DOCUMENTI DELL’INTERNAZIONALISMO IN PALESTINA

Da https://web.archive.org/web/20161115000039/http://98.130.214.177/index.asp?u=101&p=revolution. Testo pubblicato in The International, estate 1973. Traduzione dall’inglese di Rostrum.
Traducendo e riproponendo questo ed altri testi, provenienti dal mondo politico trotskista e risalenti alla fine degli anni ‘60 e agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso, riteniamo di fornire un utile materiale di riflessione e un esempio di approccio metodologico ad una questione tragica e complessa come quella palestinese, collocata lungo una linea di faglia delle dinamiche imperialistiche globali. Non ci siamo avvicinati a questi scritti alla ricerca di schemi precostituiti a cui ricondurre gli attuali sviluppi del conflitto incentrato sulla Striscia di Gaza a prescindere dalla comprensione di una specifica e concreta realtà storica. Il nostro riferimento a questi testi non è scevro dalla rilevazione che permangono elementi di fondo, nella stessa strumentazione teorica, che ci differenziano sostanzialmente dall’impostazione di questi autori, pure capaci di fornire un lavoro che riveste ancora oggi motivi di notevole interesse. Interessante in primis è l’approccio di metodo, il criterio essenziale con cui essi si misurano con la questione israelo-palestinese. Coerentemente con l’esperienza e l’elaborazione delle generazioni della scuola marxista che li hanno preceduti, non individuano una questione nazionale, una lotta di liberazione nazionale, un principio di autodeterminazione da sostenere a priori in quanto progressivi in sé. Non esistono questioni nazionali che prescindano dai nessi, dai rapporti, dalle interazioni che connettono tali questioni agli sviluppi, ai potenziali sviluppi, ai compiti della lotta di classe internazionale del proletariato, alle prospettive della rivoluzione internazionale. Il riconoscimento corretto di questi nessi – che richiede necessariamente un’analisi strutturata sulla teoria marxista, imperniata su un rigoroso impegno nell’applicazione delle sue categorie, nell’interpretazione attraverso di esse di una realtà in costante divenire – è un presupposto, un passaggio indispensabile affinché prenda forma una corretta posizione internazionalista e non un vano proclama, che nei fatti acquisirà puntualmente, al momento del più intenso emergere della questione nazionale in esame, i contenuti reali di uno schieramento borghese. In questo senso, abbiamo trovato in questi testi, appartenenti ad un ambito politico che ha sviluppato una lettura di aspetti fondamentali dell’analisi marxista sempre più divergente dalla nostra e oggi sempre più distante persino dalle proprie radici, un significativo precedente di una genuina opera di inquadramento – attraverso l’impiego di una chiave di lettura marxista, come tale rigorosamente e coerentemente di classe – della situazione mediorientale e, in essa, della questione israelo-palestinese. Un precedente che può risultare istruttivo e di aiuto nel presente del drammatico evolvere di questo conflitto, anche per molti che oggi pretendono di richiamarsi al milieu di Nicola e Machover in virtù di una continuità puramente formale. Nel solco di questa coerenza innanzitutto metodologica, l’area mediorientale, nevralgico terreno di convergenza e di confronto di spinte e influenze imperialistiche che si intrecciano, che indirizzano e alimentano il confronto tra potenze regionali, sfugge alla fuorviante linea di demarcazione di “campi progressivi e reazionari” in cui raggruppare e distinguere le forze borghesi e gli Stati dell’area. La dimensione imperialistica non è un “di più” a cui gli Stati e le borghesie della regione possano aderire o meno, diventando nel caso complici dell’imperialismo o suoi avversari. L’imperialismo è la condizione di fondo, il segno prevalente, in ultima analisi determinante, dello stesso quadro capitalistico mediorientale, del suo differenziato profilo borghese. Stati e borghesie dell’area non sono e non possono essere “altro” rispetto alla dinamica imperialistica, alla dimensione imperialistica, ne sono invece espressione secondaria e derivata. Ed è in questo inquadramento che la questione palestinese viene riconosciuta nella sua reale relazione con il gioco, con il confronto tra classi dominanti del mondo arabo, “soci minoritari dell’imperialismo” – nella calzante definizione di Jabra Nicola. Un rapporto subalterno, di manipolazione, di utilizzo in base agli interessi di borghesie regionali pienamente integrate nella dimensione imperialistica. L’esigenza, la prospettiva che il problema palestinese diventi parte di una più ampia mobilitazione di classe contro il condizionamento imperialistico e la rete soffocante delle strumentalizzazioni dei suoi soci di minoranza operanti direttamente nell’area, può essere presentata oggi come una fuga in avanti utopistica ma è in realtà la rivendicazione di un approccio realistico, di una capacità di lettura dei rapporti di forza storici propri di un sincero impegno nel tracciare una linea politica di classe.
