
Articolo pubblicato nel n. 119 di Prospettiva Marxista, settembre 2024.
I
Nel corso degli ultimi tre anni, dapprima l’intensificarsi del conflitto in Ucraina nel febbraio 2022 e in seguito il riacutizzarsi delle tensioni in Medio Oriente – con l’attacco del 7 ottobre 2023 in Israele e il massacro di Gaza ancora in corso – hanno potentemente accelerato il processo di delimitazione politica delle soggettività rivoluzionarie che si richiamano con coerenza all’internazionalismo proletario. Nessuno studio libresco dei “classici” del marxismo, nessuna “scuola” teorica avrebbe potuto tracciare in maniera tanto profonda quel solco che la dinamica storica, con le sue brusche e inaspettate accelerazioni, scava inesorabilmente tra chi dimostra di saper difendere i princìpi del comunismo rivoluzionario per mezzo dell’analisi materialistica e dialettica della realtà capitalistica – che di quei princìpi è l’origine e il fulcro – e chi è costretto a rivelare il proprio sostanziale opportunismo piegando formule e distorcendo parole d’ordine svuotate del loro contenuto ad esigenze organizzative e a pretese egemoniche di “movimento” estranee agli interessi della classe operaia.
Se le specificità della guerra dell’imperialismo in Ucraina, unite ad un suo ambiguo quanto strumentale inquadramento come “guerra della NATO contro la Russia di Putin” – formula “biadesiva” elaborata a tavolino con lo scopo di intercettare l’atavico antiamericanismo di tutta una “sinistra” conservando al contempo le apparenze di una ferma opposizione “internazionalista” al “nemico in casa nostra”, che dell’alleanza militare atlantica è parte – hanno permesso all’opportunismo massimalista in fieri di barcamenarsi con una posizione ancora “internazionalista” nelle forme – ma non nel contenuto –, la guerra e l’eccidio di Gaza hanno al contrario strappato brutalmente ogni residua foglia di fico.
Diversamente da alcuni decenni fa, quando l’inconfondibile per quanto a volte inconsapevole matrice ideologica di molti attuali pretesi “internazionalisti”, ovvero lo stalinismo (con tutto il suo armamentario concettuale, il suo lessico e la sua liturgia caratterizzante), esprimeva la convergenza degli interessi della potenza imperialistica russa con quelli delle maggiori frazioni della borghesia italiana, proiettate verso il mercato mediorientale e orientate all’alleanza con le borghesie arabe, oggi non emergono frazioni rilevanti della borghesia italiana che – pur continuando a concludere affari con tutte le borghesie dell’area – manifestino apertamente un orientamento contrapposto ad Israele. Se, all’epoca, le più disparate organizzazioni e movimenti appartenenti a vario titolo alla infestante progenie dello stalinismo (maoismo, castrismo, ecc.) con il loro interventismo “di sinistra” contribuivano al rafforzamento dell’opportunismo in seno al movimento operaio nelle metropoli dell’imperialismo, e dunque al rafforzamento dell’imperialismo stesso, oggi, questi cascami ideologici di una fase tramontata non sono e non hanno ancora un solido referente politico-organizzativo e una consistente frazione borghese di riferimento. Cionondimeno, nel frenetico sforzo di capitalizzare e deviare un’intuitiva simpatia per gli oppressi da parte del proletariato in senso socialsciovinista, si candidano indubbiamente a rappresentare un polo opportunistico, nella misura in cui con l’incedere delle contraddizioni capitalistiche matureranno le condizioni per il riemergere del protagonismo di quella classe operaia della quale, per ora, avvelenano ideologicamente soltanto settori ristretti e periferici.
Elemento caratterizzante dell’opportunismo è la mistificazione del concetto di imperialismo. Una mistificazione che troppo spesso permette all’opportunismo di contaminare anche quelle soggettività politiche richiamantesi sinceramente al marxismo che non hanno però compreso appieno la natura reale dell’imperialismo.
