DISFATTISMO RIVOLUZIONARIO E SABOTAGGIO

PER IL «LETTORE PERSPICACE» – «Genesi e struttura» della tattica leniniana del disfattismo rivoluzionarioVII

Dalla postfazione al testo di Roman Rosdolsky – STUDI SULLA TATTICA RIVOLUZIONARIA, Movimento Reale, Roma, giugno 2025, pubblicata anche in opuscolo.


Per mezzo di una sufficientemente attenta lettura di Lenin è possibile smentire definitivamente le interpretazioni massimaliste, semianarchiche, pseudo-radicali, infantili e “perspicaci” (nell’accezione černyševskijana) del disfattismo rivoluzionario che attualmente vanno per la maggiore (seppure in ambiti di per sé ristretti), almeno tanto quanto è possibile demistificare le scontate – e per questo meno rilevanti – falsificazioni e accuse provenienti dalla pubblicistica e dalle istituzioni borghesi.

Nella sua lettera a Šljapnikov del 17 ottobre 1914, Lenin scrive:

… la parola d’ordine dev’essere quella della trasformazione della guerra nazionale in guerra civile. (Questa trasformazione può essere lenta, può richiedere e richiederà una serie di condizioni preliminari, ma tutto il lavoro bisogna svolgerlo appunto sulla linea di tale trasformazione, nello spirito e nella direzione di essa). Non sabotaggio della guerra, non singole azioni individuali in questo spirito, ma una propaganda di massa (non solo tra i «civili») che porti alla trasformazione della guerra in guerra civile. […] Non sabotaggio della guerra, ma lotta contro lo sciovinismo e concentrazione degli sforzi di tutta la propaganda e di tutta l’agitazione verso l’unione internazionale del proletariato (avvicinamento, solidarietà, intese, selon les circostances) ai fini della guerra civile. Sarebbe errato sia incitare ad atti individuali, come quello di sparare contro gli ufficiali ecc., sia ammettere argomenti come questo: non vogliamo aiutare il kaiserismo. La prima cosa è una deviazione verso l’anarchismo, la seconda verso l’opportunismo. Noi invece dobbiamo preparare un’azione di massa (o almeno collettiva) nell’esercito, non di una sola nazione, e condurre tutto il lavoro di propaganda e di agitazione in questa direzione. Orientare il lavoro (tenace, sistematico, forse lungo) nello spirito della trasformazione della guerra nazionale in guerra civile: ecco il punto essenziale. Il momento di questa trasformazione è un’altra questione, oggi non ancora chiara. Bisogna dare a questo momento la possibilità di maturare e «costringerlo a maturare» sistematicamente.[1] [grassetti redazionali]

Anche nelle sue pubblicazioni Lenin è cristallino:

… le azioni rivoluzionarie contro il proprio governo in tempo di guerra, innegabilmente, incontestabilmente, significano non soltanto augurarsi la disfatta di questo governo, ma portare alla disfatta un contributo effettivo (per il «lettore perspicace»: non si tratta affatto di «far saltare dei ponti», di organizzare ammutinamenti militari votati all’insuccesso, e, in generale, di aiutare il governo a schiacciare i rivoluzionari.).[2] [grassetti redazionali]

Il passaggio citato – considerato il suo carattere di documento pubblico – è determinante per comprendere come in Lenin il disfattismo rivoluzionario non si identifichi con il “sabotaggio”.

Una volta appurato che soltanto un’ottica che non si emancipi dalla visione borghese della guerra può concepire le sconfitte della propria borghesia esclusivamente come vittoria definitiva della borghesia nemica – oppure considerare la sconfitta militare l’obiettivo specifico dei rivoluzionari –, appare evidente che il disfattismo rivoluzionario non consiste nel desiderare e promuovere la vittoria del nemico borghese della propria borghesia.

