L’ASTENSIONISMO PROGRAMMATICO DI AMADEO BORDIGA NEL 1919-1920

Sembra essere prassi consolidata, nella rievocazione storica come nella pubblicistica che si occupa di questi argomenti, attribuire ad Amadeo Bordiga, tra i fondatori del Pcd’I nel 1921, un astensionismo definito di principio, dimenticando molto opportunamente le battaglie politiche, condotte come rappresentante del PSI nel periodo precedente alla Prima guerra mondiale, contro le impostazioni antipolitiche e fautrici dell’azione diretta dell’astensionismo anarchico e sindacal-rivoluzionario, questo si di principio. Crediamo dunque utile fare alcune precisazioni sull’astensionismo per come fu effettivamente impostato dalla corrente che faceva capo a Bordiga nel 1919-1920.

L’astensionismo di Amadeo Bordiga nei primi anni del primo dopoguerra non fu affatto un astensionismo di principio, mentre il suo antiparlamentarismo potrebbe a ragione essere definito tale, se con esso si intende la valutazione della funzione antirivoluzionaria del parlamento in quanto istituzione borghese, quindi dell’impossibilità di conquistarlo legalmente tramite consultazione elettorale; di utilizzarlo come strumento politico di trasformazione rivoluzionaria della società; della necessità di abbatterlo insieme a tutto lo Stato borghese per sostituire ad esso le forme specifiche della dittatura del proletariato.[1]

Riteniamo che l’astensionismo di Bordiga del biennio 1919-20 possa essere pienamente compreso solo alla luce della necessità della separazione dei rivoluzionari italiani dall’ala riformista del PSI, e che debba essere considerato come uno strumento tattico funzionale a questa prospettiva. Tanto è vero che durante il Congresso nazionale del PSI di Bologna (ottobre 1919) Bordiga propose ai massimalisti elezionisti (Serrati) di rinunciare alla pregiudiziale astensionista in caso di espulsione dei riformisti dal partito, proposta che i massimalisti rifiutarono.

Bordiga fu sicuramente il primo a riconoscere pienamente la necessità della costituzione di un partito rivoluzionario in Italia attraverso la scissione dal PSI, ma questa comprensione, e i confini stessi sui quali operare il taglio, furono il frutto di un processo tutt’altro che immediato.

Fino al congresso di Bologna e alla costituzione della Frazione comunista astensionista, l’orientamento di Bordiga era ancora legato all’ipotesi di un recupero su posizioni rivoluzionarie del centro massimalista del PSI, come conseguenza della subordinazione del gruppo parlamentare riformista alle direttive della Direzione. Ma questa impostazione, che intendeva trasformare il gruppo socialista in parlamento in un’appendice puramente esecutiva delle direttive del partito, non teneva sufficientemente conto del fatto che i deputati dovevano il loro mandato al corpo elettorale e che questo li metteva nella posizione di poter rivendicare ampi margini di autonomia politica, se non di indipendenza, dal partito.

L’astensionismo fu la risposta alla presa d’atto dell’impossibilità dei massimalisti di controllare le iniziative politiche dell’ala destra del partito (gruppo parlamentare, dirigenti sindacali, delle cooperative…) e della situazione di stallo in cui le opposte tendenze avevano trascinato il partito.

L’astensionismo programmatico, una volta adottato dal PSI, avrebbe tolto il terreno da sotto i piedi alla destra riformista riducendo drasticamente la sua influenza nel partito, inoltre avrebbe costituito un polo di aggregazione per tutti gli elementi rivoluzionari interni al PSI; il risultato, nella prospettiva di Bordiga, sarebbe stata una scissione “a destra” che avrebbe liberato il partito dalla sua zavorra riformista e dalle sue componenti “conciliatrici” non autenticamente rivoluzionarie, e che avrebbe trasformato il PSI in un Partito comunista con un programma positivo d’azione.

