LE BANDE PARTIGIANE FRA DIFESA DI CLASSE E GUERRA IMPERIALISTA

Dalla postfazione all’antologia Bagliori nella notte. La Seconda guerra mondiale e gli internazionalisti del «Terzo Fronte», Movimento Reale, luglio 2023.


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Riflettici, hai tempo, un intero secondo. Perché uccidere quella canaglia? Gli esseri ripugnanti di questa specie pullulano ormai come vermi nella carne putrida. Uno sostituisce l’altro, abbiamo di meglio da fare che occuparci di loro. Questo qui non è più sulla tua strada, Laurent; non sfuggirà mai alla sua bassezza… la grande disinfezione avverrà un giorno, radicale e salvifica. Tutto è da salvare, Laurent. Tu ti sei salvato, vedi che è possibile. Non sparare, Laurent, sei salvo. Sei salvo se non spari. Non è più una questione di pelle, è una questione di… di cosa, [Laurent] Justinien non avrebbe saputo dirlo, ma lo sapeva. – Non è più il momento di uccidere, Laurent, è il momento di combattere anche l’omicidio, di combattere gli uomini dell’omicidio… non essere un uomo dell’omicidio, sii un uomo di liberazione… lascia passare questa canaglia, difendi i tuoi nervi dalla miserabile tentazione… Victor Serge, Gli ultimi tempi, 1945

L’elemento classista presente nel processo di formazione dei primi embrionali nuclei di autodifesa del proletariato in Europa, come forma peculiare di reazione alle durissime condizioni di esistenza determinate dall’occupazione imperialista tedesca, e tenendo conto dell’assenza di indipendenza politica del movimento operaio, venne ridimensionato e snaturato – seppur non senza deboli resistenze – soprattutto grazie alla sistematica opera di inquadramento e di reindirizzamento esplicata fin dall’inizio dai quadri politico-militari delle borghesie sconfitte riorganizzatisi in esilio o in clandestinità, dalle specifiche organizzazioni tecnico-militari degli Alleati impegnate nella costituzione, nell’addestramento e nell’armamento di formazioni guerrigliere per esigenze strategiche e, in particolare, dalle agenzie estere del governo di uno dei partecipanti alla guerra imperialista nello schieramento “democratico”: i PC stalinisti diretti da Mosca, senza dubbio i meglio attrezzati per il compito di traviare il proletariato.

Dal momento in cui si stabilì una momentanea convergenza di interessi imperialistici distinti tra la Russia staliniana, gli USA, l’Inghilterra e le frazioni borghesi europee sotto l’occupazione – quelle che non avevano interesse nel venire ad un accomodamento con le esigenze dell’imperialismo tedesco – l’URSS mise in effetti a disposizione del comune obiettivo il proprio apparato organizzativo all’estero, con tutto il suo ricco bagaglio di esperienze internazionali nel controllo della classe operaia in funzione controrivoluzionaria. I partiti comunisti nazionali, una volta delineatisi chiaramente gli schieramenti nel conflitto, si adoperarono con impareggiabile zelo e tenacia nel riorganizzare le spontanee formazioni di autodifesa proletarie – oppure organizzandole ex novo –, stabilendo rigidamente quei confini politici che non dovevano essere superati.

Le formazioni partigiane, le bande guerrigliere, dovevano perseguire un solo obiettivo: la liberazione della nazione invasa e occupata, che anche il proletariato doveva riscoprire “patria”; la sospensione di ogni forma di lotta di classe nella più stretta cooperazione con le altre forze nazionaliste borghesi, che il proletariato doveva riconoscere come “progressive” – una cooperazione non priva di competizione, dal momento che, seppure alleate, le formazioni staliniste rispondevano in ultima istanza alla politica imperialista russa –; in alleanza con le potenze imperialistiche nemiche della Germania, che il proletariato doveva considerare “democratiche” e “antifasciste”; contro il fascismo tedesco, un regime nel quale la fondamentale distinzione di classe tra borghesia e proletariato era negata. Ciò permette di chiarire fin da subito quanto siano fuorvianti le trite vulgate a proposito di una “resistenza tradita”, quando è stata la resistenza stessa, in quanto fenomeno politico organizzato e diretto da forze opportuniste al servizio delle borghesie imperialiste “democratiche”, per l’impostazione e per gli obiettivi politici che si pose fin dall’inizio, a costituire di per sé un tradimento di classe nei confronti della sua base di massa.

