Ritratto semiserio dei residui di una generazione che vorrebbero dare lezioni su ciò che non hanno imparato
Nei decenni il lungo riflusso della marea della lotta di classe ha lasciato in secca sulla battigia politica paguri troppo pesanti ed inutilizzabili per essere trascinati nel mare inquinato del conformismo sociale, della riconciliazione con il sistema, dell’apostasia carrierista. I paguri si sono guardati attorno, hanno visto il vuoto, hanno creduto e credono ancora di aver “resistito” e di meritare un credito eterno e insindacabile per l’“anzianità” maturata sull’arenile.
Ma c’è paguro e paguro. Ci sono quelli che, nel bene o nel male – ma soprattutto nel male – hanno continuato ad agitare le zampette nell’impegno militante, rovesciando sul presente tutto il drammatico bagaglio di incomprensioni e di opportunismo che hanno accumulato nelle loro vecchie conchiglie, e quelli che hanno preferito e preferiscono emettere nenie monocordi che, deformate e amplificate dalle calde profondità del guscio in cui si sono più o meno comodamente rintanati, vorrebbero suonare come indicazioni, imperativi, lezioni, condanne…
Da questo punto di vista i social media hanno rappresentato un’innegabile e probabilmente irreversibile cesura nel dare visibilità a molti di questi elementi, regalando loro una vasta tribuna che consente di evitare tutti gli inconvenienti e le salutari inibizioni del vecchio tavolino del bar, delle sane chiacchiere tra amici che possono guardarti negli occhi mentre gigioneggi, ma anche contraddirti, sbugiardarti ed eventualmente mandarti a cercare lumache o prenderti a sberle se oltrepassi la misura.
L’identikit di questi soggetti, che a volte si definiscono “marxisti”, a volte rifiutano ogni limitante “etichetta”, a volte fanno l’una e l’altra cosa, è presto tratteggiato. In genere ritengono di dover dire la loro su qualsiasi cosa l’agenda mediatica della classe dominante segni all’ordine del giorno e non formulano mai le loro affermazioni in via ipotetica, con cautela o prudenza. Le loro verità, uniche, originali, spiazzanti, sono di per sé evidenti, e si è liberi di accettarle o rifiutarle ma non di discuterle.
Spesso raccolgono un nutrito numero di “followers”, in tutto e per tutto dei seguaci, incoraggiati dalla distanza virtuale a considerare verbo incarnato l’entità incorporea che venerano, in adorante aspettazione dei suoi quotidiani “post” come di sermoni domenicali, con il vantaggio di sentirsi l’anima purificata senza essersi nemmeno incomodati ad alzare le terga per recarsi in chiesa. Inevitabilmente, il coro di “commenti” in cui si intonano ex voto per la “chiarezza” e la “puntualità” delle riflessioni elargite; le lodi arricchite di abbondanti “ineccepibile”, “definitivo”, “quanta verità” e corredate di pollicini, cuoricini, abbraccini; le suppliche di “scrivere ancora”, di dispensare nuovi infallibili giudizi, magari su un tema a richiesta, non possono che alterare il senso delle proprie proporzioni in chi ne è fatto oggetto. L’ebbrezza prende il sopravvento, al punto che a volte i profeti, che tengono molto a far sapere che avrebbero di meglio da fare che diffondere la Verità e che se lo fanno è solo per accontentare le preci dei discepoli, cedono alla tentazione di trattare i “fedeli” bruscamente, con aspra severità, con insofferenza e sussiego. Ma i veri credenti, di fronte alla grandezza del profeta di turno, non possono far altro che chinare il capo e riconoscere la giustezza delle reprimende, chiedendosi, dopo ogni commento in calce alle tavole eterne esposte in “bacheca”: avrò commentato con la dovuta riverenza? il Profeta se ne avrà a male? mi castigherà per la mia insolenza? avrò chiarito abbastanza quanto lo stimo e lo venero? approverà almeno un poco quel che dico anch’io? C’è da dire poi che i profeti si riconoscono fra loro e si lisciano stucchevolmente il pelo a vicenda, come nelle conventicole accademiche che fanno tanta mostra di disprezzare.