Si potrà forse non concordare integralmente con le proposte avanzate e con gli scenari prefigurati dagli autori, ma l’approccio merita una seria e ponderata riflessione da parte dei comunisti internazionalisti. Tanto più che questo approccio pone il problema di una presenza e di un’indicazione di classe su un piano teorico e politico vitale, sensibile all’esigenza di un’autentica autonomia di classe, non votata a farsi strumento di forze borghesi. Alcuni dei più significativi esiti di questa impostazione lo dimostrano: questo approccio sfugge al nefasto riduzionismo di una Palestina senza borghesi e di un Israele senza proletari (maschera ideologica del rifiuto di un’autentica politica di classe che attribuisce a determinate componenti del gioco imperialistico, in quanto soci di maggioranza o minoranza, una natura di per sé progressiva, estranea a questo gioco, una natura in sé proletaria, in sé rivoluzionaria e anti-imperialista, riservando ad altre componenti il monopolio dell’incarnazione imperialistica). La drastica minorità della borghesia palestinese, la debolezza del proletariato palestinese (su cui grava in maniera determinante l’oppressione nazionale israeliana), la condizione proletaria in Israele con i suoi caratteri specifici, ostici e problematici nella prospettiva internazionalista, non vengono negate a priori ma, anzi, riconosciute come problematiche all’interno della ricerca di una strategia proletaria per e nella questione israelo-palestinese. Confrontando le linee guida di questo scritto con la situazione attuale, e l’attuale orientamento della maggior parte dello spazio politico che pure si definisce rivoluzionario, marxista e internazionalista, ci si presenta di fronte un paradosso su cui è utile soffermarsi e riflettere: oggi che la pervasività della dinamica imperialistica, che la condizione minoritaria di soci dell’imperialismo della borghesia palestinese e delle sue organizzazioni sono ancora più accentuate, marcate e palesi di ieri, l’approccio marxista è più minoritario e marginale di ieri, fino ad essere totalmente estraneo ed inviso ad un milieu di “sinistra” che si è accodato diligentemente dietro lo slogan di una solidarietà “senza se e senza ma” nei confronti delle azioni di una resistenza palestinese elevata a categoria intangibile da qualsivoglia analisi della sua composizione sociale, degli interessi borghesi che la sostanziano, del significato storico effettivo e dagli spazi storici reali delle sue mosse nel più ampio quadro internazionale [a]. Paradosso in realtà soltanto apparente perché il rapporto tra oggetto, materia del conoscere, e soggetto chiamato a conoscere, non è un dato meccanico tra due entità statiche. L’oggetto del conoscere è materia in divenire ma lo è anche la conoscenza, soggetta alle influenze, ai condizionamenti della situazione storica in cui si esprime, alle mutevoli determinazioni sociali. Tanto l’oggetto della conoscenza quanto il soggetto impegnato a conoscere hanno una storia, sono parte di una storia che li connette attraverso innumerevoli fili e interazioni. E così, nella specifica fase storica, prodotta da processi di riflusso della conflittualità e della vitalità di classe su scala internazionale, di ridimensionamento nella realtà sociale presente delle acquisizioni politiche dell’esperienza di classe, di ripiegamento delle manifestazioni organizzate di coscienza di classe (tra queste e i cicli della lotta di classe non c’è un rapporto meccanicistico e immediato, ma c’è un rapporto comunque profondo), non è inspiegabile che la lotta politica delle minoranze internazionaliste, in riferimento a questioni come quella israelo-palestinese, si concretizzi nella tensione verso il recupero e la riaffermazione di criteri, impostazioni, acquisizioni nei fatti pienamente confermate dal corso storico e ancor più rispondenti al reale, ma divenute più minoritarie, meno diffuse, persino emarginate nel concreto e attuale quadro politico. La lettura di questi testi ci conferma, ancora una volta, come sia possibile, e importante, misurarsi con crisi, situazioni drammatiche e complesse, capaci di suscitare acute tensioni e forti reazioni emotive, come quella determinata dall’irrisolta questione nazionale palestinese, senza abdicare alla propria autonomia di classe, ma, anzi, trovando nella teoria marxista la fonte da cui trarre energie e rigore di pensiero per renderla ancora più salda. Il materiale scaturito dal procedere storico ha fornito abbondante convalida a questa impostazione. Ma oggi adottarla, affermarla, difenderla, significa spesso andare avanti ancor più controcorrente di ieri. È uno dei compiti più gravosi dei rivoluzionari nella fase attuale, degli internazionalisti che – proprio in quanto tali – non sono (o dicono di essere) internazionalisti solo nell’intervallo tra una guerra e l’altra, tra una chiamata alle armi e l’altra da parte delle varie centrali imperialistiche, delle borghesie e dei loro Stati.

