1945 – 2025. 80 anni dall’insurrezione proletaria di Saigon
Ngo Van Xuyet, Sur le Vietnam, serie di articoli pubblicata su Informations et Correspondances ouvrières, 1967-1968. Traduzione dal francese di Rostrum (settembre 2025), pubblicata nel n. 125 di Prospettiva Marxista, settembre 2025.
L’anno che si avvia a conclusione ha visto riesumare da parte degli orfani dello stalinismo e del maoismo il cinquantesimo anniversario della “Presa di Saigon” del 1975, avvenimento celebrato dai nostalgici delle lotte di liberazione nazionale come una vittoria della lotta antimperialista contro la potenza americana.
Alla rievocazione di questa “vittoria” del capitalismo nazionale vietnamita, bardata dei colori del falso socialismo di Ho Chi Minh, abbiamo preferito quella dell’insurrezione proletaria di Saigon del settembre 1945, brutalmente repressa dall’azione combinata e concordata dell’imperialismo delle potenze “nemiche” francese, inglese e giapponese, con l’attiva e zelante collaborazione dei partigiani stalinisti della “resistenza antimperialista” del Viet Minh.
Ottanta anni fa, gli elementi più coscienti del proletariato vietnamita – in alcuni casi vicini a gruppi politici trotskisti non perfettamente “allineati” ai dettami della Quarta Internazionale – rifiutarono di riconoscere l’egemonia della “resistenza” socialnazionalista e si organizzarono, su basi rigorosamente classiste, in comitati e in formazioni di combattimento per difendersi dalle violenze degli eserciti imperialisti, per impedire il ripristino della dominazione coloniale e per l’emancipazione del proletariato in un processo di rivoluzione in permanenza. Questi proletari, che sdegnavano d’innalzare la bandiera nazionale preferendogli la rossa bandiera del movimento operaio internazionale, oltre alle cannonate dell’imperialismo dovettero fronteggiare il pugnale degli stalinisti. Sorte che i militanti operai condivisero tragicamente con quella parte del trotskismo che s’illudeva di stemperare la sostanziale subordinazione a forze politiche borghesi con formule come quella del «sostegno critico» alla “resistenza” stalinista (mentre oggi è diventato addirittura “incondizionato” il sostegno – a distanza – a “resistenze” egemonizzate da organizzazioni politiche apertamente reazionarie e clericali come Hamas o condotte dagli eserciti regolari di Stati borghesi come l’Ucraina) … pagandone all’epoca il prezzo per intero.
La decapitazione di queste minoritarie avanguardie del proletariato vietnamita nel corso di un’ondata di lotta rivoluzionaria ha contribuito a determinare la forza del partito populista statal-borghese e contadino di Ho Chi Minh, liberandolo dall’esigenza di affrontare le rivendicazioni politiche della classe operaia, consentendogli di mantenere il movimento nell’alveo borghese della liberazione nazionale e di destreggiarsi tra le varie potenze concorrenti nell’area: dapprima appoggiandosi agli Alleati contro il Giappone, poi agli USA in funzione antifrancese, infine all’URSS contro gli USA. Per il proletariato vietnamita il prezzo, oltre alla perpetuazione dello sfruttamento capitalistico nella sua forma statalizzata, è stato probabilmente il ritardo di un trentennio nel raggiungimento dell’unificazione nazionale e dell’indipendenza politica del Vietnam.
Il testo del militante internazionalista vietnamita Ngo Van Xuyet, di cui qui traduciamo e pubblichiamo ampi stralci, ripercorre sinteticamente un quindicennio di lotte del proletariato del Vietnam sotto la dominazione francese e giapponese, fino al culmine dell’insurrezione del 1945. Si tratta di un resoconto che stando al suo stesso autore è stato scritto in gran parte a memoria, senza poter disporre di una documentazione esaustiva. Una trattazione più ampia dello stesso periodo da parte di Ngo Van è reperibile in Le Mouvement IVè Internationale en Indochine, 1930-39 nei Cahiers Leon Trotsky, n. 40, dicembre 1989, pp. 21-60.
Il Vietnam del Sud negli anni Trenta
[Viene qui omessa la parte iniziale intitolata “Le rivolte contadine del 1930” – N.d.T.]
