Non è la prima volta che la lotta alla pandemia – prodotto diretto delle contraddizioni, delle inadeguatezze, dell’irrazionalità del modo di produzione capitalistico – viene paragonata ad una “guerra”. Una guerra in cui “l’unità nazionale” deve prevalere su ogni altra considerazione, specialmente se si tratta di considerazioni trivialmente e nostalgicamente “classiste”. Ma c’è chi è andato oltre e, no, non stiamo parlando di qualche fanatico populista, ma dell’ex-segretario di un partito che non può più nemmeno considerarsi socialdemocratico (il che non sarebbe comunque un complimento), l’onorevole Nicola Zingaretti. In una intervista rilasciata al Corriere della Sera e pubblicata nell’edizione del 20 luglio il presidente della Regione Lazio ha dichiarato che il mancato raggiungimento dell’immunità di gregge – a cui contribuirebbero le dichiarazioni e le simpatie no-vax di Salvini e di altri leader della destra:
“Significherebbe perdere la battaglia contro il virus, come se in guerra si invitassero le persone a disertare. Colpisce che si definiscano patrioti degli esponenti politici che sono contro gli italiani e contro gli interessi del Paese.”
Ora, premesso che non abbiamo nessuna intenzione di esortare chicchessia a non vaccinarsi e che non abbiamo nessuna simpatia per le idiozie no-vax, quello che ci preme sottolineare è quanto risulti evidente come per il “sinistro” Zingaretti ogni guerra sia sacra, ed ogni invito alla diserzione un crimine contro quello che per lui è l’unico soggetto attivo di una guerra: la patria.
Abbiamo un’altra idea della guerra, soprattutto perché, a differenza dell’illustre nazional-democratico, abbiamo ben chiaro sia che cos’è una guerra imperialista, una guerra reazionaria, una guerra sciovinista, sia che cos’è la guerra di classe, la guerra rivoluzionaria. Il disertore di una guerra imperialista non ci disgusta, per quanto riguarda il patriota, da più di cento anni a questa parte, non lo consideriamo un’appellativo onorevole. Ma è vero, ognuno ha il suo concetto di onore…
A Zingaretti vorremmo insegnare, se fosse in grado di capirlo, che esiste anche una diserzione onorevole, quella che impone di trasformare le guerre in cui il capitalismo condanna al macello la classe operaia di tutti i paesi in guerre contro la classe dominante di tutti i paesi, contro i suoi ideologi, i suoi sacerdoti, i suoi rappresentanti politici e militari.
Si tenga l’epiteto di patriota, se ci tiene a contenderlo alla feccia populista, quanto a noi, ci teniamo l’esempio coraggioso di Francesco Misiano, disertore della Prima guerra mondiale imperialista e volontario della guerra di classe – nonché tra i fondatori di quel partito di cui fino a trenta anni fa Zingaretti & Co. usurpavano il nome -, e ne riproponiamo al lettore le parole pronunciate cento anni fa in un parlamento fetido allora come oggi.

Il Soviet, anno IV, n°15, Napoli, 12 giugno 1921
Crediamo di far cosa gradita ai nostri lettori riportando un brano del discorso che il compagno Francesco Misiano pronunziò alla camera dei deputati in occasione della richiesta di “autorizzazione a procedere” avanzata dal procuratore del re di Bari. E a chi volesse obiettare che ogni cosa trova il suo tempo, noi rispondiamo che rileggendo in opuscolo testé pubblicato a cura del Partito Comunista, esso ci è sembrato così ispirato alle idealità nostre, così fiero e nobile, così pervaso di spirito internazionalista, che non abbiamo saputo resistere alla tentazione di pubblicarne un frammento. Vibra, in esso, tutta quanta l’anima diritta e lucida di Francesco Misiano, soldato fedele della Internazionale Comunista. Siamo sicuri che i compagni di Napoli saranno invogliati, da questa breve lettura, ad acquistare l’opuscolo che è una bella e forte battaglia contro la borghesia e le sue guerre.