In questo articolo non intendiamo discutere della questione nazionale in generale, né sviluppare l’argomento partendo dai principi fondamentali. Il nostro punto di partenza generale è la posizione marxista rivoluzionaria sulla questione nazionale. Inoltre, ci occupiamo di tale questione esclusivamente nella misura in cui essa è collegata alla problematica della rivoluzione socialista araba; il nostro interesse principale è l’impatto della questione nazionale sul movimento rivoluzionario nel Mashreq (Oriente arabo)[1]. L’Oriente arabo, infatti, non ha uno, ma diversi problemi nazionali intrecciati.
Innanzitutto, c’è il problema nazionale degli arabi stessi, che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione di quell’area. A questi si aggiungono i problemi delle varie nazionalità non arabe che vivono in quell’area.
Cominciamo ad analizzare il problema nazionale della maggioranza – la nazionalità araba. Solo una piccola parte di questa nazionalità è attualmente soggetta ad una diretta dominazione e oppressione straniera: gli arabi palestinesi, che vivono sotto l’occupazione israeliana o sono esiliati da Israele. Torneremo più avanti su questo aspetto del problema, che è di grandissima importanza politica anche se coinvolge direttamente solamente una piccola parte della nazionalità araba. Con la suddetta eccezione, il Mashreq ha raggiunto l’indipendenza politica – ma in condizioni di estrema balcanizzazione. Il problema nazionale della nazionalità araba è quindi principalmente quello dell’unificazione nazionale.
L’unificazione nazionale è necessaria non solo perché gli arabi del Mashreq condividono una lunga storia comune, una lingua ed un patrimonio culturale. È necessaria soprattutto perché l’attuale frammentazione politica del Mashreq costituisce un enorme ostacolo allo sviluppo delle forze produttive e facilita lo sfruttamento e la dominazione imperialista. Infatti, l’Oriente arabo è stato in primo luogo balcanizzato dalle potenze imperialiste nel loro stesso interesse. Spartendosi la regione tra di loro, esse hanno potuto dominare più facilmente ogni parte separatamente ed usare una parte contro l’altra. Ma dal punto di vista dello sviluppo economico tale frammentazione rappresenta un ostacolo, perché i vari bacini sono reciprocamente complementari, ognuno manca di ciò che gli altri possiedono in abbondanza. La principale ricchezza naturale della regione è il petrolio. Ma la maggior parte del petrolio è concentrata in ministati piccoli e arretrati, con popolazioni ridotte (persino la Libia, che sembra vasta sulla carta geografica, è davvero piccola: la maggior parte è un deserto inabitabile e la sua popolazione è di circa 1,5 milioni di abitanti. Lo stesso vale per l’Arabia Saudita: sebbene la sua popolazione sia di circa 6 milioni di abitanti, si trova in un Paese grande più di quattro volte la Francia). Questi Stati petroliferi sono le zone più arretrate della regione e non hanno un’economia che non sia quella del petrolio. Le enormi entrate petrolifere sono spartite tra l’imperialismo e una piccola cricca al potere che spende la sua parte in lussi sfarzosi. A malapena un centesimo di questa favolosa ricchezza viene investito nella costruzione dell’economia locale (ciò che gli sceicchi del petrolio investono, non lo fanno a livello locale, ma in Occidente). Quando infine arriverà il momento in cui le riserve di petrolio saranno esaurite, gli Stati petroliferi rimarranno senza alcun tipo di economia produttiva, come un’oasi la cui sorgente si sia prosciugata. Tutte le ricchezze estratte nel frattempo saranno andate sprecate per quanto riguarda l’economia regionale. D’altra parte, Paesi come l’Egitto e la Siria sono costretti, per sviluppare la loro economia, a contrarre enormi debiti con l’estero: un’amara ironia, se si considera che i profitti annuali del petrolio sarebbero bastati a finanziare la costruzione di tre dighe di Assuan. Una complementarità simile esiste anche in termini di disponibilità di terre coltivabili in un Paese arabo e di un’eccedenza di popolazione rurale in un altro.