Gli operai europei che, privati nei decenni precedenti della propria consapevolezza e della propria indipendenza di classe, e dunque resi incapaci di opporsi in forme compiutamente classiste alla guerra, all’occupazione tedesca, allo sfruttamento schiavistico e alla deportazione, si videro costretti a trovare individualmente rifugio nelle bande partigiane, subirono all’interno di queste ultime la direzione politica dei partiti delle borghesie “non collaborazioniste” di casa propria e quella delle potenze imperialistiche ad esse alleate.

Nella misura in cui il nazionalismo non rappresenta una mera “illusione” sganciata da qualsiasi legame con la realtà con cui la borghesia indottrina il proletariato, quanto piuttosto un’ideologia borghese che offre al proletariato false soluzioni ai suoi problemi concreti, esso trova un oggettivo terreno fertile sul quale attecchire nelle forme di oppressione nazionale che l’imperialismo e le sue guerre producono continuamente. Da questo punto di vista, a convogliare verso soluzioni nazionaliste il proletariato durante la Seconda guerra mondiale, nelle varie situazioni, contribuì certamente anche la presenza sul territorio nazionale di un’oppressione esercitata in forme estremamente feroci da parte di un capitale “straniero” che si presentava ed era presentato come tradizionalmente “nemico”. Una presenza che, indubbiamente, ritardava nel proletariato dei paesi occupati una piena presa di coscienza dell’antagonismo di classe con la propria borghesia, mentre al contrario facilitava a quest’ultima il compito di incanalare il malcontento operaio nell’alveo della contrapposizione interimperialista.

Per raggiungere l’obiettivo di “nazionalizzare” le forme di lotta del proletariato nei paesi occupati era necessario impedire che la separazione tra quest’ultimo e il proletariato in divisa negli eserciti del Reich, alimentata dalla guerra e dall’occupazione, potesse essere in alcun modo superata in senso internazionalista, su basi di classe. A questo scopo si prestarono ottimamente le forme di azione che il socialsciovinismo stalinista impose a quelli che erano sorti come elementari gruppi di autodifesa operaia: il sabotaggio e il terrorismo nei confronti delle forze occupanti, azioni pienamente integrate e coordinate nei piani militari delle potenze imperialistiche Alleate.

Ovviamente, da un punto di vista marxista ha poco senso rifiutare a priori o codificare queste o quelle forme di azione militare che la lotta del proletariato può assumere nelle circostanze particolari dello scontro di classe. Non sono i rivoluzionari a predeterminare quali particolari forme assumeranno gli specifici organismi di lotta del proletariato o quali particolari modalità di azione la classe operaia esprimerà nelle fasi rivoluzionarie, sulla base della maggiore o minore fedeltà della realtà ad un preventivo schema astratto o sulla base della riproposizione meccanica di precedenti esperienze fossilizzate in un “modello”. Ciò che è essenziale è, da un lato, saper riconoscere il carattere di classe di certi organismi e forme di lotta espresse dal proletariato, cercando di svilupparvi l’elemento cosciente, e, specularmente, saper individuare ciò che lega determinate forme di azione in un determinato contesto ad un contenuto di classe estraneo agli interessi del proletariato.

Il sabotaggio ed il terrorismo praticati dalla gran parte delle formazioni partigiane nel corso della Seconda guerra mondiale erano forme di azione militare strettamente legate al contenuto borghese della guerra imperialista.

Generalmente, le prime forme di lotta intraprese dal proletariato europeo sotto l’occupazione nazista avevano una nettissima impronta di classe e tendenzialmente si manifestavano come lotte di massa. In diversi paesi si formarono comitati di fabbrica clandestini che riuscirono a organizzare scioperi anche imponenti, il caso olandese del 1941 e quello italiano del 1943 sono esemplari da questo punto di vista[1]. Il sabotaggio della produzione, la volontaria negligenza nel lavoro e il rallentamento intenzionale dei ritmi, precedevano e accompagnavano – come prime forme di resistenza e come strumenti ausiliari – le lotte operaie a carattere di massa. Fenomeni di questo tipo, per quanto di limitata estensione e durata, riuscirono a verificarsi persino in Germania. L’obiettivo, per la classe operaia, si poneva – al di là della confusione ideologica – in maniera univoca: un miglioramento delle proprie condizioni di vita e la più rapida conclusione della guerra.