Il disfattismo rivoluzionario non si risolve perciò nella pianificazione di complotti volti direttamente al fallimento delle operazioni militari dell’esercito della propria borghesia. Non si tratta ad esempio di impadronirsi dei piani di battaglia del proprio Stato Maggiore per farli fallire oppure per consegnarli al nemico al fine di favorirlo, di far saltare in aria fortificazioni, infrastrutture e fabbriche per aprire varchi all’avanzata dell’esercito avversario; tantomeno di produrre cartucce difettose, fabbricare armi che si inceppino facendo uccidere i soldati che le impugnano o che addirittura esplodano nelle loro mani.

Non è questione, naturalmente, di condannare moralisticamente tali forme di azione ma di stabilire se e in che misura esse siano funzionali alla lotta rivoluzionaria del proletariato contro la guerra e quanto invece possano risultare funzionali alla repressione del movimento rivoluzionario o persino ad obiettivi politici che possiedano un altro contenuto di classe.

Questo particolare tipo di azioni, infatti, non soltanto impedisce di «collegare la lotta della parte rivoluzionaria dell’esercito al largo movimento del proletariato e degli sfruttati in generale», non soltanto impedisce di stabilire e rafforzare un legame di fiducia tra movimento rivoluzionario e proletari al fronte ma ottiene esattamente il risultato diametralmente opposto, giustificando agli occhi delle masse mobilitate la calunnia borghese dell’“intelligenza col nemico”[3].

Più in generale, anche le operazioni di sabotaggio che non abbiano alcun legame diretto con l’avversario della propria borghesia e che si pongano come obiettivo il danneggiamento dell’apparato produttivo, dei trasporti, delle comunicazioni, ecc., del proprio Stato borghese in guerra, se disgiunte da un contesto di lotta diffuso, di massa, e in virtù della possibilità tecnica di essere poste in atto con relativa facilità da pochissimi individui, possono risultare di freno o di ostacolo allo sviluppo dell’azione collettiva di classe.

Si può senza dubbio interrompere la produzione in una fabbrica di armamenti «mettendo sabbia negli ingranaggi», ma questa azione avrà un senso solo se la maggior parte o un numero significativo degli operai che lavorano in quella fabbrica o, meglio ancora, in quell’industria, siano disposti a scendere contestualmente in sciopero, non certo se la tendenza prevalente presso quegli stessi operai – che è possibile percepire solo attraverso un lavoro organizzativo di massa – sarà ancora quella di riparare il guasto e di tornare al lavoro, facendo del sabotaggio un gesto isolato, rapidamente risolto e che può danneggiare invano soltanto chi lo ha compiuto e gli altri operai che lo subiscono. 

Discorso analogo per quanto riguarda la decisione di singoli o di piccoli nuclei isolati di rifiutare di partecipare ad operazioni militari offensive o quella di «tirare sui propri ufficiali». È evidente che azioni del genere, prive di un collegamento organizzativo con gli altri soldati e di una direzione politica unitaria – presupposti che non sorgono dal nulla dall’oggi al domani – sono votate al fallimento ed al plotone d’esecuzione, senza sedimentare alcuna esperienza utile.

Queste forme di lotta, che pure possono verificarsi e in genere si verificano, almeno inizialmente, in modo spontaneo, e che non possono essere condannate dai rivoluzionari, se e quando elevate a “metodo” riflettono una condizione di oggettiva debolezza che si pretende di superare con facili scorciatoie che consentano di scansare un serio, metodico, altrettanto rischioso ma soprattutto paziente lavoro organizzativo tra le masse, come la preparazione di assemblee, comizi, scioperi, manifestazioni collettive di protesta e fraternizzazioni. Si tratta di un “metodo” che tradisce la subalternità alla romantica ed impaziente “mistica” dell’azione eclatante piccolo-borghese – perennemente alla ricerca di una immediata gratificazione individualista – e che si risolve in una modalità operativa più facilmente gestibile e controllabile da forze politiche borghesi che agiscano realmente in accordo con la borghesia nemica nella pratica di un disfattismo reazionario.

