LA QUESTIONE NAZIONALE E COLONIALE NEL MARXISMO E L’UNIVERSALIZZAZIONE DEL RUOLO REAZIONARIO DELLA BORGHESIA

LA MATURAZIONE IMPERIALISTICA DEL CAPITALISMO E I COMPITI DELL’INTERNAZIONALISMO PROLETARIO – III

Prima parte di un articolo pubblicato nel n. 121 di Prospettiva Marxista, gennaio 2025.


L’appoggio del marxismo alle rivendicazioni nazionali è sempre stato strumentale e condizionato. Strumentalità e condizionalità legate a due problematiche distinte: 1) lo sviluppo delle forze produttive come base materiale per la rivoluzione proletaria e 2) il rapporto tra il proletariato del paese oppresso e quello del paese oppressore, sempre ai fini della rivoluzione proletaria. Due problematiche che la maturazione imperialistica del capitalismo si è incaricata sempre più di scindere.

Abolendo le dogane interne, standardizzando pesi e misure, imponendo un unico sistema monetario, affermando una lingua nazionale, stabilendo un quadro normativo omogeneo dal punto di vista del diritto civile e commerciale, l’unificazione e l’indipendenza nazionale creano le premesse per un’accelerazione dello sviluppo industriale capitalistico e con esso della moderna classe operaia. L’esigenza di sviluppare le forze produttive non è però il solo criterio che consenta di determinare l’esistenza o meno di una questione nazionale.

Già nel 1848, nell’epoca del capitalismo ascendente, Marx ed Engels chiarivano a proposito della Polonia l’indisponibilità dei comunisti a sostenere qualsiasi forza si ponesse sul piano della lotta di liberazione nazionale:

Fra i polacchi i comunisti appoggiano quel partito che fa di una rivoluzione agraria la condizione dell’emancipazione nazionale…[1]

accelerando, con l’emancipazione delle masse contadine polacche da una condizione semiservile, il processo di sviluppo capitalistico e delle moderne classi sociali.

L’appoggio alle rivendicazioni nazionali è dunque sempre stato subordinato alla critica dell’interclassismo dei movimenti nazionalisti e all’inserimento delle questioni nazionali nel quadro complessivo della strategia rivoluzionaria internazionale del proletariato.

Anche in merito alla “questione irlandese”, Marx ed Engels si tennero sempre a debita distanza da metafisiche considerazioni di “giustizia nazionale”. Per essi la liberazione dell’Irlanda – che valutavano realisticamente possibile in base ad una analisi materialistica delle forze sociali in essa presenti – era funzionale alla dinamica della rivoluzione proletaria in quello che era allora il fulcro del sistema capitalistico nel mondo: l’Inghilterra.

L’Inghilterra, essendo la metropoli del capitale, la potenza che ha dominato fino ad oggi il mercato mondiale, è al momento attuale il paese più importante per la rivoluzione dei lavoratori, e inoltre il solo paese nel quale le condizioni materiali per questa rivoluzione abbiano raggiunto un certo grado di maturità. Accelerare la rivoluzione sociale in Inghilterra rappresenta perciò l’obiettivo più importante dell’Associazione internazionale dei lavoratori. L’unico modo per accelerarla è rendere l’Irlanda indipendente.[2]

Il sostegno dei fondatori del socialismo scientifico alle cause nazionali irlandese e polacca è quindi condizionato dallo sviluppo del movimento operaio inglese e, più in generale, di quello europeo e mondiale:

Per accelerare lo sviluppo sociale d’Europa, è necessario operare per la catastrofe dell’Inghilterra ufficiale. A questo fine, bisogna attaccarla in Irlanda. È questa il suo punto vulnerabile. Perduta l’Irlanda, è l’«Impero» britannico a crollare, e la lotta di classe in Inghilterra, fino ad oggi sonnolenta e cronica, assumerà forme acute. Ma l’Inghilterra è la metropoli del landlordismo e del capitalismo in tutto il mondo.[3]

