potendo rendere in italiano il gioco di parole ed essendo l’italiano “scartato” riconducibile al concetto di “riformato”, ovvero non ammesso alla leva, il traduttore ha optato per il termine scaricato, che restituisce maggiormente l’intento dell’autore.

[2] Liam O’Flaherty (28 agosto 1896 – 7 settembre 1984) è stato uno scrittore di romanzi e racconti irlandese. Nato a Inishmore (Inis Mór), la più grande delle isole Aran, in una povera famiglia di contadini, era l’ottavo di quattordici fratelli, tre dei quali non sopravvissero all’infanzia. All’età di dodici anni, iniziò gli studi per diventare sacerdote, che abbandonò però a causa delle sue idee anticlericali e agnostiche. Dopo aver studiato per un breve periodo lettere classiche all’University College di Dublino, nel 1916 si arruolò nella Irish Guards e combatté in Francia nella Prima guerra mondiale. Nel settembre 1917 venne gravemente ferito in battaglia nelle Fiandre occidentali e fu smobilitato otto mesi dopo. Alla fine della guerra, lavorò come marinaio in Sud America, Grecia, Turchia e Nord America. Nel 1919 si unì al fratello Tom negli Stati Uniti ed entrò negli Industrial Workers of the World (IWW) e nel Partito Comunista d’America. Al suo ritorno in Irlanda, nel 1921, si unì alle file dell’Irish Citizen Army e fu tra i fondatori del Partito comunista d’Irlanda nell’ottobre dello stesso anno. Nel gennaio 1922 fu a capo di un’organizzazione di lavoratori disoccupati che occupò per protesta la Rotunda Concert Hall di Dublino. Allo scoppio della guerra civile, fu brevemente coinvolto, insieme a tutti i militanti del CPI, con la fazione dell’IRA contraria al Trattato con l’Inghilterra. Costretto a fuggire a Londra, iniziò a dedicarsi alla carriera letteraria, nel corso della quale produsse opere come The Informer (Il traditore, 1925), Return of the brute (Il ritorno del bruto, 1929, romanzo antimilitarista sulle sue esperienze al fronte), Famine (Fame, 1937, romanzo incentrato sulla carestia irlandese del 1847) e varie raccolte di racconti. Abbandonò definitivamente il suo impegno politico comunista nel 1930, dopo un suo viaggio in URSS, mentre il fratello Tom continuò la propria militanza rivoluzionaria nelle file dell’opposizione trotskista negli USA. Il racconto Il Soldato Scaricato, che qui presentiamo nella sua prima traduzione italiana, venne pubblicato su The Daily Worker nel 1925, con una presentazione di Tom O’Flaherty, e non venne mai inserito in nessuna raccolta posteriore dell’autore.

[3] A. Scurati, Dove sono ormai i guerrieri d’Europa?, La Repubblica, 4 marzo 2025.

[4] M. Sattanino nel corso della trasmissione Otto e mezzo (La7), 4 aprile 2025.

[5] U. Galimberti nel corso della trasmissione La torre di Babele (La7), 10 marzo 2025.

Lascia un commento