
Inauguriamo questa nuova rubrica del nostro sito e della rivista Prospettiva Marxista (numero 118, maggio 2024) con la prima di una numerosa serie di “voci” il cui contenuto ideologico borghese ci sforzeremo di demistificare, non senza una necessaria dose di ironia, in chiave marxista.
Sostantivo maschile singolare (plurale: antifascismi); sillabazione: an | ti | fa | scì | smo; pronuncia: IPA: /aŋ.ti.faˈʃi.zmo/; etimologia: dalla combinazione del prefisso anti-, dal greco antico ἀντί (antì), contro, e l’italiano fascismo, collegato al simbolo dei fasci littori della Repubblica e dell’Impero romano.
Ideologia borghese, che, inquadrando il proletariato sotto il proprio stendardo nell’ultima guerra imperialistica mondiale, lo ha distolto dall’abbattimento rivoluzionario del capitalismo e dei suoi Stati, quale ne fosse la forma politica, prescrivendogli un diverso dosaggio tra scheda elettorale e manganello. «Fascismo, a. ed a. di classe rappresentano le posizioni che legano il proletariato e preparano la guerra di domani» (Prometeo, 23.07.1933).
Obiettivo intermedio, penultima stazione del metrò della storia, annunciata al proletariato in lotta dal controllore stalinista prima del “fine corsa” della rivoluzione socialista a cui si giungerà, immancabilmente, infallibilmente, «prima o poi» ma… più poi che prima e più mai che poi. «Il proporre tali soluzioni [proprie della rivoluzione socialista], risolvendosi in una frattura del fronte antifascista, sarebbe contrario agli interessi nazionali…» (Gestione nazionale, l’Unità, 11.05.1945).
Corollario concettuale del violento approdo alla moderna democrazia imperialista da parte di quelle borghesie nazionali che, appena rinfrancatesi dalla loro “emancipazione capitalistica” si trovarono, a ballo imperialista della sedia già iniziato, a farsi pestare i piedi da un movimento operaio dal ritmo decisamente sostenuto. Borghesie incalzate dai potenti fiati della lotta di classe – diretti da orchestrali che non conoscevano l’aria vivace della rivoluzione proletaria o che molto semplicemente seguivano un’altra partitura – e dalle rombanti percussioni del confronto tra potenze nell’accelerare un cambio di costume – con relative diete – dalla stretta e lisa marsina della democrazia liberale, censitaria, strutturalmente inadeguata nel promuovere e mobilitare attivamente la massa degli strati intermedi, fino al confortevole smoking di quella imperialista, passando per la marziale ed allergizzante camicia in tinta unita della variante imperfetta di quest’ultima: il fascismo, con la sua partecipazione politica, ancorché passiva, di masse rigidamente inquadrate. La democrazia sarebbe dunque fascismo? Troppo e insieme troppo poco. Al pari di quelle formule apodittiche dall’intonazione trés chic che però sovente rassomigliano a pigre banalità che si pretendono sbrigativamente risolutive, del tipo: «è tutto un “magna-magna”». O come quei trucchetti sul genere: «Quell’impedita non sa guidare! Ma caro, ti sbagli, c’è un uomo al volante! Allora a distrarlo dev’essere quell’impedita che gli sta accanto!» di chi, convinto che riconoscere e correggere l’errore sia meno materialistico che camuffarlo sotto il rosso e tondo naso del clown, non sa rinunciare allo smentito pronostico che il fascismo fosse l’abito talare a cui il mondo borghese avrebbe fatto voto irrevocabile. La democrazia imperialista compiuta, di cui il fascismo – laddove si rivelò necessario – non rappresentò che un’approssimazione, ha amalgamato i pregi della variante transitoria con il superamento dei suoi “difettucci”, confermando la vecchia tesi marxista secondo cui la democrazia non è niente di meno che il miglior involucro della dittatura del capitale. Nell’ultimo secolo di guerre e rivoluzioni, gli Stati delle potenze democratiche hanno ampiamente esibito il loro know-how e la loro efficiency nella repressione violenta del proletariato senza sostanzialmente scalfire il proprio assetto istituzionale, nel quale centralismo e autoritarismo convivono amabilmente con la più vasta “libertà civica”, ammettendo e all’occorrenza facendo largo impiego di leggi eccezionali, di gabinetti di guerra, di stati d’emergenza, di leggi marziali, di esecutivi ristretti, di restrizioni delle libertà politiche, di sospensioni dei diritti civili, ecc.