Non si ripeterà mai abbastanza che l’imperialismo non è “colonialismo” e tantomeno “neocolonialismo”, come vorrebbe la vulgata di un terzomondismo contrabbandato per marxismo; non è “una politica” di tutte o solo di alcune potenze; non è l’“aggressività militare” di tutti o solo di alcuni Stati borghesi. L’imperialismo è la fase avanzata ed onnipervasiva del processo di accumulazione capitalistica, è il modo di essere del capitalismo nella sua maturità che permea di sé ogni poro di un mercato che è mondiale.
Colonialismo, capitalismo e imperialismo
Non soltanto l’imperialismo, ma neppure il capitalismo ascendente può essere semplicisticamente identificato con il colonialismo. E questo è tanto più vero quanto le prime potenze coloniali dell’epoca moderna, Spagna e Portogallo, non sperimentarono un clamoroso sviluppo del capitalismo, mentre furono i paesi nei quali il processo disgregativo dei precedenti rapporti di produzione si era manifestato con maggiore rapidità quelli che trassero il maggior vantaggio dallo sfruttamento delle colonie d’oltremare, trasformando queste ultime in potenti leve per l’accumulazione capitalistica originaria.
Anche dopo aver sostanzialmente demolito il modo di produzione feudale, le borghesie europee hanno continuato a beneficiare di una preesistente eredità coloniale e ad estenderla, non senza però mutarne le modalità di sfruttamento in conformità alle nuove esigenze del capitalismo in ascesa. La rapina dell’oro e dell’argento ha ceduto il passo al drenaggio di materie prime per la nascente industria e allo smercio dei prodotti manifatturieri della “madrepatria”; la schiavitù mercantile delle piantagioni ha gradualmente fatto spazio a forme di lavoro semi-libero e in seguito formalmente libero nelle colonie.
Con il procedere dell’accumulazione, le stesse esigenze dello scambio hanno imposto anche ai primi paesi industrializzati l’adozione di metodi di esercizio diretto del potere nelle nuove colonie in cui la penetrazione era stata all’inizio prevalentemente commerciale. Uno degli scopi principali del potere politico diretto del colonialismo capitalista non poteva che essere quello di distruggere violentemente le forme autoctone di produzione prevalentemente indirizzate all’autoconsumo e all’artigianato di villaggio, per creare quella base di consumo e di produzione locale necessaria allo scambio commerciale con la “madrepatria”.
Come ebbe a scrivere Marx all’epoca della Seconda guerra anglo-cinese dell’oppio:
… la struttura economica attuale della società cinese, che poggia sui due pilastri dell’agricoltura minuta e dell’industria domestica, vieta una forte importazione di manufatti stranieri in quel Paese.
Vediamo dunque come l’imposizione del potere statuale della “madrepatria” per distruggere gli antichi rapporti di produzione, lungi dall’essere la causa del lungo periodo di arretratezza che ha caratterizzato alcuni dei paesi colonizzati – come da sempre sostengono i terzomondisti – è stata in realtà un risultato di una preesistente e relativa arretratezza. Il modo di produzione predominante in queste aree, in particolar modo presso le civiltà asiatiche, nelle quali la sovrastruttura statuale centralizzata si limitava ad amministrare grandi opere idrauliche per consentire una produzione agricola suddivisa in comunità isolate tra loro, sostanzialmente immutata e stagnante da millenni e dalla quale il potere centrale traeva un’eccedenza per mezzo di imposte, ha potentemente ostacolato e frenato lo sviluppo locale dei rapporti capitalistici e la formazione di una classe borghese. Il modo di produzione predominante in questi paesi li ha indubbiamente sclerotizzati, rendendoli incapaci di fronteggiare la violenta collisione storica con il dinamico quanto rapace e brutale capitalismo europeo e americano, che, da parte sua, iniziando a sgretolare gli ancestrali rapporti di proprietà, ha permesso – in molti casi per la prima volta – ad elementi delle vecchie caste dominanti e delle burocrazie locali di appropriarsi privatamente della terra in quanto mezzo di produzione, trasformando così questi stessi elementi in alleati di quella colonizzazione da cui traevano profitto.