Abbiamo visto come la crisi economica mondiale si sia ripercossa in Vietnam con rivolte essenzialmente contadine e con il risveglio del movimento operaio, momentaneamente decapitato dalla repressione all’inizio degli anni Trenta.
Alcuni studenti vietnamiti che si erano formati in Francia si organizzarono nelle due principali tendenze che dividevano la Terza Internazionale: lo stalinismo e il trotskismo. Alcuni di loro erano stati espulsi dalla Francia dopo le manifestazioni contro le condanne seguite alla rivolta di Yen-bay nel 1930. Mosca formò alcuni dei militanti incaricati di ricostruire il Partito Comunista clandestino; il nucleo di questo nuovo partito illegale cadde sotto i colpi della repressione poliziesca nel 1935 e quando uno dei suoi leader, Tran Van Giau, allora nei servizi di informazione di Ho Chi Minh, fu processato a Saigon e interrogato su quale fosse la sua occupazione, dichiarò di essere un rivoluzionario di professione. Insieme ai suoi compagni si unì a coloro che erano stati condannati nel 1933 al campo di lavoro forzato di Poulo-Condore. Sempre nella clandestinità, intorno al 1932, nacquero piccoli gruppi trotskisti guidati da alcuni di coloro che erano stati espulsi dalla Francia. Bollettini stampati con gelatina serigrafica venivano diffusi in segreto per divulgare le discussioni teoriche del gruppo Vo-san (Proletario) di Ta Thu Thau e del gruppo Thang-muoi (Ottobre) di Ho Huu Tuong e altri [1], tra alcuni operai della città che avevano preso coscienza. Il secondo di questi gruppi accusò il primo di avere una tendenza conciliante nei confronti degli stalinisti. Ispirati dalla teoria della rivoluzione permanente, questi discepoli di Trotsky sostenevano una “dittatura del proletariato” in alleanza con i contadini per realizzare questa «rivoluzione permanente», i cui compiti principali sarebbero stati la liberazione nazionale attraverso la lotta anti-imperialista e la riforma agraria attraverso l’abolizione della proprietà privata e la divisione della terra tra i contadini, mentre gli stalinisti pianificavano una «dittatura democratica del proletariato e dei contadini» che avrebbe realizzato gli stessi obiettivi. L’influenza politica segreta dei trotskisti era essenzialmente urbana; gli stalinisti si radicarono nelle campagne grazie alle origini del loro movimento, dove diffusero l’idea che i trotskisti fossero nemici dei contadini.
Ma ben presto i tre gruppi trotskisti – il terzo era il Ta doi lap tong tho (Pubblicazioni dell’Opposizione di Sinistra) – furono sciolti; nell’agosto 1932 la polizia arrestò 41 militanti e simpatizzanti a Saigon e nelle province. Il primo processo ai trotskisti si svolse a Saigon il 1° maggio 1933 e 16 dei 21 imputati furono condannati a pene detentive comprese tra i tre mesi e i cinque anni.
In occasione delle elezioni municipali di Saigon del 1933, sia gli stalinisti che i trotskisti tentarono di intraprendere un’azione legale congiunta mettendo insieme un’unica lista elettorale, la “lista operaia” (so lao-dong). Per candidarsi alle elezioni bisognava essere proprietari o almeno pagare l’imposta commerciale, così l’insegnante trotskista Ta Thu Thau divenne venditore di tappeti in Rue Lagrandière, mentre il giornalista stalinista Nguyen Van Tao divenne venditore di limonata nel Mercato Vecchio. Le riunioni elettorali cominciarono a tenersi nel Thanh-xuong, un piccolo teatro locale. Per la prima volta, i coolies, gli impiegati del commercio, gli operai di Saigon e i giovani furono esortati apertamente a lottare per la giornata lavorativa di otto ore, per i diritti sindacali e per il diritto di sciopero dai candidati al consiglio comunale che cercavano i voti dei cittadini per “rappresentarli”. Il successo di questi comizi allarmò la polizia, che chiuse il teatro Thanh-xuong insieme ai teatri dei sobborghi (Khanh-hoi e Tan-dinh), ma i comizi resi impossibili dall’intervento della polizia si trasformarono in manifestazioni di piazza. La lista elettorale borghese del Partito Costituzionalista fu sconfitta e la lista operaia ottenne la maggioranza dei seggi del consiglio comunale riservati ai vietnamiti. Fu in questo periodo di agitazione legale che apparve per la prima volta La Lutte, un settimanale in lingua francese del Fronte Unito tra stalinisti e trotskisti di Saigon (bisogna tenere presente che nessun giornale in lingua locale poteva essere pubblicato senza la previa autorizzazione dell’amministrazione coloniale, quindi La Lutte poteva rivolgersi solo a una ristretta fascia della popolazione urbana, quella che sapeva leggere il francese; anche così era spesso vittima di sequestri e perquisizioni, ma in lingua vietnamita non gli sarebbe stato nemmeno permesso di uscire). Un giornalista francese, il vecchio Ganofsky, che viveva in povertà ai margini dei circoli coloniali, diede il suo nome come direttore responsabile de La Lutte. Questo spirito libero fu poi ostacolato in diverse occasioni e pagò le conseguenze del suo atto disinteressato fino alla morte.