Ma in Marx ed Engels è continuamente presente anche la considerazione delle difficoltà soggettive che l’oppressione nazionale frappone alla solidarietà internazionalista del proletariato. Nel 1882 – dunque in una fase in cui emergevano con sempre maggiore nitidezza i tratti imperialistici del capitalismo – Engels evidenziava come

Ogni contadino e ogni operaio polacco che si risveglia dall’apatia per occuparsi degli interessi generali, si scontra innanzi tutto con l’assoggettamento nazionale; questo è ovunque il primo ostacolo che gli sbarra la strada. Eliminarlo è la condizione fondamentale d’ogni sano e libero sviluppo.[4]

E, d’altro canto, lo stesso Marx, poco più di un decennio prima, aveva tratteggiato il necessario atteggiamento nei confronti dell’oppressione nazionale da parte delle forze rivoluzionarie del paese oppressore, atteggiamento che si poneva nell’ottica del rifiuto di qualsiasi corresponsabilità in tal senso con la propria classe dominante e dell’indebolimento del nemico in casa propria:

…i socialisti russi, allorché operano per spezzare le catene della Polonia, si assumono l’alto compito di annientare il regime militarista: fatto questo essenziale e condizione preliminare per l’emancipazione generale del proletariato.[5]

Quasi si proponesse di fornire una risposta anticipata alle future obiezioni di uno pseudo-marxismo di matrice anarchica ed idealistica, che pretende di cancellare le reali contraddizioni capitalistiche negando, ad esempio, la sopravvivenza di situazioni di oppressione nazionale – e dei problemi ad esse connessi – per non doversi incomodare dello sforzo di applicarvi una soluzione classista e immaginando di “superarle” con frasi ad effetto dalla radicalità puramente apparente, Engels scriveva nel 1872:

Se i membri di una nazione conquistatrice chiedevano alla nazione che avevano conquistato e che continuavano a tener soggiogata di dimenticare le sue specifiche caratteristiche nazionali, di «dimenticare le differenze nazionali» e così via, questo, lungi dall’essere internazionalismo, significava solo chiedere loro di accettare il giogo e tentare di perpetuare sotto il pretesto dell’internazionalismo il dominio del conquistatore.[6]

Dieci anni dopo, a proposito dell’atteggiamento nei confronti delle colonie da parte di una rivoluzione proletaria vittoriosa nelle metropoli, Engels è altrettanto cristallino:

… i paesi semplicemente sottoposti a un dominio e abitati da indigeni, come India, Algeria, i possedimenti olandesi, portoghesi e spagnoli, dovranno essere temporaneamente assunti dal proletariato e guidati il più rapidamente possibile all’indipendenza. Come si svilupperà questo processo è difficile dirlo; forse, anzi con tutta probabilità, l’India farà una rivoluzione, e poiché un proletariato che sta realizzando la propria emancipazione non può condurre una guerra coloniale, glielo si dovrebbe concedere, anche se ciò comporterebbe naturalmente grandi distruzioni, ma cose del genere sono dopo tutto inseparabili da ogni rivoluzione. Lo stesso potrebbe avvenire anche altrove, p. es. in Algeria e in Egitto, e per noi sarebbe sicuramente la cosa migliore. Avremo già abbastanza da fare a casa nostra. […] Una cosa sola è certa: il proletariato vittorioso non può imporre a un popolo straniero nessun tipo di felicità, senza con ciò compromettere la sua stessa vittoria. Ciò naturalmente non esclude in alcun modo le guerre di difesa di vario genere. [corsivi nostri].[7]

Meno di quarant’anni dopo, Lenin esprimerà la stessa sensibilità politica – così estranea a chi concepisce la lotta rivoluzionaria come un gioco di ruolo avulso dalla realtà – affermando che l’eliminazione dei pregiudizi nazionali