È stata cura di Marx evidenziare come lo sviluppo plurisecolare del mercato mondiale non si sia verificato in modo lineare ma come invece si sia dipanato in un processo che solo la dialettica materialistica può cogliere nella sua intrinseca contraddittorietà. Nello stesso scritto Marx sottolinea che
… la Cina potrebbe assorbire gradualmente una quantità supplementare di prodotti inglesi e americani, fino a concorrenza degli 8 milioni di sterline ai quali si può, grossomodo, calcolare che ammonti l’attivo della sua bilancia commerciale, se fosse vietato il commercio dell’oppio…[1]
Dunque la stessa merce per produrre la quale l’Inghilterra era arrivata ad affamare l’India, distruggendo la piccola produzione agricola per l’autoconsumo, e per vendere la quale era arrivata a cannoneggiare le fradicie muraglie di un modo di produzione omeostatico al secolare riparo delle quali la Cina si era sottratta al mondo, era diventata un ostacolo per l’ulteriore sviluppo dello scambio capitalistico, in quanto, a detta degli stessi rappresentanti del capitalismo britannico, assorbiva
… tutto l’argento, con grave danno del traffico generale coi cinesi; e thè e seta devono pagare il resto.[2]
Man mano che i rapporti di produzione capitalistici si facevano prepotentemente strada nelle aree arretrate del mondo, iniziavano tuttavia a venir meno quelle stesse basi materiali che avevano consentito al capitalismo europeo di trasformarle in facili prede del colonialismo. Nei paesi dominati muoveva lentamente i suoi primi passi una borghesia commerciale e industriale autoctona, sempre più interessata ad un pieno e libero sviluppo di quei rapporti di produzione che la rendono possibile come classe, e, insieme ad essa, compariva il suo necessario ed antagonistico corrispettivo, l’altro termine di quel rapporto sociale che definisce la borghesia in quanto classe: il proletariato.
Vale la pena di ricordare che il capitalismo, pur traendone beneficio, non si è sviluppato in virtù della presenza di aree precapitalistiche e che la sua esistenza non è quindi condizionata dal loro esaurimento. Per circostanze storiche e geografiche – in parte casuali – che non è possibile approfondire in questa sede ma che costituiscono un dato di fatto inaggirabile, i rapporti capitalistici di produzione si sono sviluppati prima in determinate aree piuttosto che in altre e questa “precedenza” ha permesso alle prime di accelerare lo sviluppo delle proprie forze produttive a detrimento delle seconde, aumentando inizialmente lo squilibrio complessivo.
Tuttavia, è solamente suo malgrado che il capitalismo ha sviluppato le forze produttive, dal momento che il suo unico elemento propulsore è la ricerca del profitto, l’estrazione di plusvalore dal lavoro vivo, che può essere sfruttato in misura e con intensità crescente ponendolo in relazione con una quantità crescente di lavoro morto, di macchine, di tecniche, di procedimenti produttivi. Non avendo il capitalismo come scopo uno sviluppo delle forze produttive equilibrato, in armonia con le esigenze umane, questo stesso sviluppo, condizionato dall’anarchica ricerca del profitto e dalla concorrenza dei capitali, non può che risultare squilibrato, sincopato, deforme. Se questo è stato vero per quanto ha riguardato la storia delle metropoli capitalisticamente mature, lo è stato altrettanto per quel che ha riguardato i paesi dominati, nei quali il capitalismo ha riprodotto i medesimi squilibri e deformità che esso stesso ha attraversato nelle vecchie metropoli, moltiplicandoli e rendendone più difficoltoso il superamento, proprio in virtù della rendita di posizione acquisita.
Nel suo incessante perseguimento del profitto, alla ricerca di materie prime e di sbocchi commerciali, il capitalismo in ascesa, mentre drenava risorse e si avvantaggiava degli scambi ineguali alimentando l’accumulazione nelle metropoli, è stato costretto a creare anche nelle aree arretrate quantomeno le basi di quell’industria moderna necessaria all’estorsione di ulteriore plusvalore direttamente dalla forza lavoro locale, rendendo possibile anche in quelle zone la formazione del proletariato in quanto classe rivoluzionaria.