D’altro canto, è bene tenere a mente che la classe dominante considera “sabotaggio” non soltanto ciò che risponde tecnicamente a questa definizione ma in generale tutto ciò che durante la guerra ostacoli, intralci, impedisca il normale funzionamento degli apparati militari, dell’industria e dei trasporti, ed è quindi evidente che in questa definizione essa possa incasellare tutto ciò che vuole: dagli scioperi per rivendicazioni puramente economiche alle proteste spontanee contro le condizioni create dalla guerra, fino alla lotta rivoluzionaria cosciente contro la guerra nelle retrovie e al fronte. In considerazione di ciò i rivoluzionari non possono lasciarsi intimidire dalle accuse di “tradimento” lanciate dalla borghesia, perché è per lealtà nei confronti della classe operaia internazionale ed a suo beneficio che essi “tradiscono” la patria borghese, non certo in diretta ed intenzionale collaborazione con la borghesia di un’altra nazione. Ciò consente loro di distinguere tra le forme di lotta che a seconda delle circostanze possono o meno risultare funzionali alla trasformazione della guerra in guerra civile, senza dover assumere una postura difensiva o giustificatoria di fronte alla borghesia e senza adottare una determinata prassi esclusivamente per il puerile gusto di glorificare in contrapposizione simmetrica tutto ciò che la borghesia condanna come “crimine riprovevole” – in tal caso manifestando realmente la permanenza di una sudditanza psicologica, seppure rovesciata, nei confronti dell’ideologia borghese. I rivoluzionari non hanno alcun problema a farsi definire “sabotatori” dalla borghesia, purché non confondano il disfattismo rivoluzionario con il solo sabotaggio.

Come ci ricorda Lenin, il marxismo ammette le più disparate forme di lotta senza vincolare indissolubilmente il movimento rivoluzionario del proletariato a nessuna di esse in particolare o in maniera esclusiva. Il marxismo non “inventa” a tavolino le forme di lotta ma le rinviene nella realtà sociale, ne analizza la natura di classe e valuta il contesto generale in cui queste forme di lotta si manifestano, e, eventualmente, si sforza di organizzarle e generalizzarle. Il marxismo non rinuncia in assoluto a nessuna forma di lotta che possa risultare funzionale al movimento rivoluzionario e non impone forme di lotta prodotte da determinati contesti a contesti differenti nei quali possono sorgere forme di lotta inedite. Il marxismo, sulla base del contesto generale della lotta tra le classi e dei rapporti di forza tra le classi si sforza di valutare quali forme di lotta proletaria prodotte da questo contesto possono assumere un ruolo primario e quali un ruolo secondario.

In questo senso, se non può identificarsi con l’azione rivoluzionaria collettiva o sostituirsi ad essa, un certo tipo di sabotaggio in senso tecnico può nondimeno assumere in determinate condizioni una funzione ausiliaria in collegamento con quella stessa azione.

Considerando che gli eventuali progressi di un lavoro rivoluzionario negli eserciti borghesi in conflitto non avranno mai le stesse proporzioni, profondità e tempistiche in ogni settore dei due lati opposti di un intero fronte, al culmine di una situazione di particolare fermento può risultare necessario rallentare o impedire determinate operazioni militari che pregiudichino un lavoro di fraternizzazione in avviamento. In tali circostanze, il rifiuto collettivo delle truppe di linea di obbedire agli ordini di ripresa dei combattimenti per nuove offensive potrebbe trarre vantaggio da una interruzione delle linee ferroviarie, stradali o aeree che impedisca di convogliare al fronte unità militari “politicamente sicure” per rimpiazzare quelle ritenute “inaffidabili” dai comandi; se uno sciopero ferroviario può essere aggirato per mezzo di un servizio di crumiraggio organizzato, uno sciopero e ad esempio una ostruzione o un danneggiamento dei binari renderebbero tale aggiramento più complicato, fornendo tempo prezioso al movimento rivoluzionario. Stesso discorso vale per quanto riguarda il lavoro rivoluzionario presso le guarnigioni militari dell’interno, per bloccare eventuali azioni repressive nei confronti del movimento al fronte.