Tutti questi fattori storici, culturali ed economici si riflettono vividamente nella coscienza delle masse arabe in tutta la regione. L’aspirazione all’unificazione nazionale araba è una delle idee più radicate nella mente di queste masse. Ma l’unificazione nazionale araba è impossibile senza una lotta per rovesciare la dominazione imperialista, che è la causa principale dell’attuale balcanizzazione. Un’autentica lotta antimperialista significa anche lotta contro le classi dominanti dei Paesi arabi.
L’indipendenza politica dei Paesi arabi non è stata raggiunta grazie ad una rivoluzione popolare vittoriosa, ma grazie alle rivalità inter-imperialiste e al compromesso tra le potenze imperialiste e le classi dominanti locali. Come risultato di questo compromesso, le classi dominanti locali hanno ottenuto la massima concessione che potevano ottenere dall’imperialismo. Il dominio politico diretto straniero è terminato ed è stato sostituito da un accordo neocolonialista, che consiste in un’alleanza tra l’imperialismo e le classi dominanti locali, in cui queste ultime sono diventate soci di minoranza nello sfruttamento delle masse lavoratrici della regione. Entrambe le parti sono interessate a mantenere questa alleanza, poiché temono una rivoluzione socialista che metterebbe fine ai loro profitti e privilegi. Quindi sia l’imperialismo che i suoi partner locali hanno interesse a mantenere lo status quo e sono pronti a difenderlo con le unghie e con i denti.
Le classi dominanti locali hanno anche sviluppato i propri interessi economici localistici, quelli di un Paese in competizione con quelli di un altro. Questa rivalità economica ha portato a contraddizioni e conflitti politici, incoraggiati dall’imperialismo. Tutti questi conflitti economici e politici, oltre al fatto che l’unificazione nazionale richiede una lotta antimperialista e una mobilitazione delle masse, fanno sì che le classi dominanti locali non solo non siano in grado di raggiungere l’unificazione nazionale, ma che anzi vi si oppongano, pur continuando ad invocarla a parole per ingannare le masse. Ne consegue che l’unificazione nazionale – il principale problema nazionale degli arabi del Mashreq – non può essere raggiunta senza il rovesciamento delle attuali classi dominanti, ossia senza una rivoluzione socialista.
In Europa, la soluzione del problema nazionale era parte integrante dei compiti della rivoluzione borghese. Ma nel Terzo Mondo, le classi proprietarie locali si sono dimostrate incapaci di portare avanti una rivoluzione democratico-borghese. Pertanto, i compiti incompiuti di tale rivoluzione sono stati lasciati al proletariato affinché li assolva in una rivoluzione socialista. La prossima rivoluzione nell’Oriente arabo non potrà essere nazional-democratica, ma esclusivamente socialista, guidata dalla classe operaia e basata sull’alleanza con i contadini. O una rivoluzione socialista proletaria, o nessuna rivoluzione.
Per la natura stessa dei suoi compiti, questa rivoluzione socialista può essere concepita soltanto come una rivoluzione dell’intero Mashreq. Ciò non significa che essa debba avvenire simultaneamente in tutte le parti della regione, ma che, anche se inizia in una parte della regione, deve essere condotta sotto la bandiera di una rivoluzione panaraba, perché il suo obiettivo politico immediato sarà quello di stabilire un Mashreq socialista unito. Inoltre, una rivoluzione in un paese arabo attirerà l’immediato intervento delle classi dominanti dell’intera regione, sostenute dall’imperialismo (non si tratta di una semplice previsione teorica: nel patto che istituisce la cosiddetta confederazione tra Siria, Egitto e Libia c’è una clausola esplicita in tal senso). In queste circostanze ci possono essere solo due esiti possibili: o una rivoluzione vittoriosa in tutta l’area, o una repressione della rivoluzione ovunque essa abbia avuto inizio.