La brutale repressione di questi scioperi, la decapitazione dei nuclei dirigenti emersi nelle lotte, attraverso arresti ed esecuzioni di leaders operai, le deportazioni, le rappresaglie, infersero duri colpi ad un movimento che provava a ricostituirsi sulla base di immediate rivendicazioni di classe che iniziavano inevitabilmente ad assumere un carattere politico, ma che era privo di una visione d’insieme che non fosse quella mistificante dell’opportunismo nelle sue diverse connotazioni. È in questo contesto che il socialsciovinismo stalinista interviene massicciamente e pervasivamente, mettendo in campo tutto il suo apparato ideologico e le sue capacità organizzative per contrastare qualsiasi tendenza all’indipendenza di classe del proletariato.

Con la disgregazione degli eserciti sconfitti – o, come nel caso italiano, con la dissoluzione dell’esercito in seguito alla gestione disastrosa del repentino cambio di alleanze dell’8 settembre 1943 – numerosi soldati allo sbando riescono, in molti casi combattendo, ad evitare la cattura da parte della Wehrmacht e si riaggregano trovando rifugio in zone isolate, in valli, montagne e zone boschive[2]. A questi primi nuclei di soldati fuggitivi, spesso di origine proletaria, si aggiungono operai renitenti al lavoro coatto o in fuga dalla deportazione e altre figure sociali politicamente “bruciate” con l’amministrazione occupante e quella collaborazionista.

Ben presto, in queste aggregazioni spontanee dalla composizione sociale varia, assumono un’importanza superiore al loro peso numerico quadri politici provenienti dalla piccola borghesia e dagli strati intermedi intellettuali urbani. I quadri stalinisti, che si sono “formati” in Spagna inquadrando le milizie operaie e sindacali nei reparti di un esercito borghese, oppure sopprimendole quando opponevano resistenza, trasformano le bande sorte spontaneamente, con capi eletti dalla base sulla base del carisma o di provate capacità, in formazioni militari rigidamente controllate dal centro politico del partito di riferimento[3]. Mettono in atto questa trasformazione mediante la produzione e la diffusione di specifici giornali di raggruppamento che trasmettono le parole d’ordine di partito e le cui posizioni vengono discusse non per elevare politicamente i combattenti ma per indottrinarli e individuare eventuali elementi di perplessità o dissenso; mediante l’adozione di uniformi, di distintivi, di gradi gerarchici stabiliti dall’alto. Le bande che si rivelano refrattarie all’inquadramento vengono accusate di banditismo ed eventualmente eliminate in vari modi, direttamente oppure lasciandole prive di informazioni e soccorsi in caso di pericolo. Ovviamente, solo parzialmente queste misure rispondono a indubbie esigenze militari, molto più importante è il loro preciso carattere politico.