Altre forme di “sabotaggio” funzionali sono le azioni collettive organizzate per impedire alla propria borghesia di colpire il proletariato del paese “nemico” – sia al fronte che fra i “civili” nelle sue retrovie – senza che tale ostruzionismo costituisca un pericolo immediato per il proprio proletariato in divisa. Ad esempio, con la sofisticazione collettiva e concertata della produzione di materiali esplosivi – come bombe, o, oggi, razzi e droni – che li renda inoffensivi quando impiegati in raid aerei. Ciò potrebbe risultare necessario laddove, in caso di sorveglianza militare delle fabbriche, scioperi che rallentino o arrestino la produzione potrebbero essere immediatamente fronteggiati e repressi. Numerosi altri possono essere gli esempi di una utilizzazione funzionale del sabotaggio.

È tuttavia evidente, che, quali che siano le forme di lotta primarie e secondarie nelle quali si esplica la tattica disfattista rivoluzionaria, esiste sempre il pericolo che i comandi della borghesia del paese nemico conservino il controllo politico sulle proprie truppe e che riescano a scagliarle offensivamente contro un esercito nel quale il lavoro rivoluzionario abbia raggiunto un livello più avanzato, conseguendo una vittoria totale che porti allo schiacciamento del movimento rivoluzionario del paese sconfitto. Non esiste alcuna garanzia che il lavoro rivoluzionario nell’esercito della propria borghesia e nelle retrovie non conduca a questo risultato negativo; tuttavia, non è possibile condurre efficacemente nessun lavoro rivoluzionario se si vuole evitare ad ogni costo questo pericolo. In ogni caso, un simile risultato costituisce per i rivoluzionari un rischio calcolato e non un obiettivo deliberato, dal momento che l’indebolimento del fronte e del proprio Stato borghese in guerra ha senso solo nella misura in cui rafforza il movimento rivoluzionario.

Risulterà ormai chiaro che è per non essere frainteso e per distinguersi dall’interpretazione anarchica nonché dalla prassi del disfattismo reazionario borghese – e non per una presunta incoerenza – che Lenin, nel definire l’atteggiamento del proletariato rivoluzionario cosciente nei confronti della “disfatta” del proprio paese, impiega termini come «desiderare» o «augurarsi» la sconfitta, alternativamente o contemporaneamente a «concorrere» a questa sconfitta, portarvi un «contributo effettivo», «cooperare» ad essa, ecc., ecc.:

… il governo zarista aveva completamente ragione di affermare che l’agitazione del gruppo parlamentare del POSDR è l’unico esempio nell’Internazionale, non soltanto di un’opposizione parlamentare, ma di un’agitazione veramente rivoluzionaria fra le masse contro il loro governo; che questa agitazione indeboliva la «potenza militare» della Russia e concorreva alla sua disfatta. […]

la lotta di classe è impossibile senza assestare colpi alla «propria» borghesia, al «proprio» governo. E, durante la guerra, assestare colpi al «proprio» governo è […] tradire lo Stato, è cooperare alla sconfitta del proprio paese. […]

L’unica politica di rottura – non a parole – della «pace civile», di riconoscimento della lotta di classe, è la politica per la quale il proletariato approfitta della difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di abbatterli. Ma non si può ottenere questo, non si può tendere a questo senza augurarsi la disfatta del proprio governo, senza cooperare a tale disfatta.  […]

Il proletariato non può né vibrare un colpo di classe al suo governo, né tendere (di fatto) la mano al suo fratello, al proletariato del paese «straniero» in guerra contro di «noi», senza perpetrare «un tradimento dello Stato», senza cooperare alla disfatta, senza contribuire al crollo della «sua» «grande» potenza imperialista.[4] [grassetti redazionali]

Come abbiamo visto in un passaggio precedentemente citato de Il socialismo e la guerra, Lenin aggiunge:

Soltanto il borghese, il quale crede e desidera che la guerra iniziatasi tra i governi termini assolutamente come una guerra tra governi, trova “ridicola” o “assurda” l’idea che i socialisti di tutti i paesi belligeranti manifestino e augurino la sconfitta a tutti i “propri” governi. Al contrario, proprio una simile azione corrisponderebbe ai segreti pensieri di ogni operaio cosciente e si accorderebbe con la linea della nostra attività diretta a trasformare la guerra imperialista in guerra civile.