La rivoluzione nel Mashreq è quindi necessariamente una e indivisibile – non può avere una fase preliminare separata e nazional-democratica, e non può essere vittoriosa in ogni paese separatamente. Il suo risultato immediato deve essere l’istituzione di un Mashreq socialista unito.
La lotta palestinese
Gli arabi palestinesi sono l’unica parte della nazionalità araba che è sotto il diretto dominio straniero. Il movimento di resistenza armata palestinese che si è sviluppato dopo la guerra del 1967 considerava il proprio compito limitato alla sola Palestina; si considerava un movimento di liberazione nazionale dei soli palestinesi. Persino i gruppi di sinistra palestinesi che sostenevano l’idea di una rivoluzione socialista la relegavano ad una seconda fase separata.
All’epoca criticammo questa tendenza e ne segnalammo i pericoli. In un articolo intitolato La lotta in Palestina deve portare alla rivoluzione araba, pubblicato su Black Dwarf (14 giugno 1969), dicevamo:
L’equilibrio delle forze, così come le considerazioni teoriche, mostrano l’impossibilità di confinare la lotta in un solo Paese. Qual è l’equilibrio delle forze? Il popolo palestinese sta combattendo una battaglia in cui si confronta con il sionismo, che è sostenuto dall’imperialismo; alle spalle è minacciato dai regimi arabi e dalla reazione araba, anch’essa sostenuta dall’imperialismo. Finché l’imperialismo avrà un interesse reale in Medio Oriente, difficilmente ritirerà il suo sostegno al sionismo, suo alleato naturale, e permetterà il suo rovesciamento; lo difenderà fino all’ultima goccia di petrolio arabo. D’altra parte, gli interessi e il dominio imperialista nella regione non possono essere infranti senza rovesciare i soci di minoranza dello sfruttamento imperialista, le classi dominanti del mondo arabo. La conclusione che si deve trarre non è che il popolo palestinese debba aspettare tranquillamente che la dominazione imperialista venga rovesciata in tutta la regione, ma che esso deve unirsi ad una lotta più ampia per la liberazione politica e sociale di tutto il Medio Oriente… La formula che si limita alla sola Palestina, nonostante la sua apparenza rivoluzionaria, deriva da un atteggiamento riformista che cerca soluzioni parziali, nel quadro delle condizioni attualmente esistenti nella regione. In realtà, le soluzioni parziali possono essere attuate solo attraverso un compromesso con l’imperialismo e il sionismo.
Nello stesso articolo abbiamo sottolineato perché i governi arabi hanno incoraggiato l’atteggiamento prevalente tra i gruppi palestinesi, secondo cui essi dovevano limitare la loro lotta alle sole questioni palestinesi:
La stessa mobilitazione delle masse nei Paesi arabi – anche se soltanto per la causa palestinese – minaccia i regimi esistenti. Questi regimi vogliono quindi isolare la lotta palestinese e lasciarla interamente ai palestinesi. I governi arabi – sia reazionari che “progressisti” – stanno cercando di comprare la stabilità dei loro regimi pagando un riscatto alle organizzazioni palestinesi. Inoltre, i governi vogliono usare questi aiuti finanziari per dirigere la lotta palestinese lungo linee per loro politicamente convenienti, per manipolarla e utilizzarla soltanto come mezzo di contrattazione per una soluzione politica accettabile per loro… Le quattro grandi potenze si stanno riunendo per raggiungere una soluzione concordata che sarà poi imposta alla regione. Se i governi arabi raggiungeranno il loro obiettivo, attraverso questa soluzione, saranno disposti ad abbandonare i palestinesi e persino a partecipare attivamente alla liquidazione politica e fisica del movimento palestinese. Le quattro potenze probabilmente insisteranno su questo punto come condizione per una soluzione politica.
Questa analisi e prognosi è stata confermata alla lettera dagli eventi successivi, in particolare dallo smantellamento delle forze guerrigliere in Giordania da parte del regime hashemita nel settembre 1970, con la complicità degli altri regimi arabi e il sostegno dell’imperialismo e di Israele. Non possiamo che ribadire la conclusione che avevamo tratto in quell’articolo. Il problema palestinese può essere risolto solo attraverso una rivoluzione socialista panaraba e nel quadro di un Oriente arabo socialista unito.