Il sabotaggio, da forma ausiliaria della lotta di massa attraverso gli scioperi del proletariato urbano, diventa forma di attività principale e caratterizzante delle formazioni e i suoi obiettivi – stabiliti esclusivamente in base alle esigenze militari dei comandi Alleati – sono infrastrutture, snodi ferroviari, siti produttivi, magazzini, mezzi di comunicazione, installazioni militari dell’occupante ecc. Gli scioperi, che, soprattutto se estesi, mobilitano gli operai e forniscono loro un primo inquadramento su basi di classe, possono diventare l’anticamera di azioni politiche di massa potenzialmente in grado di travalicare i limiti rigidamente stabiliti dagli interessi borghesi in conflitto. La lotta del proletariato urbano deve dunque essere completamente subordinata alle esigenze della guerriglia, i cui effettivi sono maggiormente controllabili e le cui operazioni sono strettamente vincolate ai piani militari degli Alleati, e il terreno naturale della lotta operaia si trasforma in un bacino di reclutamento per le formazioni partigiane. La difesa armata da parte dei gruppi di proletari sfuggiti alla deportazione, condotta contro le forze nazifasciste e collaborazioniste che procedono con i rastrellamenti e le cacce all’uomo, si trasforma nella pratica del terrore esercitato non solo nei confronti di gerarchi fascisti, funzionari di polizia particolarmente odiati dalla popolazione e ufficiali, ma anche e soprattutto – vista la relativamente maggiore raggiungibilità dell’obiettivo – con attentati che colpiscono indiscriminatamente le truppe dell’esercito occupante. La parola d’ordine è «à chacun son boche!»«a ciascuno il suo crucco!», ogni straniero ucciso è un nemico della patria in meno, senza nessun riguardo per la sua classe sociale, senza nessuna considerazione del grado di costrizione materiale e di condizionamento ideologico a cui è assoggettato dal proprio imperialismo, senza alcun tentativo di contatto su basi internazionaliste. La “lotta di liberazione nazionale”, qualificata come guerra “giusta” e resa compatibile con la lotta per il socialismo attraverso metodiche mistificazioni ideologiche del patrimonio teorico marxista, non ammette possibilità di fraternizzare con il nemico. La propaganda nelle file dell’esercito occupante, che gli stalinisti spacciano per “fraternizzazione”, ha invece come unico obiettivo quello di fiaccarne il morale affinché i soldati si consegnino prigionieri oppure si prestino a fornire informazioni militari. Alla ferocia dell’occupazione, pianificata dai comandi nazisti e condotta con metodi scientificamente brutali per mezzo di truppe sottoposte al più rigido controllo e sotto la minaccia delle più atroci punizioni, si contrappone un terrorismo che, per quanto inferiore nelle dimensioni, è altrettanto pianificato e feroce e che approfitta dell’odio spontaneo generato dalle violenze subìte dalla popolazione per approfondirlo e per allargare il fossato con cui la guerra divide gli occupati dai proletari in divisa straniera. Gli attentati contro i soldati occupanti generano in questi ultimi un senso di insicurezza e di paura che alimenta la diffidenza e l’aggressività – opportunamente coltivata e incentivata dai comandi e dalla direzione politica del partito della “razza superiore” – contro una popolazione che viene percepita come un blocco ostile con il quale non è possibile alcun rapporto che non sia di ferreo dominio e dal quale in qualsiasi momento può provenire un colpo mortale. D’altro canto, il terrorismo non colpisce soltanto gli stranieri e gli odiati simboli del regime collaborazionista; la resistenza nazionalista, soprattutto stalinista, punisce anche i connazionali accusati più o meno fondatamente di complicità con l’invasore: ad esempio quelle donne che, spesso spinte da necessità materiali, stringono legami sentimentali con soldati stranieri; in alcuni casi gli operai che spesso non possono rifiutarsi di lavorare per gli occupanti; i piccoli gruppi di internazionalisti, che provano a mettere in discussione l’egemonia stalinista tra le masse introducendo il discrimine di classe nella lotta contro le conseguenze della guerra e che attaccano la falsa impostazione della “lotta in due tempi”.

Laddove, all’interno delle formazioni partigiane, permangono o risorgono spinte rivendicative classiste – favorite da una intuitiva e mai del tutto sopita identificazione del fascismo con il capitalismo –; laddove ad esempio si verificano operazioni militari per la difesa delle fabbriche dalla distruzione o dallo smantellamento[4]; laddove si verificano raid non concertati con i comandi Alleati per appoggiare azioni di sciopero o impedire deportazioni; laddove nei territori liberati si adottano misure in favore degli operai contro i loro padroni, si eseguono arresti e si tengono processi contro rappresentanti del padronato ecc., ecco che intervengono prontamente i “commissari politici” stalinisti, accompagnati da scorta ben armata, pronti a reprimere “eccessi estremisti” in violazione della proprietà privata – ispirati da “sinistri al soldo della Gestapo” – e a ristabilire l’ordine rammentando a tutti il necessario carattere di “unità nazionale” della lotta antifascista.

Non è solo il materiale stampato e letto dai partigiani a doversi attenere a questa linea; persino i canti di lotta, portato di una tradizione e di una memoria di classe alla quale i proletari in armi attingono, devono adeguarsi alle esigenze politiche stabilite dalla “patria del socialismo” russa e diramate dai PC nazionali stalinizzati: qualsiasi accenno alla contrapposizione di classe o all’abbattimento rivoluzionario dello Stato deve scomparire per fare posto ai richiami all’onore nazionale, alla riscossa della patria vilipesa e all’odio implacabile nei confronti dello straniero invasore. Anche la bandiera rossa deve cedere il passo ai colori della bandiera nazionale.