Questo Fronte Unito locale, dettato dalle necessità della lotta contro la forte oppressione coloniale, fu presto sconvolto dall’evoluzione della politica del Partito Comunista russo e, di conseguenza, della politica del partito francese. Il patto franco-sovietico del maggio 1935 trasformò la Francia in un alleato della Russia e il Partito Comunista francese aveva ora il dovere di difendere la “democrazia francese” contro il fascismo. Il gruppo stalinista rinunciò diligentemente al suo consueto gergo a proposito dell’“imperialismo francese”, non parlò più di indipendenza nazionale e impresse una direzione puramente riformista ai suoi slogan. All’interno di La Lutte sorsero profonde divergenze, ma il gruppo di Ta Thu Thau non ruppe ancora la sua unità formale con gli stalinisti. L’ondata di scioperi seguita dalle occupazioni delle fabbriche e dalla formazione del Fronte Popolare in Francia nel giugno 1936 ebbe un’eco immediata nella penisola indocinese, dove la corrente riformista si rafforzò. Su iniziativa del gruppo La Lutte e del Partito Costituzionalista borghese, fu formato un Fronte Popolare noto con il nome di Movimento del Congresso indocinese (Phong-tiao-Dong-duong-Dai-hoi), al fine di elaborare le rivendicazioni relative alle riforme politiche, economiche e sociali da presentare al governo del Fronte Popolare del paese metropolitano. Alla fine del 1935 fu costituito [a Saigon] un piccolo gruppo trotskista clandestino, la Lega dei Comunisti Internazionalisti[2], che lanciò tra gli operai e i contadini lo slogan dei «comitati d’azione» con un volantino in lingua vietnamita, ma i suoi militanti furono immediatamente incarcerati. Gli stalinisti esortarono al rispetto della legge i contadini che avevano iniziato ad agitarsi in modo violento contro le tasse dirette e indirette e per una riduzione della rendita fondiaria.

Il “primo processo della Quarta Internazionale”, il processo alla Lega dei Comunisti Internazionalisti, si aprì a Saigon il 31 agosto 1936. A seguito di un ricorso presentato dai loro avvocati in merito alle torture e ai maltrattamenti subiti da parte della polizia, denuncia che ebbe eco sulla Depêche d’Indochine e su La Lutte, Lu Sanh Hanh e sette dei suoi compagni furono condannati a pene detentive lievi, comprese tra i sei e i 18 mesi[3].
Il fermento tra i lavoratori si manifestò con scioperi parziali che culminarono nello sciopero generale del 1937 che coinvolse i lavoratori dell’arsenale di Saigon, della ferrovia Trans-Indocinese (Saigon-Hanoi), i minatori del Tonchino e i coolies delle piantagioni di gomma, in altre parole la massa del proletariato. Chiedevano la giornata lavorativa di otto ore, i diritti sindacali, il diritto di sciopero e di riunirsi, la libertà di stampa, ecc. Fu durante questa lotta che i lavoratori, aiutati dai militanti, organizzarono i loro comitati di sciopero e di sostegno e i loro contatti attraverso tutto il paese. C’era qualcosa di spontaneo in questa ondata di rivendicazioni e di esplosioni a catena, e nella comprensione limitata degli operai e dei contadini. Essi erano alimentati dall’illusione delle possibilità di libertà e di riforma sociale offerte dal Fronte Popolare del paese metropolitano. L’agitazione e la propaganda, nonché le attività legali e clandestine dei gruppi politici organizzati, i cui membri si potevano contare sulle dita, non bastano a spiegare questo vasto movimento.