Il problema della nazione israeliana
Oltre al problema nazionale degli arabi, esiste anche il problema delle comunità nazionali non arabe che vivono nel Mashreq: i curdi in Iraq, i sud-sudanesi e gli ebrei israeliani. Anche la soluzione di questo problema rientra tra i compiti della prossima rivoluzione socialista araba. Dovrebbe quindi essere considerata nel contesto dell’Oriente arabo socialista unito che verrà istituito da tale rivoluzione.
Per quanto riguarda i curdi e i sud-sudanesi, c’è un ampio consenso in tutta la sinistra araba sul fatto che a questi, in quanto nazionalità oppresse, debba essere concesso il diritto all’autodeterminazione. Il caso su cui non c’è questo accordo è quello degli ebrei israeliani. I principali argomenti contro la concessione del diritto all’autodeterminazione sono: (a) che essi non sono una nazione e (b) che, anche se sono una nazione, sono una nazione oppressiva. A volte viene anche sostenuto che concedere loro il diritto all’autodeterminazione significa accettare il sionismo e riconoscere lo Stato di Israele.
L’idea che gli ebrei israeliani non costituiscano una nazione è un mito, un pio desiderio basato sulla mancanza di familiarità con i fatti reali. In realtà, essi soddisfano tutti i criteri generalmente accettati per definire una nazione. In primo luogo, vivono concentrati su un territorio continuo. È vero che hanno ottenuto questo territorio ingiustamente, attraverso un processo di colonizzazione a spese di un altro popolo. Ma ci sono molte altre nazioni che si sono sviluppate come tali su un territorio conquistato ad altri. Si possono, e si devono, condannare tali depredazioni, ma i giudizi di valore sono irrilevanti per la questione oggettiva della negazione della nazionalità.
In secondo luogo, hanno una lingua comune, l’ebraico. È vero che l’ebraico è stato per secoli una lingua morta ed è stato fatto rivivere artificialmente per motivi politici. Ma il risultato oggettivo è comunque che gli ebrei israeliani hanno l’ebraico come lingua comune, che usano sia nella letteratura che nella vita quotidiana. In questa lingua hanno sviluppato una nuova cultura che è piuttosto specifica e diversa dalle culture delle varie comunità ebraiche in Oriente o in Occidente.
In terzo luogo, la comunità ebraica israeliana ha una propria struttura socio-economica comune, con una propria differenziazione di classe, come in altre società capitalistiche. Il fatto che l’economia israeliana sia pesantemente sovvenzionata dall’imperialismo non cambia il fatto fondamentale che il sistema socio-economico israeliano esiste come entità reale e specifica.
Infine, tutti questi fattori hanno contribuito a creare una coscienza nazionale israeliana. È vero che l’ideologia sionista ha favorito la formazione di questa coscienza promuovendo artificialmente una sintetica “coscienza nazionale ebraica”, che dovrebbe abbracciare non solo gli ebrei israeliani ma tutti gli ebrei del mondo. I mezzi utilizzati dal sionismo sono stati autocontraddittori. Il sionismo ha fatto rivivere l’ebraico per favorire l’attaccamento delle varie comunità ebraiche tra loro e alla loro storia antica. Ma poiché questa rinascita è riuscita solo in Palestina, il risultato effettivo è stato quello di recidere i legami culturali degli ebrei israeliani con le comunità ebraiche dei loro diversi luoghi d’origine. Allo stesso modo, per incoraggiare l’immigrazione di ebrei in Palestina, il sionismo ha lottato contro la cultura e la mentalità delle comunità ebraiche della diaspora; anche in questo ha contribuito a creare una cultura ed una mentalità israeliane separate. Ma poiché l’obiettivo del sionismo è quello di riunire tutti gli ebrei in Israele e poiché ha bisogno dell’aiuto materiale e morale dell’ebraismo mondiale, il sionismo fa al contempo del suo meglio per combattere il sentimento di separatezza degli ebrei israeliani e per rafforzare il loro sentimento di identità con tutti gli ebrei del mondo. Così, sotto la pressione dell’ideologia sionista da un lato e l’influenza delle loro reali condizioni materiali dall’altro, gli ebrei israeliani si trovano in un conflitto psicologico tra una “coscienza nazionale” sionista panebraica e una coscienza nazionale israeliana. Quando il sionismo sarà sconfitto, gli ebrei israeliani non perderanno interamente la loro coscienza nazionale; mentre la loro “coscienza nazionale” sintetica panebraica tenderà ad appassire, la loro specifica coscienza nazionale israeliana tenderà al contrario a rafforzarsi.