…non potrà avvenire che assai lentamente. Ne deriva per il proletariato cosciente e comunista di tutti i paesi l’obbligo di operare con particolare cautela e attenzione nei confronti del sentimento nazionale sopravvissuto a sé stesso nei paesi e nelle popolazioni lungamente asserviti, e nello stesso tempo l’obbligo di fare concessioni allo scopo di eliminare al più presto diffidenze e pregiudizi.[8]

Riflettendo sulla questione dell’autodecisione nazionale nel contesto della “prigione dei popoli” zarista, il rivoluzionario russo ribadirà che quel che deve essere “incondizionato” per i comunisti è il riconoscimento delle condizioni di oppressione nazionale, laddove esistano, e il riconoscimento della lotta contro questa oppressione. Tuttavia, per Lenin, ciò

…non ci impegna affatto ad appoggiare ogni richiesta di autodecisione da parte di una nazione. La socialdemocrazia, quale partito del proletariato, si pone come compito concreto e principale l’appoggio all’autodecisione non dei popoli e delle nazioni, ma del proletariato in ogni nazionalità. Noi dobbiamo tendere sempre e incondizionatamente alla più stretta unione del proletariato di tutte le nazionalità, e solo in singoli casi eccezionali possiamo avanzare e appoggiare attivamente le rivendicazioni che mirano alla creazione di un nuovo Stato classista e alla sostituzione di una più debole unità federativa alla piena unità politica dello Stato ecc.[9]

Prosegue Lenin:

… il marxista non può accettare la rivendicazione dell’indipendenza nazionale se non in maniera condizionata [corsivo nostro].[10]

E ribadisce, citando un Kautsky ancora marxista:

L’indipendenza nazionale non è così inscindibilmente legata agli interessi di classe del proletariato in lotta che si debba tendere ad essa incondizionatamente, in ogni circostanza.[11]

Ce n’è abbastanza per sconfessare qualsiasi pretesa di attinenza con il marxismo da parte degli attuali sostenitori “incondizionati” di “resistenze” nazionali varie ed eventuali, e per affermare, senza timore di smentite, che solo chi non conosce l’elaborazione teorica di Lenin, non la comprende oppure è interessato a falsificarne il contenuto può negare la sua totale e perfetta continuità di metodo con quella di Marx ed Engels.

Già nel 1850 Marx ed Engels avevano percepito come in Germania lo sviluppo capitalistico accompagnato da una rivoluzione borghese in ritardo implicasse una crescente timidezza rivoluzionaria della borghesia, una timidezza accentuata dal deciso protagonismo sociale di una classe operaia in rapida formazione, estremamente combattiva per quanto ancora numericamente ristretta.

Secondo i due teorici del socialismo scientifico – sulla scorta della fallimentare esperienza del 1848 in Germania – le rivendicazioni della parte più avanzata della borghesia “rivoluzionaria” tedesca, ovvero il completo abbattimento delle sopravvivenze feudali e dell’assolutismo nonché l’instaurazione di uno Stato federale più o meno democratico, accompagnate dalle illusioni nutrite dalla piccola borghesia radicale di abolire la pressione del grande capitale su quello piccolo,

…non possono in nessun modo bastare al partito del proletariato. Mentre i piccoli borghesi democratici vogliono portare al più presto possibile la rivoluzione alla conclusione, e realizzando tutt’al più le rivendicazioni di cui sopra, è nostro interesse e nostro compito render permanente la rivoluzione sino a che tutte le classi più o meno possidenti non siano scacciate dal potere, sino a che il proletariato non abbia conquistato il potere dello Stato, sino a che l’associazione dei proletari, non solo in un paese, ma in tutti i paesi dominanti del mondo, si sia sviluppata al punto che venga meno la concorrenza tra i proletari di questi paesi, e sino a che almeno le forze produttive decisive non siano concentrate nelle mani dei proletari.[12]

Nel presumibile contesto della futura rivoluzione tedesca, Marx ed Engels dubitavano della seria disponibilità da parte della “democrazia borghese” di porsi fianco a fianco, con «eguale potere ed eguali diritti», del proletariato organizzato «in modo indipendente». Tuttavia, lungi dal suggerire la rinuncia all’indipendenza del partito operaio – magari con lo scopo illusorio di rabbonire la democrazia borghese –, ritenevano invece che essa dovesse essere salvaguardata ad ogni costo.