Atto di abiura che la “sinistra” borghese pretende dalla “destra” con la segreta speranza che questa non vi si pieghi mai, onde mantenere il presidio di un’estrema ridotta di differenziazione, e a cui la destra nicchia a risolversi nella forma – «ci sia almeno concesso di coltivare le parafilie ideologiche della nostra pubertà politica in nostalgica e onanistica sordina…» – ritenendo più che sufficiente la pluridecennale e inappuntabile pratica di democratismo imperialista, di fatto antifascista, e reclamando anzi che sia la sinistra a profondersi in atti di contrizione anticomunista – «L’a. è sicuramente un valore, l’ho detto più volte. Ma lo è allo stesso modo anche l’anticomunismo» (G. Sangiuliano, 25.04.2024) – riconoscimento, peraltro, estremamente facile a chiedersi ed ottenersi, a chi comunista non è mai stato.
Tipologia di opposizione al fascismo che l’intellettualità borghese di sinistra può, senza patemi, elogiare e commemorare in maniera diversificata a seconda delle fasi del fascismo stesso. C’è un a. per il fascismo in ascesa (a sua volta suddiviso in violento e nonviolento), uno per il fascismo regime e un altro per il fascismo come spauracchio. In tutte le fasi è stato necessario espungere dall’equazione: violenza = fascismo la variabile dell’“esigenza capitalistica” e la variabile “Stato borghese”, senza il quale la violenza fascista avrebbe mancato di struttura, protezione e propulsione. Il primo a. viene elogiato e commemorato, ad esempio, nella tragica figura di Giacomo Matteotti, di cui ricorre il centenario del brutale assassinio per mano fascista, in quanto propugnatore socialista e riformista di un’opposizione “nonviolenta” al fascismo. Opposizione alla quale Mussolini – che ai comunisti, dei quali ben conosceva il programma, non aveva invece nulla da dire se non: «fatevi sotto, se l’osate» – rispondeva: «appurato che non avete intenzione di abbatterci, non potete far altro che trattare con noi». Ipotesi nemmeno eccessivamente peregrina se per losche e assai poco patriottiche questioni di greggio e di casinò non ci fosse scappato… il martire. Sempre degno di cordoglio è il martirio come scelta personale. Politicamente eccepibile quando assurge a programma di partito per il movimento operaio, scandito dai «porgere l’altra guancia» alle carezze del manganello, dagli «occorre il coraggio della viltà» e altre oscenità di questo genere. Spiacenti per Matteotti ma ancor più per il proletariato d’Italia, che fu trascinato al martirio quando aveva bisogno di indicazioni di lotta da coloro che per anni aveva fallacemente considerato i propri rappresentanti politici. «Noi ci domandiamo se l’a. dannunziano consista non nel condurre una azione attiva contro il fascismo, ma solo nello stigmatizzare che il movimento degli “artefici della vittoria” si sia incanalato nella violenza partigiana e antiproletaria, per dedurne solo uno sterile invito a tornare indietro da questa via e tendere la mano a tutti gli “italiani”. Questo sarebbe troppo poco, anche tenendo per escluso che sia una cosciente insidia» (A. Bordiga, Il movimento dannunziano, 1924). La variante violenta del primo antifascismo, invece, è quella apprezzata dall’estrema sinistra borghese, massimalista, in quanto, più il proletariato veniva relegato alla contrapposizione (anche “arditamente” armata) contro la sola violenza fascista – perseguendo il sublime obiettivo del “ritorno alla pacifica competizione politica democratica” – più lo Stato borghese rimaneva escluso dalla mischia, ma certamente non au-dessus de la mêlée, anzi, più partecipe che mai col crescere di una violenza proletaria non contro di esso diretta… con risultati universalmente noti. Il secondo antifascismo è invece quello che ha trionfato realmente. L’antifascismo ben equipaggiato degli eserciti delle potenze democratiche, l’antifascismo del burro e dei cannoni, dei tanks e dei gas-mostarda, dei sommergibili e dei caccia-bombardieri. L’antifascismo che si misura in kilotoni. Il terzo antifascismo è quello del «bisogna arrestare la deriva autoritaria», beninteso, con una raffica di croci d’inchiostro al riparo di una cabina elettorale. L’antifascismo che lancia l’allarme mentre la borghesia dorme sonni tranquilli, in assenza di lotte proletarie generalizzate che ha comunque imparato da tempo a fronteggiare con asettica efferatezza e senza posticipare le scadenze elettorali di un solo minuto secondo.