I contenuti dei sermoni? Variazioni su una manciata di temi ricorrenti, ribaditi con sospetta insistenza: il “che fare”, il “qui ed ora”, il “movimento reale”, le “masse” che sanno sempre ciò che va fatto, e che se non lo sanno ancora lo sapranno di certo nel magico giorno dell’epifania che immancabilmente arriverà, la classe che non ha bisogno di “educatori”, di inutili “intellettuali”, di superati “partiti”, di pericolosissimi “quadri”… il tutto corredato dal trito, stantio, consunto campionario retorico dell’“uscire dalle biblioteche” o dalle soffitte”, di abbandonare il “sapere libresco” per farsi finalmente un giro nella “realtà”, dello “sporcarsi le mani nel fango” della “contraddizione reale”, proferito da elementi che nove volte su dieci quelle stesse mani se le sono sporcate, poco e male, nella notte dei tempi e che da allora non le hanno più lavate al solo scopo di esibirle alla prima occasione, mettendosi nel frattempo i guanti per compulsare senza macchiarli quei libri che hanno letto come e più di altri ma agli insegnamenti dei quali le loro supreme e non convenzionali intelligenze non possono certo sentirsi vincolate… soprattutto quando contraddicono le loro encicliche.
«Tutti i cretesi sono bugiardi» disse un cretese, e per gli Epimenide 2.0 di oggi, ma in sedicesimo, tutti gli “intellettuali”, tutti i “filosofi” che interpretano il mondo mentre si tratta di cambiarlo, sono sempre gli altri. Tutti quelli che hanno il tempo di approfondire e di comprendere, mentre le masse sono attanagliate e spinte all’azione dalle condizioni materiali, sono sempre gli altri. E se loro hanno tutto il tempo di tappezzare la rete con le proprie “riflessioni” è perché se lo sono meritato, dopo una vita di “tremende” fatiche ed aspre pugne di cui gli altri non possono conoscere l’eguale. In fondo, ciò che traspare dal trattamento che questi profeti riservano pubblicamente allo studio, all’approfondimento, alla consapevolezza, rivela che per essi si tratta sempre di un lusso, mai di un impegno, di un sacrificio, di una conquista. Una concezione dello studio e della “teoria” desolantemente piccolo-borghese, si è tentati di dire persino bottegaia… Un anti-intellentualismo funzionale al volgare espediente di cercare di “blindare” le proprie misere elucubrazioni di intellettuali scadenti, perché, se almeno fossero intellettuali di spessore (ne esistono ancora?) sottoporrebbero le proprie sparate a critica o a verifica… ma i profeti consustanziali al “movimento reale”, i “mahdi” che hanno un rapporto privilegiato, quasi intimo, con la “pratica delle masse”, non sono giudicabili. Essi sono, falsa modestia a parte, non soltanto il sale, ma anche il pepe, l’olio e il prezzemolo della terra.
I profeti “non danno lezioni”, ma al tempo stesso non sbagliano mai; sono anti-individualisti ma non si rintraccerà mai sulle loro bacheche social la benché minima ammissione di un errore, di un fraintendimento, di una leggerezza. Quando la realtà prende a cannonate da ogni direzione le loro inconfutabili “analisi”, saltellano con estrema disinvoltura da una palla di cannone all’altra, come novelli Münchausen, passando senza mai toccar terra ad un nuovo pulpito. E da qui, si ricompongono immediatamente nella consueta posa profetica, come nulla fosse, snocciolando l’inappellabile sentenza di turno… con gli stessi toni, con la stessa arroganza.
Le frasi tranchant, le parole “forti”, «le parolacce che si lasciano scappare» del tipo “alzare il culo”, i loro flaccidi anatemi rivolti contro i “saccenti” che “fanno le pulci” al movimento reale, “inetti” a ricoprire quel ruolo di direzione politica della classe che spetta solo ai profeti (che lo ammettano o meno), servono esclusivamente a «condire i loro discorsi d’autore». Discorsi che si chiudono frequentemente con l’informazione che “le masse se ne fottono” delle teorie dei “maestri” e che neanche a loro “interessano” le diatribe “teoretiche”, operando una nemmeno troppo sottile identificazione tra le masse e il profeta di turno, e presumendo che quanto interessa loro o meno, quanto piace loro o meno, abbia un qualsiasi valore argomentativo.
Sempre pronti ad invocare l’“unità” delle forze rivoluzionarie, la concepiscono esclusivamente – e in maniera abbastanza sconcertante, considerato il loro spessore medio – come unità sotto la loro “guida spirituale”. Cianciano continuamente a proposito della stupidità di “coltivare ognuno il proprio orticello” perché vorrebbero che tutti coltivassero il loro.