A volte si sostiene che gli ebrei israeliani non possono essere una nazione, poiché c’è un flusso costante di immigrazione in Israele, cosicché in ogni momento una parte considerevole degli ebrei è costituita da nuovi arrivati, con la loro lingua, cultura, ecc. Ma in questo gli ebrei israeliani non sono diversi da qualsiasi altra nazione creata da coloni immigrati. In tutti questi casi, una volta cristallizzato il carattere nazionale dei vecchi coloni, i nuovi immigrati sono stati presto assimilati. Non è stato necessario fermare l’immigrazione di massa prima di creare una nazione americana.
Israele e la rivoluzione socialista araba
Per quanto riguarda l’argomento (b), è vero che è ridicolo parlare di concedere il diritto all’autodeterminazione ad una nazione oppressiva. Una nazione oppressiva non ha alcun bisogno di vedersi riconosciuto tale diritto: non solo essa se ne è appropriata, ma lo sta negando ad altri!
È chiaro che il diritto all’autodeterminazione ha senso solo nel caso di una nazione a cui venga negato, o rischi di essere negato, tale diritto.
Attualmente, gli ebrei israeliani sono una nazione oppressiva. Ciò è dovuto ad alcune condizioni: il dominio del sionismo, i suoi legami con l’imperialismo, il ruolo aggressivo e colonizzatore che sta svolgendo nel Mashreq. Ma ciò di cui si discute qui non è il diritto all’autodeterminazione degli ebrei israeliani ora, nel contesto attuale. Ciò che è in discussione è il programma della rivoluzione araba socialista. Una rivoluzione socialista araba vittoriosa implica il rovesciamento del sionismo e dell’intera struttura statale sionista, insieme alla liquidazione della dominazione imperialista nel Mashreq. In tali circostanze gli ebrei israeliani non rimarrebbero una nazione oppressiva, ma diventerebbero una piccola minoranza nazionale nell’Oriente arabo. La questione che solleviamo, e che tutti i rivoluzionari della regione devono sollevare, è come trattare questa minoranza nazionale.
Ci sono solo tre possibilità: l’espulsione dalla regione, l’annessione forzata o, infine, la concessione del diritto all’autodeterminazione. Come socialisti, siamo totalmente contrari alla prima e alla seconda possibilità. Rimane solo la terza possibilità: l’autodeterminazione. Negare loro questo diritto li ridurrebbe di per sé allo status di nazionalità oppressa, e il mantenimento di uno Stato proletario non è compatibile con l’oppressione delle minoranze nazionali.
Va sottolineato che lo status di oppresso o di oppressore non è immutabile; essere oppressi non garantisce di non diventare oppressori. Gli ebrei sono stati oppressi, ma coloro che sono immigrati in Palestina sono diventati parte dell’oppressione sionista. Allo stesso modo gli arabi, che ora sono oppressi, negando il diritto all’autodeterminazione degli ebrei israeliani diventerebbero essi stessi oppressori.
Deve essere ben chiaro che l’autodeterminazione non significa automaticamente separazione. Ciò che significa è che la decisione di separarsi o di rimanere nello stesso Stato deve essere presa dalla nazionalità minoritaria, e non imposta dalla maggioranza. Nel caso specifico degli ebrei israeliani, non raccomandiamo uno Stato ebraico separato dall’unione araba socialista. Un tale Stato separato non sarebbe infatti sostenibile economicamente, militarmente o politicamente. Se Israele è esistito finora, è solo grazie al sostegno imperialista. Liberati dal sionismo e dall’imperialismo, gli ebrei israeliani non avranno altra alternativa se non quella di integrarsi (conservando solo un certo grado di autonomia) nell’unione socialista del Mashreq. A nostro avviso, però, le possibilità di successo di un’integrazione di questo tipo aumenteranno notevolmente se la decisione in merito sarà lasciata agli stessi ebrei israeliani. Al contrario, negare loro il diritto all’autodeterminazione tenderà a rafforzare il loro separatismo e a creare il problema di una minoranza nazionale oppressa che lotta per la separazione. Il compito di lottare per l’integrazione spetta in primo luogo ai rivoluzionari della minoranza nazionale. I rivoluzionari appartenenti alla maggioranza nazionale non devono cercare di imporre una decisione alla minoranza.