Parolina civetta tra le tante, ma tanto cara ad una sinistra che si pretende “rivoluzionaria” e a cui sembra sufficiente anteporre l’aggettivo “vero” o “di classe” alle categorie più disparate per mutarne la sostanza. Una sinistra che offre il desolante spettacolo di affannosi quanto vani tentativi di apporre un sigillo di proprietà intellettuale a marchi registrati da forze ben altrimenti solide delle sue. Una sinistra che vorrebbe essere tutto: “vero” antifascismo, “vero” ambientalismo, “vero” femminismo, “vera” paladina delle nazionalità oppresse ecc., pur di “acchiappare” spiccioli di consenso piccolo-borghese con poco sforzo e tanta “astuzia tattica”, e che ciò malgrado – o forse conseguentemente – non è nulla. Meno che mai ciò che berciando e saltellando di qua e di là pretende di essere più di ogni altra cosa… comunista, rivoluzionaria, internazionalista. Una sinistra che riesce soltanto a rivelarsi come opportunista e raccogliticcia.
L’antifascismo è ciò che è. Niente di più che antifascismo. Nient’altro che lotta (persino violenta, sissignori) contro una forma di dominio del capitale per rimpiazzarla con un’altra forma di dominio del capitale. Le pretese sul bottino della rappresentanza del “vero” antifascismo, avanzate dai summenzionati “sinistri” in quanto comunisti, bottino che andrebbe in realtà spartito coi liquami dello stalinismo – falso comunismo per quanto vero antifascismo – farebbero ridere di gusto un Turati, un Matteotti, un Gobetti, un Lussu, i fratelli Rosselli, ma anche un Montezemolo od un Massu – tutti antifascisti con le carte (spesso imbrattate del proprio sangue) in perfetta regola nonché anticomunisti. Almeno quanto ne ridono, amaramente, i comunisti, quelli autentici. Quelli che per primi hanno affrontato e restituito i colpi dello squadrismo senza mai dimenticare neanche per un istante che il floscio e maleodorante calzino della “gagliarda gioventù nazionale” era riempito dalle biglie di ferro di quei «distaccamenti speciali di uomini armati» che caratterizzano ogni Stato; quelli che, ben equipaggiati per tutte le stagioni del dominio di classe, non sentono l’urgenza di rubacchiare le usate mutande altrui per coprire le proprie flaccide pudenda ideologiche. I comunisti poi, non sono neanche di quelli che ritengono più “prudente” definirsi in base a ciò contro cui si posizionano, confessando in tal modo una pudica sudditanza verso gli stigmi e i tabù dell’opinione dominante, e forse, al fondo, un’inconscia riserva mentale. Lasciamo ad una classe che è ormai «degna di perire» e che si avvinghia con lucida ferocia alla propria decadenza l’esser contro qualcosa. Contro l’evoluzione sociale, contro il superamento rivoluzionario delle contraddizioni capitalistiche, contro il comunismo. Perché è per il comunismo che noi siamo. Non per un ambiguo antifascismo, ancorché “di classe”, e nemmeno per un anticapitalismo dai contorni assai vaghi.