Nel corso della lotta contro l’assolutismo, gli operai

…debbono fare l’essenziale per la loro vittoria finale chiarendo a sé stessi i loro propri interessi di classe, assumendo il più presto possibile una posizione indipendente di partito, e non lasciando che le frasi ipocrite dei piccoli borghesi democratici li sviino nemmeno per un istante dalla organizzazione indipendente del partito del proletariato. Il loro grido di battaglia deve essere: La rivoluzione in permanenza![13]

Nella lotta contro il comune nemico assolutistico-feudale, il partito del proletariato non aveva nessun bisogno di fondersi in un’«unione speciale» con la democrazia borghese:

Appena si deve combattere direttamente tale nemico, gli interessi dei due partiti coincidono momentaneamente, e, com’è avvenuto sinora così per l’avvenire, questo collegamento, calcolato soltanto per quel momento, si ristabilirà spontaneamente. È naturale che nei sanguinosi conflitti imminenti, come in tutti i precedenti, toccherà soprattutto agli operai strappare la vittoria con il loro coraggio, la loro risolutezza e la loro abnegazione. Come è avvenuto sinora, anche in queste lotte la massa dei piccoli borghesi, sino a che le sarà possibile, sarà lenta, irresoluta e inattiva, ma una volta conquistata la vittoria, cercherà di ipotecarla per sé, di esortare gli operai alla calma e a ritornare a casa e al lavoro, cercherà di prevenire i cosiddetti eccessi, e di escludere il proletariato dai frutti della vittoria.[14]

Se, in quella che consideravano ancora complessivamente una fase ascendente del capitalismo, Marx ed Engels ritenevano che la borghesia dei paesi dallo sviluppo capitalistico ritardato già manifestasse esitazioni, titubanze e mancanza di determinazione nel perseguimento dei propri compiti rivoluzionari, e che addirittura si apprestasse al «tradimento verso gli operai» già allo scoccare della «prima ora della vittoria»; con il maturare della fase imperialista del capitalismo, con l’estensione mondiale dei tratti reazionari della borghesia, il suo tradimento nei confronti del proletariato nelle aree arretrate si sarebbe manifestato assai prima di qualsiasi vittoria riportata contro le limitazioni frapposte al pieno sviluppo capitalistico in queste aree.

Le caratteristiche peculiari della formazione delle moderne classi sociali nelle aree arretrate del mondo, nel quadro generale della maturazione imperialistica del capitalismo, rendevano estremamente difficoltoso per la borghesia assolvere ad un ruolo rivoluzionario e, d’altro canto, attribuivano nuovi compiti alla classe operaia di queste aree. Non è un caso che Friedrich Engels, sul finire del secolo dell’ascesa capitalistica, ritenesse che l’indipendenza della Polonia potesse «essere conquistata solo dal giovane proletariato polacco»[15]. Nella fase imperialista, il più o meno completo assolvimento dei compiti della rivoluzione democratico-borghese sarebbe stato determinato o dalla totale sconfitta della borghesia nel corso di una rivoluzione in permanenza o, viceversa, dall’altrettanto totale sconfitta del movimento operaio rivoluzionario.


NOTE

[1] K. Marx – F. Engels, Manifesto del Partito comunista, Lotta comunista, Milano, 1998, p. 95.

[2] K. Marx, Lettera a S. Meyer e A. Vogt, 9 aprile 1870, in K. Marx – F. Engels, L’Irlanda e la questione irlandese, Edizioni Progress, Mosca, 1975, pp. 278-279.