In un contesto di prolungata e drammatica debolezza del movimento operaio internazionale, invece di afferrarsi saldamente all’unico anello che rimane ai rivoluzionari e che può consentire al proletariato di risalire la china quando le tanto ritualmente evocate “circostanze materiali” lo costringeranno a mettersi in moto, vorrebbero rinculare anche dal punto di vista della chiarezza teorica, portandola se possibile ad un livello inferiore al già bassissimo grado di consapevolezza esistente nella classe. Spacciano come legittima insofferenza verso chi si intestardisce a “spaccare in quattro il capello” la loro resa all’esistente e il loro vizio irrefrenabile di lanciare a tutti i costi e urbi et orbi “parole d’ordine immediate” che non possono far altro che cadere tragicomicamente nel vuoto cosmico. Presso questi guru, il bernsteiniano bubbone de “il movimento è tutto” si è aggravato nel: “qualsiasi cosa io stabilisca sia il movimento, è il movimento” – anche qualora questo “movimento” duri immancabilmente lo spazio di un mattino senza lasciare alcuna traccia dietro di sé – e chi non riconosce questa verità ignora le esigenze della classe, mentre i profeti… marciano – rigorosamente in coda – nel fango dell’interclassismo, comminando inappellabili sentenze di morte politica nei confronti di chi non intende seguirli sulla loro strada; e va da sé che se non si “fa” ciò che vogliono loro, non si “fa”… e basta. Pretendono di impartire indicazioni per l’azione “qui ed ora”, ma sempre e rigorosamente per l’azione altrui. Sono sempre troppo vecchi, troppo lontani, troppo impegnati, troppo sfiduciati, troppo delusi, troppo scaltri, troppo “liberi”, troppo di tutto per impegnarsi in un lavoro collettivo, ma mai troppo di alcunché per non rimanere in rispettoso silenzio di fronte all’impegno altrui. Sta tutta qui la differenza tra coloro che “parlano” di dover fare, e quelli che non parlano di ciò che non possono fare ma fanno ciò di cui parlano.
Appena scatta il minuto successivo a quello in cui hanno affermato qualcosa di condivisibile, persino di molto condivisibile – ma che spesso è una banale rimasticatura tonitruante di quanto altri hanno già detto prima e meglio –, ci si rende immediatamente conto che la loro lancetta è rimasta immobile e che tornerà a segnare l’ora giusta solo dopo un altro giro. Fondamentalmente timidi, i social-profeti o profeti social preferiscono non affrontare di petto i bersagli grossi, gli opportunisti, i socialimperialisti, i terzomondisti, gli stalinisti, chiamandoli per nome e cognome politico, soprattutto se questi avversari hanno una certa dimensione organizzativa, un certo seguito, una certa allure nel mondo della “sinistra”, e se lo fanno è solo in ritardo e dopo sollecitazione esterna.
Intellettualmente non proprio onestissimi, tendono però a svilire quelli che considerano rivali “del loro stesso campo” attribuendogli concezioni o intenzioni costruite a misura della loro “critica spietata” e a far passare per “insulto” ogni critica impersonale rivolta alle loro concezioni, onde chiamare a raccolta la cieca e unilaterale solidarietà dei fedeli o dei colleghi in profetismo.
Ci pare già di sentirle, le grida indignate, o perlomeno di contare i punti esclamativi a raffica dopo la domanda: «Ma chi vi credete di essere?» lanciata da chi non ha ancora spiegato al mondo chi egli stesso sia e l’ipocrita sdegno di tutto un ambiente che è sempre pronto a darle a chiunque senza pietà, ma che quando le prende riscopre i valori della critica fraterna, del reciproco rispetto fra compagni, della benevolenza…
Se dopo oltre un secolo dalla sua ultima parziale vittoria il movimento rivoluzionario versa nelle condizioni attuali è anche merito dei barbuti profeti di oggi, gli stessi giovani movimentisti di ieri che da 50 anni continuano imperterriti a raccontare la favola del “qui ed ora” lanciando accuse di “attendismo” contro chi rivendica l’importanza inaggirabile della formazione teorica nel confronto con la dinamica capitalistica e in collegamento con il livello reale della lotta di classe. I risultati sono purtroppo sotto gli occhi di tutti. Al punto che viene da chiedersi se l’esortazione al “qui e ora” non sia di fatto funzionale a posporre al giorno del mai la formazione della coscienza organizzata della classe, mentre “qui e ora” si produce il nulla. Perché è esattamente il nulla ciò che il loro vano arrabattarsi ha prodotto in decenni di schiamazzi e declamazioni. Nulla è ciò che sono riusciti a trasmettere alle generazioni venute