Indubbiamente, la seria agitazione contro la guerra di una parte dei socialisti inglesi, tedeschi, russi ha “indebolito la potenza militare” dei rispettivi governi; ma tale agitazione è stata un merito di questi socialisti. I socialisti devono spiegare alle masse che per esse non c’è salvezza senza l’abbattimento rivoluzionario dei “propri” governi, e che le difficoltà di questi governi nell’attuale guerra devono essere sfruttate appunto a questo fine.[5] [grassetti redazionali]

Per Lenin, il proletariato deve condurre la lotta di classe anche in tempo di guerra senza arrestarsi di fronte al pericolo della disfatta, anzi, deve “augurarsi” e “desiderare” che la conduzione efficace ed intransigente di questa lotta “concorra”, “porti un contributo effettivo”, “cooperi” ai rovesci militari della propria classe dominante, che indeboliscano a loro volta lo Stato borghese facilitando l’ulteriore azione diretta per la trasformazione della guerra imperialista in rivoluzione. L’unico «contributo effettivo» in senso rivoluzionario che porti come risultante de facto alla disfatta della propria borghesia è quindi la conduzione della lotta di classe anche in tempo di guerra, non un “sabotaggio” militare nell’accezione borghese che favorisca unicamente il nemico nazionale della propria borghesia, o che, intempestivo e privo di ogni collegamento con la lotta di massa, faciliti la repressione dei rivoluzionari da parte della propria borghesia.

Ma la lotta di classe durante la guerra è lotta di classe contro la guerra. Essa non è la mera continuazione delle rivendicazioni economiche in tempo di guerra ma una lotta classe contro classe che non è possibile condurre fino in fondo senza entrare in conflitto con gli interessi della guerra imperialista, con l’obiettivo della “vittoria” imperialista. Una lotta che ha come oggetto immediato la guerra imperialista e come obiettivo politico principale la sua trasformazione in guerra civile. Quindi una lotta politica contro la guerra.

Risulterà chiaro come questa impostazione non possa avere nulla in comune con la formula socialpacifista adottata dal Partito socialista italiano: «né aderire né sabotare».

Accettando implicitamente con l’etichetta “sabotaggio” la criminalizzazione borghese di qualsiasi opposizione politica che intralci o ostacoli la prosecuzione della guerra, e respingendo di fatto sotto tale etichetta qualsiasi seria opposizione alla guerra, questa formula si limitava ad una “non adesione” platonica alla guerra imperialista, che, a conti fatti, si risolse in un oggettivo sostegno. Non “sabotare” significava di fatto aderire. Assodato che per Lenin il disfattismo rivoluzionario non si identifica con il sabotaggio, ma al tempo stesso tenendo conto che il movimento rivoluzionario della classe oppressa non può scegliere sotto quale articolo del Codice penale farsi iscrivere dalla classe dominante, la consegna di un autentico partito rivoluzionario internazionalista in Italia avrebbe dovuto essere: «non aderire e sabotare».

Continua…


NOTE

[1] Lenin, Lettera a Šljapnikov, 17 ottobre 1914, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 35, pp. 105-106.

[2] Lenin, La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialistica, 26 luglio 1915, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 21, pp. 249-254.

[3] Non è casuale che esattamente questa sia stata la pratica stalinista del “disfattismo” durante la Seconda guerra mondiale: il sabotaggio delle operazioni militari nei paesi avversari dell’Unione Sovietica da parte dei partiti “comunisti” di questi paesi, trasformati in agenzie estere dell’imperialismo russo.

[4] Lenin, La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialistica, 26 luglio 1915, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 21, pp. 249-254.

[5] Lenin, Il socialismo e la guerra, luglio-agosto 1915, Lotta comunista, Milano, 2008, p. 125.

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