[3] K. Marx, Lettera a L. Lafargue, 5 marzo 1870, Ibidem, p. 275. Marx ritiene che l’appoggio dell’Internazionale alla liberazione dell’Irlanda dal giogo britannico «non deve rappresentare un atto di simpatia verso l’Irlanda, bensì una richiesta fatta nell’interesse del proletariato inglese» (Lettera a L. Kugelmann, 29 novembre 1869, Ibidem, p. 266) e che occorre «… rendere i lavoratori inglesi coscienti del fatto che per loro l’emancipazione nazionale dell’Irlanda non è una questione di giustizia astratta o di sentimenti umanitari, bensì la condizione primaria della loro stessa emancipazione sociale» (Lettera a S. Meyer e A. Vogt, 9 aprile 1870, Ibidem, pp. 278-279).

[4] F. Engels, Lettera a K. Kautsky, 7 febbraio 1882, in K. Marx – F. Engels, Lettere 1880-1883, Lotta comunista, Milano, 2008, p. 154.

[5] K. Marx, Il Consiglio generale dell’Associazione internazionale degli operai ai membri del comitato della sezione russa di Ginevra, 24 marzo 1870, in La Prima Internazionale. Storia documentaria, vol. 1, pp. 423-424.

[6] F. Engels, Rapporti tra le sezioni irlandesi e il Consiglio federale britannico, 1872, in K. Marx – F. Engels, L’Irlanda e la questione irlandese, Edizioni Progress, Mosca, 1975, p. 287.

[7] F. Engels, Lettera a K. Kautsky, 12 settembre 1882, in K. Marx – F. Engels, Lettere 1880-1883, Lotta comunista, Milano, 2008, pp. 253-254. Un «genere» particolare di guerra di difesa può considerarsi anche la Guerra sovietico-polacca del 1920. Si trattò infatti di una guerra rivoluzionaria che fu difensiva in due sensi: 1) tecnicamente, perché l’aggressione venne scatenata dalla borghesia polacca con il sostegno e l’incoraggiamento dell’Intesa; e 2) in senso generale, dal momento che l’unica possibile difesa a lungo termine della rivoluzione in un singolo paese – specialmente se arretrato – non può che consistere nella sua estensione ai paesi capitalisticamente sviluppati, una prospettiva che si rese più concreta con la possibilità fornita dal conflitto di raggiungere la Germania.

[8] Lenin, Tesi sulla questione nazionale e coloniale, 28 luglio 1920, in La Terza Internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, Roma, 1974, vol. 1, tomo I, p. 248.

[9] Lenin, La questione nazionale nel nostro programma, 1903, in L’autodeterminazione dei popoli, Massari, 2005, p. 77. Qui Lenin è del tutto in linea con le riflessioni di Marx a proposito dell’eventuale rapporto interstatale dell’Inghilterra con un’Irlanda libera: «…del tutto indipendentemente da considerazioni di giustizia internazionale, la trasformazione dell’attuale unione coatta (ovvero, della riduzione in schiavitù dell’Irlanda) in una confederazione di liberi ed eguali, se possibile; in uno Stato di indipendenza completa, se necessario; è una condizione preliminare dell’emancipazione della classe operaia inglese. K. Marx, da Comunicazione confidenziale, 28 marzo 1870, in K. Marx – F. Engels, L’Irlanda e la questione irlandese, Edizioni Progress, Mosca, 1975, pp. 146-147.

[10] Lenin, Op. cit. p. 80.

[11] Ibidem.

[12] K. Marx – F. Engels, Indirizzo del Comitato centrale alla Lega [dei comunisti] del marzo 1850, K. Marx – F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1977, Vol. X, pp. 277-288.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] F. Engels, Prefazione all’edizione polacca del 1892, Manifesto del partito comunista, Lotta comunista, 1998, Milano, p. 126.

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