dopo di loro, se non un presuntuoso sconfittismo e una discutibile rendita da combattenti e reduci, eppure hanno la faccia tosta, la protervia di riproporre il loro personalissimo “ricettario” che li ha condotti esattamente là dove sono ora: nel nulla. Peggio, nel nulla virtuale. E quando qualcuno, scosso, tormentato, incalzato dalle contraddizioni e dalle infamie di questa società preferisce studiare, soppesare, analizzare esperienze che hanno almeno prodotto storicamente qualche risultato, i profeti social si riducono a svilirle come il prodotto di circostanze del tutto casuali e irripetibili… Lenin? Ha avuto fortuna, ma se non ci fosse stata la guerra mondiale sarebbe rimasto un giornalista sovversivo dell’estrema provincia del mondo… Ma è un caso che Lenin abbia colto la natura della guerra imperialistica? Che abbia trasformato questa consapevolezza teorica in una tattica ed in un’azione che è stata in grado di trasformare quella guerra in rivoluzione? Le presunte “masse disordinate” – esaltate dai compiaciuti e alquanto ridicoli annunziatori delle apocalittiche rivolte dei “sanculotti”, delle “plebi istintive”, delle “orde primigenie”, delle “torme barbariche”, della “teppa ribelle” –, i battaglioni di operai e soldati che danno l’assalto al palazzo di Inverno si sono riuniti, armati e mossi spontaneamente oppure sotto la direzione di quadri politici formatisi in anni e anni di militanza rigorosa fatta anche di studio e di costante confronto con il divenire storico reale; quadri politici in grado di essere riconosciuti dalle masse “caotiche” proprio in virtù della coerenza politica rivoluzionaria raggiunta in questa militanza? “Se i bolscevichi non avessero vinto…”, sentenziano i profeti. Ma i bolscevichi non hanno vinto per caso. Hanno vinto anche perché si sono fatti carico di montagne di analisi, di battaglie ideologiche, di lotte intestine… Questo è il “fango” da spalare. Chi se la sente lo sta già facendo, qui ed ora. Gli altri abbiano almeno la decenza di non mettersi tra i piedi dai loro minareti di cartone verniciato.
Quando Marx afferma che per la produzione della «coscienza comunista», «è necessaria una trasformazione in massa degli uomini che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in una “rivoluzione”» non si riferisce alla coscienza in quanto tale ma alla produzione in massa di tale coscienza. E la produzione in massa della coscienza non è meccanica, necessita della presenza di una preesistente coscienza organizzata oltre che del “movimento pratico”, è il prodotto dell’interazione tra due elementi, non una mistica e spontanea partenogenesi. È singolare che ci sia chi, proprio in nome del marxismo, neghi il ruolo del marxismo come teoria per l’azione politica relegandolo implicitamente alla funzione di mera registrazione storiografica delle rivoluzioni passate.
La prassi della lotta non fa emergere un bel nulla di rivoluzionario dalla classe se questa lotta non incontra la teoria rivoluzionaria. E la teoria deve organizzarsi per realizzare questo incontro. Sempre, laddove la nostra classe ha tentato l’assalto al cielo, era presente seppur necessariamente minoritaria una coscienza più o meno organizzata, l’operaio politicizzato, l’operaio teorico o il teorico operaio, della classe operaia, in quanto e nella misura in cui faceva propri gli interessi immediati e storici del proletariato. Nella Comune di Parigi, nel 1905, nel 1917 russi, ecc. Ed è il grado di sviluppo di questa teoria, la sua capacità di trasformarsi in azione organizzata, di fungere da levatrice alla produzione in massa della coscienza comunista nelle doglie del parto della crisi rivoluzionaria a fare la differenza e a impedire che il travaglio finisca negli aborti a cui abbiamo assistito da un secolo a questa parte e che qualcuno pretende diventino scuola di ostetricia per la nostra classe. Chi non è in grado di cogliere dialetticamente l’essere come divenire ma solo come permanenza non può concepire il partito come prodotto di un processo di cui il piano è parte integrante. Le diatribe sul partito piano e sul partito processo non riflettono, al dunque, nient’altro che due unilateralità. La crisi rivoluzionaria non crea dal nulla il partito più di quanto il partito crei la crisi rivoluzionaria. I due elementi interagiscono condizionandosi a vicenda. Ma questa interazione può condurre a risultati diversi, mai scontati. O la consapevolezza teorica è un fattore del processo oppure non serve a niente, se non a scrivere post “brillanti” su qualche social.