Non è un mistero e non deve meravigliare che i combattenti di base di molte delle formazioni guerrigliere caricassero la lotta partigiana e l’insurrezione finale di significati e di aspirazioni vagamente socialiste, che, sconfitto il “nemico nazionale” si aspettassero di dover “fare come in Russia”, nonostante tutte le dichiarazioni di moderazione politica dei dirigenti dei partiti stalinisti, spesso interpretate come escamotages per non insospettire gli Alleati e che non venivano prese troppo sul serio. Il fatto è che i quadri dirigenti non scherzavano affatto, e prendevano terribilmente sul serio il proprio compito. In assenza di una solida espressione politica delle sue vaghe aspirazioni, il proletariato all’interno delle formazioni partigiane, pur esprimendo insoddisfazione e malumore, non poteva far altro che sottomettersi alle disposizioni dei dirigenti opportunisti, abilmente intenti a promettere loro “grandi cose” per l’avvenire, quando, a guerra conclusa, avrebbero invece – prevedibilmente – presieduto alla requisizione di tutte le armi da consegnare alle nuove legittime autorità “democratiche”. Per quanto si possa affermare che gli operai nella “resistenza” fossero “più disciplinati che convinti”, purtroppo, in assenza di una diversa convinzione, di una convinzione antitetica a quella di chi impone la disciplina, la scarsa convinzione non basta, e vince la disciplina. Nella debolezza o nell’assenza di un soggetto politico proletario strutturato e con solidi legami nella classe, queste spinte classiste vengono riassorbite più o meno agevolmente, rendendo del tutto inappropriate se non ideologiche le declamazioni a proposito di una resistenza “rossa” o, peggio ancora, di una “rivoluzione interrotta”. Il compito – pienamente assolto – della resistenza stalinista è stato quello di subordinare la classe operaia – in misura decisamente maggiore rispetto alle formazioni partigiane di altra coloritura politica e con diversa composizione sociale[5] – agli interessi delle frazioni borghesi nazionali (in quanto momentaneamente alleate del capitalismo di Stato russo) in guerra con l’imperialismo tedesco, convogliando il malcontento del proletariato contro la guerra verso la sua partecipazione alla guerra in formazioni che hanno operato, di fatto, sia come truppe ausiliarie irregolari di uno degli schieramenti imperialisti contrapposti, sia, in varia misura, come organismi di polizia politica interna alla classe per controllarne e ostacolarne i moti spontanei e indipendenti, e, infine, in alcuni casi – quando le bande non sono state disciolte d’autorità e dopo una minuziosa epurazione degli elementi politicamente sospetti –, persino come nucleo fondante delle forze dell’ordine dei ricostituiti apparati statali borghesi alla fine del conflitto[6].


NOTE

[1] Lo sciopero del marzo 1943 vedrà la partecipazione di 133.652 operai, «le rivendicazioni sono le 192 ore, il caro-vita, l’aumento delle razioni base; ma insieme si chiede la pace, la fine del fascismo e della guerra», nonché la liberazione degli operai arrestati. Cfr. R. Del Carria, op. cit., p. 103.

[2] Una minoranza di questi gruppi è prevalentemente composta da sottoufficiali di carriera seguiti dai soldati che si trovavano precedentemente sotto il loro comando, e intendono fin da subito continuare la guerra in obbedienza alla posizione assunta dal governo nazionale sconfitto.

[3] «Ogni formazione [delle Brigate Garibaldi del PCI], anche le minori, dovevano avere accanto al Comandante militare anche il Commissario politico col compito di curare l’elevamento ideologico del gruppo partigiano». R. Del Carria, op. cit., p. 134.

[4] Difesa che, nelle aspirazioni confuse e prive di espressione cosciente degli operai, più che preservare l’apparato produttivo “nazionale” avrebbe dovuto costituire il primo passo della loro espropriazione per “fare come in Russia nel ‘17”

[5] In Italia, nella primavera del 1945 le formazioni partigiane del PCI e del Partito d’Azione costituiscono il 70% del totale, con percentuali maggiori nelle città. Cfr. S. Peli, Storia della Resistenza in Italia, Einaudi, Torino, 2006, p. 161-162.

[6] Come avvenne ad esempio in Francia.

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