Fu allora che Brévié, nominato governatore della colonia dal governo del Fronte Popolare, ricorse alla repressione. Non soltanto fu vietato lo scheletro dei sindacati operai formatosi durante lo sciopero generale e i suoi militanti furono mandati in prigione (ottobre 1937), ma fu sciolto anche il Movimento del Congresso indocinese. I giornali trotskisti e stalinisti che a volte si era riusciti a pubblicare in lingua vietnamita furono nuovamente vietati e la legislazione sul lavoro rimase lettera morta. Ora era difficile per gli stalinisti continuare a difendere il Fronte Popolare, che non aveva in alcun modo cambiato radicalmente la politica coloniale imperialista della Francia.
I processi di Mosca erano ormai al culmine e il Partito Comunista francese inviò il deputato Honel per dare agli stalinisti locali l’ordine di rompere con i trotskisti. Abbandonando La Lutte ai trotskisti, gli stalinisti impiegarono contro di loro gli stessi metodi velenosi dei loro padroni del Cremlino. Nel loro nuovo giornale Le Peuple (in seguito Dan-chung) avrebbero dipinto i loro ex compagni come spie del Mikado e provocatori. Il periodo degli omicidi metodici sarà descritto quando arriveremo al periodo 1945-46. L’obbedienza totale e immediata del gruppo stalinista agli ordini di Mosca può essere spiegata solo con il loro cieco fanatismo. Giovani uomini, spinti da un ideale, si trasformarono da un giorno all’altro in lupi che ululavano alla morte insieme agli altri lupi contro i loro fratelli di lotta, con i quali solo il giorno prima erano stati fianco a fianco, sia nella lotta che in prigione. L’irreggimentazione li aveva corrotti, insieme al movimento operaio e contadino vietnamita, che fu così sacrificato fin dalla nascita alla politica estera russa. Come avremmo visto in seguito, gli sfruttati avrebbero forgiato nuove catene per sé stessi sotto la guida di questi «rivoluzionari di professione», mentre pensavano di lottare per la loro emancipazione – le catene del mondo industriale, dove la produzione non è una necessità reale e vitale dell’uomo, ma quella del capitalismo di Stato, poiché l’«avanguardia rivoluzionaria» inevitabilmente si trasformava in una burocrazia che possedeva lo Stato.
Ovviamente, l’imperialismo francese respirò liberamente e facilmente durante questo periodo di relativo sostegno degli stalinisti all’integrità dell’impero. La calma fu rotta dal patto Hitler-Stalin del 23 agosto 1939, seguito dalla dichiarazione di guerra del 3 settembre. Il decreto del 26 settembre, che sciolse tutte le organizzazioni “legate alla Terza Internazionale”, fu il preludio agli arresti di massa di militanti di tutte le tendenze, stalinisti, trotskisti, nazionalisti e i leader delle sette magico-religiose nell’ottobre 1939, per poi chiudere su di loro le porte sinistre delle prigioni e dei campi di «rieducazione speciale dei lavoratori», i campi di sterminio istituiti in regioni malsane, in cui pochi sopravvissero. In una dichiarazione del novembre 1939, in conformità con la politica estera di Stalin, il Partito Comunista indocinese denunciò contemporaneamente la guerra “imperialista” della Francia contro la Germania e i piani di aggressione del Giappone contro la Russia. Questo improvviso cambiamento si tradusse nel 1940 in una rivolta contadina clandestina fomentata dal Partito Comunista indocinese in Cocincina, che fu repressa nel sangue.
Le sette e il Viet Minh
[Viene qui omessa la sezione che tratta dell’espressione del malcontento contadino attraverso la coscienza settaria buddista, e viene estrapolato solo ciò che riguarda i movimenti durante la Seconda guerra mondiale – N. d. T.].
I giovani marxisti portarono con sé nelle carceri il loro sogno di «trasformare la guerra imperialista in una guerra civile», ma le parole pronunciate a Zimmerwald, provenienti dalla lontana Europa, e la loro illustrazione negli eventi russi del 1917, continuarono comunque a risuonare nei loro cuori. Una canzone del Partito Comunista composta intorno al 1935 che invocava la guerra civile rimase impressa nei loro cuori: «Coglieremo l’occasione della guerra tra gli imperialismi e quando la Russia sovietica sarà attaccata, ci impegneremo nella guerra civile» («Thua luc de-quoc tranh-chien, voi luc danh So-viet lam noi-chien mau»). Fu proprio sulla base della propaganda a favore di questa stessa idea contenuta in un foglio clandestino trotskista, il Vanguard (Tien-dao), che il procuratore della corte di Saigon aveva sostenuto la sua accusa durante il processo alla Lega dei Comunisti Internazionalisti nel settembre 1936.