Postulando implicitamente l’inutilità del partito, e dunque della teoria stessa, i sacerdoti di questi articoli di fede, figli della stanchezza e del riflusso, mentre esaltano la spontaneità si guardano bene però dal lasciarla coerentemente a sé stessa. Al contrario, intervengono – quando non hanno di meglio da fare, s’intende – per esportare dall’esterno della lotta di classe il mito della spontaneità che basta a sé stessa. Una coscienza falsa e dannosa portata dall’esterno.
Beh, abbiamo una notizia per i social-profeti: la coscienza comunista, la teoria rivoluzionaria, esiste da più di un secolo e mezzo, non deve essere prodotta ex novo, deve però essere compresa, impugnata, affilata, per conquistare le masse quando sarà oggettivamente possibile. E il processo non è qualcosa che si realizzi da sé oppure on demand, dal momento che esiste una cosa chiamata ideologia dominante della classe dominante. Ergo, ci si può dare da fare, si può tacere lasciando fare chi vuole dedicarsi a questo compito, oppure si è il problema.
La classe ha bisogno di operai coscienti come Bebel, come Dietzgen, come Lavagnini, come Repossi. Elementi di classe che si educano mentre educano la classe. E se la parola “educare” urta qualcuno, ce ne faremo serenamente una ragione.
Sarebbe ora di finirla con i sapienti neghittosi con in mano lo staffile della finta umiltà, con i paternalisti mascherati e con i cultori del mito del “buon selvaggio” operaio travestiti da materialisti. Sarebbe ora di finirla con gli inquisitori sotto mentite spoglie di teologi della rivoluzione per meglio impedire che altri possano educarsi a quelle “scritture” che in fondo ritengono loro esclusivo appannaggio, e che non vogliono veder “citate” quando minano il monopolio della loro “interpretazione”.
Possono continuare tranquillamente a fare i liberi battitori sui social quando hanno la serata libera da altri impegni o svaghi, ma la classe che domani dovrà mettersi in moto avrà bisogno di militanti e quadri rivoluzionari che avranno fatto di meglio che negare il proprio ruolo per autoassolversi dal non avere avuto sufficiente volontà e midollo per svolgerlo.
Ma perché spendere tante parole per fare i conti con simili fenomeni?
Perché è più che naturale che in una lunga fase di ristagno della lotta di classe le scarne minoranze che si dedicano con impegno e serietà alla militanza rivoluzionaria cerchino interlocutori o persino “avversari” con cui misurarsi e confrontarsi teoricamente. Il rischio, tuttavia, è quello di sovrastimare elementi che non hanno operato il salto dialettico dal nulla al qualcosa, soggetti che un tempo non avrebbero avuto la possibilità di far oltrepassare alle proprie opinioni la ristretta cerchia delle loro conoscenze personali e che oggi appaiono sovradimensionati nel loro protagonismo social-mediatico.
Perché ci rivolgiamo a coloro che vengono trascinati loro malgrado in interminabili e malsane diatribe su tribune inutili e squalificanti nelle quali uno vale uno; nelle quali chi non si è mai sforzato di costruire alcunché si sente in diritto di confrontarsi e interloquire con chi si impegna quotidianamente e dà concretezza al proprio impegno; nelle quali è prassi consolidata non leggere attentamente ciò che scrive l’interlocutore ma cercare con una breve occhiata gli eventuali appigli per inveire scompostamente contro ciò che si è già rifiutato apriori in quanto estraneo da sé, in quanto proveniente da un soggetto che non sia il proprio ego. Quel poco che di buono circola su queste piattaforme, se nasce per queste piattaforme e rimane su di esse è destinato ad un rapido oblio che sfugge a qualsiasi riesumazione. Non sedimenta nulla e non serve a nulla, se non a soddisfare esigenze personali o a far perdere tempo prezioso ed avvilire chi si fa il sangue amaro in discussioni prive di qualsiasi approdo.
Dal canto nostro, non ci lasceremo distogliere nemmeno per un istante dal lavoro che abbiamo intrapreso, avvalendoci di tutto ciò che riteniamo valido e fecondo dell’esperienza delle passate generazioni di rivoluzionari. I compiti che tutti i comunisti internazionalisti devono affrontare hanno dimensioni tali da far tremare i polsi… non possono permettersi tendiniti da tastiera social. Ciò detto, che ognuno segua la strada che ha scelto e… passi lunghi e ben distesi.