Indubbiamente la validità dell’analisi di Bordiga circa la capacità diversiva per il proletariato della partecipazione elettorale e il dispendio di energie che la preparazione elettorale costituiva per l’organizzazione è stata ampiamente dimostrata dai fatti; ma è altresì vero che la funzione diversiva per il proletariato e l’eccessivo sperpero di energie erano diretta conseguenza dell’ottica con la quale quel partito (il PSI) impostava e propugnava la partecipazione elettorale: ovvero l’ottica della vittoria elettorale come preludio della trasformazione rivoluzionaria.

In sostanza Bordiga all’inizio pose la pregiudiziale astensionista per espellere i riformisti e recuperare i massimalisti, accorgendosi però che questi ultimi non potevano accettare l’astensionismo per due motivi: perché credevano nel risultato elettorale come anticamera del processo rivoluzionario e conseguentemente perché una riduzione della forza elettorale del partito in seguito all’espulsione dell’ala destra, nella loro ottica avrebbe rappresentato una diminuzione della forza reale del partito. I massimalisti, con i loro appelli all’unità, mascheravano il fatto di credere più alla forza della scheda che alla forza derivante dall’omogeneità del partito. Sostanzialmente i massimalisti non erano antiparlamentari e, non essendolo, non potevano essere antielezionisti, mentre i comunisti, pur essendo antiparlamentari potevano scegliere tra una tattica elezionista ed una astensionista.

È proprio per questo che la questione dell’astensionismo assume un’importanza non solamente tattica ma diremmo quasi strategica per Bordiga. Si tratta di smascherare il non-antiparlamentarismo dei massimalisti, e quindi la loro mancata adesione sostanziale ai princìpi del Comintern, nonostante l’inganno dell’adesione formale ad essi; si trattava dell’unico modo per rivelare un opportunismo che si dichiarava “comunista” e che faceva persino mostra di accettare le 21 condizioni di ammissione alla Terza Internazionale, pur disattendendone le prescrizioni.

La dimostrazione del fatto che l’elezionismo non era soltanto una scelta tattica della Direzione massimalista, ma una conseguenza della sua impostazione falsamente rivoluzionaria, è proprio nel secco rifiuto della reiterata proposta del gruppo del Soviet di rinunciare all’astensionismo in cambio dell’estromissione dei riformisti, che apertamente e decisamente osteggiavano la rivoluzione d’ottobre.

A questo punto si potrebbe ipotizzare che il percorso della formazione del partito comunista sia stato più tortuoso del dovuto, in quanto la formazione di un partito nuovo avrebbe forse potuto essere impostata prima e a chiare lettere, senza passare per la proposta della non partecipazione elettorale del partito vecchio, intriso di riformismo ma anche di “centrismo” transigente e annebbiato dal culto di un’unità funzionale solo al maggior peso elettorale.

Questo viene affermato in quanto si suppone che buona parte delle forze rivoluzionarie interne al PSI avrebbero accettato immediatamente la prospettiva della formazione di un partito comunista al netto della pregiudiziale astensionista. Eppure i gruppi tendenzialmente comunisti di Torino – come gli ex-ordinovisti, che fino a poco prima del Convegno di Milano (ottobre 1920) sostenevano ancora la tesi dell’unità del partito – e di Milano (la sinistra massimalista elezionista di Fortichiari e Repossi), si uniranno al gruppo del Soviet di Napoli solo nel novembre 1920, durante il Convegno nazionale di Imola, e in quest’occasione la frazione di Bordiga rinunciò agevolmente alla pregiudiziale astensionista, definita tattica secondaria, non come condizione imposta dagli altri gruppi per l’unità ma in conseguenza della loro piena accettazione della piattaforma della Frazione comunista basata sui deliberati del Comintern – le tesi sul ruolo centrale del Partito comunista nella rivoluzione e nella dittatura proletaria, l’esigenza della centralizzazione e della disciplina organizzative (con il corollario delle Tesi e Condizioni di ammissione del II congresso) –, dal momento che la Frazione era pronta, su questi presupposti, a rinunciare all’astensionismo già un anno prima.