Quando scoppiò la rivoluzione in Germania noi rispondemmo, o signori della borghesia italiana. Ci accusavano di non sapere andare in Russia a batterci coi bolscevichi contro l’imperialismo mondiale e ben sapevano che non ci si poteva andare perché l’Intesa negava persino ai russi il libero passaggio, e Lenin fu costretto ad accettare il passaggio su qualunque terra fosse, anche la Germania, pur di arrivare nel cuore in fiamme della Russia rivoluzionaria.
Noi rispondemmo! Allorché la rivoluzione tedesca spalancò le porte al passaggio, noi partimmo; sappiatelo voi che ci accusate di viltà, perché disertori! Dodici disertori partirono subito e passarono la frontiera per andare in Germania. Sappiatelo! Più di dodici si batterono nelle file della guardia rossa a Berlino e a Monaco, e ovunque erano presenti. Disertori noi! Noi disertori, in Germania, dinanzi agli austriaci, dinanzi ai polacchi, dinanzi agli internazionalisti, sotto le bandiere di Spartaco, abbiamo tenuto alto il decoro del socialismo italiano, il decoro d’Italia.
E voi borghesi diceste: “È tornato il vile!” Ah! Come le parole talvolta sono convenzionali! La viltà non è un’etichetta che si pone sulla fronte, è una dote interiore. Io vi dirò se son vile o se vile non sono. Io mi trovo qui oggi, alla Camera, non a parlare per me, perché la mia persona scompare, scompare nel grandioso e molteplice fenomeno della guerra, la mia persona non è altro che un atomo, una molecola dell’enorme esercito d’uomini che non vollero la guerra. Ed io, trattando di me, tratto di tutti quelli che in Italia, che in Germania, che in Francia, che in tutto il mondo si negarono alla guerra, combatterono contro la guerra. Quando io parlo di me, io parlo di costoro. Io vi dico: Osservate, chi fu che disertò? Chi fu che non disertò? Ah, la diserzione non è un atto esteriore, è un atto interiore. Il vostro codice può classificarla come un atto esteriore: ma può darsi che se anche il corpo manovra sotto la bandiera sull’Isonzo l’animo può essere assente. Ma può darsi che dalla trincea dell’Isonzo, tutta l’anima propria è protesa nella lotta ardente per la propria idea.
Ah signori, ognuno ha la sua bandiera a cui giura fedeltà. Io non ho mai giurato fedeltà alla bandiera italiana, della borghesia italiana. Dimostratemi questo giuramento. Io vi dico che non esiste. Dimostratemi che io ho detto che sarei stato fedele alla guerra italiana. Io ho detto il contrario: “Non andrò a combattere per la guerra italiana, mi batterò per la guerra di classe”. Ed ho tenuto fede da dodici anni al mio giuramento. Lasciate che ve lo dica senza ostentazione. Io vi ho chiarito i dubbi della mia anima. Vi chiarisco anche i punti fermi della mia coscienza. Sono stato sempre in prima linea nella mia trincea: la lotta di classe contro di voi, borghesia, a favore del proletariato. E voi lo sapevate. Non mi avevate messo in prigione per quattro mesi prima di chiamarmi alle armi? Non lo sapevate colonnello Denina, dalle mie dichiarazioni? Ed allora dov’è la diserzione? Io che avevo dichiarato i miei principii, sarei stato disertore se fossi al fronte ad obbedire alla vostra imposizione contro la mia coscienza.
Voci dal centro: Parli Pilati[1]!… (Rumori all’estrema sinistra – commenti).