La nostra posizione non è astratta, non considera il problema nazionale in sé, ma è completamente determinata dalla nostra comprensione della strategia della rivoluzione socialista nell’Oriente arabo. L’inclusione del diritto all’autodeterminazione degli ebrei israeliani nel programma della rivoluzione aiuterà il corso di questa rivoluzione. Presenta alle masse israeliane un’alternativa al sionismo e permette quindi di attirare settori di queste masse dalla parte della rivoluzione. È vero che non è impossibile che la rivoluzione socialista trionfi nel Mashreq anche senza il sostegno di una parte delle masse israeliane. Ma senza tale sostegno, il corso della rivoluzione sarà certamente molto più difficile e sanguinoso. Negare loro il diritto all’autodeterminazione spingerà tutti gli ebrei israeliani dalla parte della controrivoluzione: combatteranno fino alla fine perché non vedranno alcuna alternativa accettabile al sionismo.
Infine, concedere il diritto all’autodeterminazione agli ebrei israeliani significa forse accettare il sionismo e riconoscere Israele? Al contrario, significa esattamente l’opposto. Tale diritto potrà essere concesso, avrà senso, solo quando il sionismo e l’attuale Stato israeliano saranno abbattuti. Ma che dire dei confini entro i quali gli ebrei israeliani potranno esercitare il loro diritto all’autodeterminazione? E questo diritto non è in conflitto con i diritti dei rifugiati arabi palestinesi? Le risposte a queste due domande sono interconnesse. Naturalmente, il diritto degli ebrei israeliani all’autodeterminazione non deve violare il diritto degli arabi palestinesi al rimpatrio e alla riabilitazione. Ma anche dopo il loro rimpatrio e la loro riabilitazione, ci sarà ancora un territorio continuo abitato dalla stragrande maggioranza degli ebrei israeliani. In quel territorio essi eserciteranno il diritto all’autodeterminazione. Il diritto all’autodeterminazione non ha nulla a che vedere con i confini di Israele o con qualsiasi altro confine che possa essere tracciato sulla mappa in questo momento.
NOTE
[a] È di poche ore fa la pubblicazione di un’intervista ad Aldo Milani, coordinatore nazionale del S.I. Cobas, nella quale si afferma a chiare lettere che occorre «…dare tutto l’appoggio possibile alla lotta delle masse palestinesi, indipendentemente da chi attualmente ne egemonizza la direzione politica» e che «Questa scelta strategica di aperta e piena solidarietà non equivale, però, a ritenere ininfluente chi e come dirige tale lotta». Prescindendo dalla profonda e irrisolvibile contraddittorietà dei concetti espressi – che nessun eclettismo spacciato per “dialettica” può camuffare – è evidente che l’intervento su questo tema di una figura che rappresenta molto nella storia del S.I. Cobas ha il sapore di una pretesa di scomunica ufficiale nei confronti delle poche voci internazionaliste che, malgrado i rapporti di forza sfavorevoli, continuano instancabilmente a mettere a nudo cattive coscienze e impotenza teorica. Alla rinnovata solidarietà nei confronti dei lavoratori iscritti al S.I. Cobas ed alle loro lotte – che in quanto tali costituiscono lotte della nostra classe, sul terreno delle rivendicazioni della nostra classe, e che dunque possono essere distinte dalla loro direzione politica più o meno opportunista – non possiamo non collegare una doverosa, aperta e per nulla timida critica internazionalista alle posizioni politiche espresse dalla sua direzione. Degli uomini (o delle donne) “illustri”, quali che possano esser state le loro passate benemerenze nel movimento operaio, alle soggettività marxiste deve o dovrebbe sempre interessare il giusto – ovvero molto poco. Nella politica rivoluzionaria non esistono crediti illimitati o rendite di posizione, e i “miti” o i “culti” di vario genere possono tenerseli coloro che li coltivano. Cfr. https://pungolorosso.wordpress.com/2023/11/09/il-si-cobas-sciopera-venerdi-17-novembre-a-sostegno-del-popolo-palestinese-per-fermare-il-genocidio-a-gaza-nostra-intervista-al-compagno-aldo-milani-coordinatore-nazionale-del-si-cobas/.
[1] Per “Oriente arabo” o “Mashreq” si intende il mondo di lingua araba a est della Libia, cioè il vecchio Mashreq storico più l’Egitto.