L’astensionismo, incalzando il centro massimalista, ha portato avanti un’opera di chiarificazione importantissima che ha permesso l’aggregazione delle forze che si riconoscevano senza riserve nella rivoluzione d’ottobre. Se il gruppo che si costituì in frazione astensionista avesse posto già nell’ottobre 1919 la questione della scissione, a costituire il partito comunista sarebbe stato esclusivamente il gruppo relativamente ristretto di Bordiga. Infatti nell’ottobre 1919, l’unico tra gli elezionisti a riconoscere la necessità di un partito autenticamente comunista e ad essere quindi pienamente favorevole all’espulsione dei riformisti era Francesco Misiano, che però all’interno del partito rappresentava poco più che sé stesso.

Senza dubbio in Italia, nel 1919, la partecipazione elettorale, per come venne impostata dal PSI, funse oggettivamente da diversivo alla lotta rivoluzionaria del proletariato. Solo un partito comunista avrebbe potuto guidare quella lotta fino alle sue estreme conseguenze insurrezionali – e per farlo avrebbe potuto eventualmente anche utilizzare, tra gli altri strumenti, la tribuna concessa dalla propaganda elettorale –, ma quel partito nel 1919 non esisteva ancora, e l’astensionismo era l’unica impostazione capace di porre un discrimine tra un nucleo di forze rivoluzionarie in grado di costituirlo e la maggioranza opportunista del PSI.

Bordiga ha sempre considerato la tattica astensionista “un fatto secondario”, tanto da proporre ripetutamente il suo abbandono in cambio dell’espulsione dei riformisti, ma ha tuttavia sempre rifiutato sia di concepire la tattica come qualcosa di nettamente separato, di indipendente dai princìpi e condizionato unicamente dal mutare delle situazioni concrete in cui ci si trova ad operare, sia di prendere in considerazione delle cosiddette “particolarità nazionali” che potessero indurre le sezioni nazionali del Comintern a impostare in maniera autonoma e svincolata la propria tattica (cosa che invece propugnava Serrati). Tanto è vero che Bordiga rivendicò sempre la necessità che sulla questione dell’astensionismo si pronunciasse un Congresso dell’Internazionale con risoluzioni impegnative e vincolanti per tutte le sue sezioni.

Al II Congresso del Comintern Bordiga affrontò la questione dell’utilizzo della tribuna parlamentare in importanti dibattiti con Lenin e Bucharin, e nei suoi discorsi – da diversi studiosi considerati poco convinti e incisivi (forse intenzionalmente) – tese a generalizzare per tutta l’area occidentale europea e per l’America e per tutta la fase di sviluppo della società capitalista a cui quest’area corrispondeva, la validità di una tattica di cui sarebbe stato molto più facile dimostrare la funzionalità per la specifica situazione italiana, che in fondo l’aveva fatta sorgere. Tuttavia è da ritenere che Bordiga considerasse più importante, se non fondamentale, che il Comintern, partito mondiale della rivoluzione comunista mondiale, si distaccasse totalmente dalla prassi della II Internazionale, federazione di partiti autonomi, strategicamente scollegati e liberi di impostare ognuno le proprie tattiche senza una visione d’insieme dei compiti rivoluzionari del proletariato di tutto il mondo. In quest’ottica Bordiga rifiutò di considerare l’astensionismo in Italia come un fatto “italiano”, ma lo propose come una norma generale d’azione, per ottenere dal Comintern una risposta “generale”, valida ed impegnativa per tutte le sue sezioni occidentali; risposta che venne e alla quale a nostro avviso Bordiga si conformò solo apparentemente per disciplina (si trattava di dare un segnale di come funzionasse la “nuova” Internazionale) ma anche perché gli obiettivi particolari che lo avevano portato ad impostare l’astensionismo erano stati raggiunti con la formazione del nucleo rivoluzionario che, di lì a poco, al Convegno di Imola (novembre 1920) costituirà la Frazione comunista, che guiderà poi la scissione di Livorno e la fondazione del Pcd’I.


[1] Per ulteriori approfondimenti rimandiamo il lettore all’ottimo saggio introduttivo del IV volume degli Scritti di Amadeo Bordiga, curati da Luigi Gerosa per le edizioni della Fondazione Amadeo Bordiga.

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