Gli arresti preventivi non impedirono ai contadini della Cocincina di sollevarsi nel dicembre 1940 e nello stesso anno scoppiò una rivolta a Bacson, nel Tonchino. La repressione causò migliaia di morti e i tribunali militari condannarono a morte o alla prigione coloro che furono catturati. Le prigioni erano così affollate che un certo numero di prigionieri furono rinchiusi in chiatte ormeggiate vicino a Saigon, dove morirono come mosche.
[Viene qui omesso altro materiale sulle credenze e la storia dei Cao Dai e degli Hoa Hao – N. d. T.].
Va ricordato che dopo la sconfitta francese in Europa i giapponesi occuparono l’Indocina e, d’accordo con Vichy, mantennero l’apparato amministrativo e repressivo francese, insieme ad un nuovo governatore coloniale ormai al loro servizio. La politica dei giapponesi cercava di eliminare la tendenza stalinista e di cercare un compromesso di collaborazione con le tendenze nazionaliste e le sette; nel 1942 il «bonzo pazzo» che era stato esiliato in Laos fu da loro liberato e quando, il 9 marzo 1945, i giapponesi posero fine all’amministrazione coloniale francese, armarono i devoti di queste due sette, sperando di poterli utilizzare come ausiliari militari in caso di uno sbarco americano.
Torniamo agli stalinisti e alle loro attività fino alla presa del potere nel 1945. Nel maggio 1941 Ho Chi Minh, che viveva nel Guangxi in Cina, convocò una conferenza che riunì elementi vietnamiti di tutte le origini e formò con loro un’organizzazione dal nome modesto di Viet Minh (abbreviazione di Viet-nam dot-lap dong minh, Lega per l’indipendenza del Vietnam), la cui leadership effettiva apparteneva ai suoi seguaci.
I generali cinesi del Guomindang convocarono allora una seconda conferenza dei rifugiati politici vietnamiti in Cina a Liuzhou il 4 ottobre 1942, con l’intenzione di spazzare via la tendenza comunista e di costituire il Dong-minh hoi, l’Associazione per la Liberazione Nazionale, presieduta da Nguyen Hai Tha, un vecchio emigrato filocinese. Ho Chi Minh fu imprigionato per 18 mesi. Tuttavia, alla conferenza del marzo 1944 a Liuzhou, nel corso della quale fu elaborato un programma per un «governo repubblicano provvisorio del Vietnam», il Viet Minh era rappresentato e aveva un portafoglio. Questo programma consisteva in due punti: la liquidazione del dominio francese e giapponese e l’indipendenza del Vietnam con l’aiuto del Guomindang; ma mentre i nazionalisti di questo governo rimanevano in Cina, dove aspettavano l’intervento del Guomindang per assicurarsi il potere in Vietnam, il gruppo di Ho Chi Minh, sotto la bandiera del Viet Minh, tornò nel Tonchino e si stabilì nella regione di Thai-nguyen. Quando il colpo di Stato giapponese del 9 marzo 1945 pose fine al dominio francese in Indocina, il Viet Minh si ritrovò praticamente padrone degli altipiani. Orientandosi verso gli Alleati (Russia, Cina nazionalista, Gran Bretagna e Stati Uniti), Ho Chi Minh organizzò alcune scaramucce contro i giapponesi, prese contatto con gli americani a Kunming e ottenne da loro le armi con cui combattere al fianco degli Alleati. Dopo la resa dei giapponesi il 15 agosto 1945, il gruppo di Ho Chi Minh (il Viet Minh) era già una forza militare organizzata, anche se armata in fretta e numericamente debole.
Agosto 1945, L’arrivo di Ho Chi Minh
Esamineremo qui la situazione che permise la presa del potere da parte di Ho Chi Minh e dei suoi seguaci del Viet Minh nell’agosto 1945.