Misiano. Parlerò io. Pilati è mio fratello. Non esiste contraddizione tra il suo gesto e il mio. Egli è una vostra vittima, io sono una vostra vittima. Non mi avete preso il corpo, ma mi avete stritolata l’anima, ma mi avete staccato per tre anni e nove mesi, con le vostre imposizioni e le vostre leggi, dalle mie bimbe. Io ne ho trovata una di quattro anni che non mi conosceva e che non conoscevo. Le hanno detto: “Questo è il babbo”. Mi hanno detto: “Questa è Ornella”. Voi avete la visione contorta dalla vostra passione di parte. Ma scendete nell’intimo. Noi socialisti siamo andati alla guerra o non siamo andati alla guerra, ma contro la nostra volontà. Voi ce lo avete imposto. Dillo, compagno Pilati, che cosa sentivi nella tua trincea, dillo quale era la parola dei soldati spinti al massacro. Io, io li ho visti da Cuneo partire i soldati. Avevano tentato tutto per evitare di andare al fronte (non scenderò in dettagli per ragioni ovvie). Tutto avevano tentato, partivano contro voglia. Il tenente Pallottino a Cuneo un giorno, alla fine di una adunata della banda, mentre partiva il treno, si sentì gridare: “E tu rospo perché non parti?”
Questo dicevano i soldati partendo per il fronte, questa è la tragedia dei Pilati e dei disertori. È il frutto della guerra: essi non l’hanno voluta, gliela avete imposta, li avete legati colla disciplina, colle minacce, col revolver dei carabinieri, li avete spinti avanti, ne avete macellati tanti di coloro che sarebbero stati oggi nelle piazze d’Italia a far sentire la loro voce se non fossero stati spenti dalla mitraglia dei Graziani[2] e degli altri che a suo tempo risponderanno delle loro colpe.
Fra me e Pilati quindi non c’è alcun distacco, noi siamo uniti. Ve lo dice il partito al quale entrambi apparteniamo, ve lo dicono i proletari combattenti reduci dalla guerra che chiamano Misiano a parlare nei loro comizi, e lo difendono contro le armi degli imboscati.
Ho fatto dunque il mio dovere di internazionalista. Voi siete chiamati a giudicarmi. Rifuggo dal pensare alle parole di Giordano Bruno (quanta differenza di statura tra me e lui, ma quanta differenza vi è pure fra voi che conducete affari e spingete alle guerre, e coloro che avevano almeno una qualunque idealità anche se si chiamavano santa inquisizione). Alle parole di Giordano Bruno: “Tremate più voi nel condannarmi che non io nel sentirmi condannare!”
Ma voi dalla legge siete chiamati a giudicarmi: orbene lasciate che io mi domandi chi siete voi, che diritto avete di giudicarmi.
Può sembrare la mia un’audacia, ma io non chiedo né perdono, né oblìo, né tolleranze: chiedo lotta. Io sono qui per lottare; io lotto contro di voi, borghesia.
Non parlate di codici. Parlate di lotta. Io sono un vostro avversario. Agli avversari si trafigge il cuore. Io sono un vostro sincero avversario, io gioco il tutto per il tutto, io voglio la fine del vostro regime!
[1] Gaetano Pilati (1881-1925), iscritto al Partito Socialista Italiano dal 1910. Antimilitarista, fu chiamato alle armi all’inizio della Prima guerra mondiale, durante la quale rimase mutilato del braccio sinistro per lo scoppio di una granata. Venne decorato con la Medaglia d’argento al valor militare. Nel 1919 divenne segretario generale della Lega proletaria mutilati e Deputato del Regno. A causa della sua attività fu aggredito e gravemente ferito da fascisti nella notte tra il 3 e il 4 ottobre 1925, morendo pochi giorni dopo.
[2] Andrea Graziani (1864-1931), sottotenente nel 1882, fu in Eritrea nel 1887. Colonnello nel 1915 presso il 15° bersaglieri venne nominato generale. Si distinse per la brutalità verso i sottoposti: fucilazioni, decimazioni, punizioni mortali sul fronte, dove si muoveva con una scorta di carabinieri pronti ad eseguire esecuzioni sommarie.