Il capitalismo ascendente, anche nella sua espressione coloniale, nonostante l’oppressione, la miseria prodotta e la crudeltà “senza veli” esercitata nei paesi dominati, ha svolto indiscutibilmente un ruolo oggettivamente progressivo creando ad un polo del mercato mondiale le basi materiali necessarie al suo stesso superamento a livello globale ed estendendo all’altro polo gli elementi della classe mondiale storicamente incaricata di questo superamento. La maturazione della fase imperialistica, il raggiungimento di un determinato livello di sovraccumulazione del capitale nelle metropoli e la necessità di esportarlo in settori ed in aree nei quali il saggio di profitto consentiva una crescente valorizzazione del capitale stesso, e in cui questa esportazione era ormai tecnicamente possibile, ha rappresentato il segnale della raggiunta formazione di queste basi materiali a livello mondiale. In termini generali ciò non ha altro significato se non quello che le forze produttive sviluppate in un’area del mercato mondiale sono arrivate ad una dimensione tale da imporre loro di straripare potenzialmente in tutte le aree del mercato mondiale stesso. L’imperialismo non è che il raggiungimento di una determinata soglia dell’accumulazione capitalistica in un contesto dato di sviluppo ineguale delle forze produttive al livello mondiale.
Nel 1853, interrogandosi sui futuri risultati della dominazione britannica in India, Marx scriveva:
Tutto ciò che la borghesia inglese potrà essere indotta a fare non emanciperà né migliorerà materialmente le condizioni sociali delle masse, che dipendono non solo dallo sviluppo delle forze produttive, ma dalla loro appropriazione da parte del popolo indiano. Ma ciò che essa non può fare a meno di fare è di gettare le premesse materiali della soluzione dell’uno e dell’altro problema. La borghesia ha mai fatto di più? Ha mai compiuto un passo avanti senza trascinare gli individui e i popoli attraverso il sangue e il sudiciume, la miseria e l’abbrutimento?
Se il capitalismo ascendente, pur lasciandosi dietro una scia di sudiciume, sangue, miseria e abbrutimento, permetteva all’umanità di compiere dei «passi avanti», la fase imperialista del capitalismo suona come la campana a morto che avvisa questo sistema sociale che il suo dovere è compiuto, che ogni ulteriore sviluppo delle forze produttive, accompagnato dagli stessi sudiciume, sangue, miseria e abbrutimento, non è più indispensabile al passaggio ad una superiore forma sociale, al comunismo; che questo sviluppo è limitato, sperequato, lento, unilaterale, deforme, ed è, soprattutto, un ulteriore sviluppo delle contraddizioni del capitalismo – per le quali esiste già una soluzione – e delle sue potenzialità distruttive, che l’umanità potrebbe risparmiarsi.
Nello stesso scritto, Marx prosegue individuando i compiti che la dinamica capitalistica avrebbe assegnato alla classe operaia nei due poli del mercato mondiale contrassegnati da un diverso grado di sviluppo:
Gli indiani non raccoglieranno i frutti degli elementi di una società nuova seminati in mezzo a loro dalla borghesia britannica, finché nella stessa Inghilterra le classi dominanti non saranno abbattute dal proletariato industriale, o finché gli stessi indù non saranno abbastanza forti per scrollarsi di dosso il giogo della dominazione inglese.[3]
Il proletariato delle metropoli da un lato e il proletariato dei paesi dominati dall’altro convergono nella lotta contro il capitalismo mondiale per raccogliere «i frutti degli elementi di una società nuova». Sono qui anticipati a grandi linee i compiti del proletariato rivoluzionario internazionale nell’era dell’imperialismo.
NOTE
[1] K. Marx, Gli effetti del Trattato 1842 sul commercio cino-britannico, 5 ottobre 1858, in K. Marx – F. Engels, India, Cina, Russia, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 182.
[2] K. Marx, Commercio o oppio?, 20 settembre 1858, in K. Marx – F. Engels, India, Cina, Russia, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 170.
[3] K. Marx, I risultati futuri della dominazione britannica in India, 8 agosto 1853, in K. Marx – F. Engels, India, Cina, Russia, Il Saggiatore, Milano 2008, pp. 107-108.