I primi colpi di cannone in Europa, che diedero inizio alla “continuazione della politica” nel sangue degli schiavi, aprirono all’imperialismo giapponese, impegnato dal 1937 in una guerra di conquista su vasta scala in Cina, la prospettiva di realizzare il Piano della Grande Asia di Tojo per cacciare i vecchi padroni occidentali dal Sud-Est asiatico. Quando i francesi rifiutarono di permettere alle loro truppe di penetrare nel Tonchino nel 1940, i giapponesi passarono all’attacco a Lan-son e Dongdang la sera del 22 settembre e il 24 sbarcarono ad Haiphong dopo aver bombardato il porto. Iniziò così l’occupazione giapponese dell’Indocina, che mantenne l’apparato amministrativo del colonialismo francese con al comando un ammiraglio di Vichy, che collaborò in gran parte con lo stato maggiore giapponese. Il saccheggio sistematico dei prodotti del paese per le esigenze della guerra gettò la popolazione in una miseria sempre più profonda; più che mai le masse contadine vivevano in condizioni di estrema povertà. I bombardamenti americani, i tifoni e il freddo eccezionale si aggiunsero al disastro, culminato nella grande carestia del marzo-maggio 1945, con circa un milione di morti nel nord, compresi i morti per le strade di Hanoi.
Nel sud del paese le sette religiose perseguitate dai francesi riponevano speranze nel Giappone. I caodaisti, il cui Papa Pham Cong Tac viveva in esilio a Nossi-lava (Madagascar), contavano sul ritorno del principe Cuong-de, rifugiato in Giappone, mentre i devoti del “bonzo pazzo”, gli Hoa-Hao, avevano ottenuto dai giapponesi il ritorno del loro maestro Huynh Phu So, esiliato in Laos dai francesi. Dal 1943 in poi si formarono alcuni gruppi nazionalisti filogiapponesi, i cui membri furono utilizzati nella propaganda giapponese e nei servizi di polizia.
Intorno al 1943, nella regione montuosa di Tuyen-quang, vicino alla frontiera cinese nel nord, Ho Chi Minh organizzò il suo centro di guerriglia e prese contatto con gli americani per chiedere loro armi, proclamandosi dalla parte degli «Alleati democratici contro il fascismo giapponese»; il suo “esercito popolare” fece il suo ingresso ufficiale nella resistenza a partire dal 22 dicembre 1944.
Di fronte all’offensiva americana nel Pacifico e alla minaccia di rovina per l’Asse Berlino-Tokyo-Roma, i giapponesi posero fine all’autorità dei francesi su tutta la penisola con un colpo di Stato iniziato il 9 marzo 1945. Le truppe francesi furono disarmate e confinate nelle caserme, i comandanti furono imprigionati o giustiziati; la popolazione fu concentrata e sottoposta a un controllo rigoroso. I giapponesi misero in piedi una proclamazione d’indipendenza dell’imperatore Bao Dai e, tramite Tran Trong Kim, crearono un «governo nazionale» a Hué il 2 marzo. La cappa di piombo che gravava sul paese era ormai spezzata. Le masse popolari si sentivano sollevate, poiché dei due briganti che le avevano saccheggiate, uno era caduto sotto i colpi dell’altro, ed erano piene di soddisfazione per l’impotenza di quest’ultimo, insieme all’illusione che con l’“indipendenza nazionale” si sarebbe fatto qualcosa di positivo per la loro condizione. Gli arroganti poliziotti del regime francese non erano più nelle strade di Saigon a interrogare gli operai e gli impiegati che tornavano dal lavoro per verificare le loro carte d’identità (giay thne than). Non si sentivano più i coloni francesi minacciare di prendere a calci nel sedere i ragazzi dei risciò che reclamavano ciò che era loro dovuto. I membri dei gruppi nazionalisti filogiapponesi ricevettero incarichi chiave nell’amministrazione. I giovani delle campagne, delle città e dei villaggi furono organizzati in gruppi paramilitari per fungere da forza ausiliaria dell’esercito giapponese in caso di sbarco americano; questo movimento era noto con il nome di Avanguardia della Gioventù (Thank-nien tied-phong). I caodaisti formarono propri gruppi armati, mentre gli Hoa-Hao forgiavano armi affilate in attesa degli eventi, ovvero dell’occasione per prendere il potere. I militanti del gruppo stalinista che erano sfuggiti alla repressione o che erano stati liberati dai campi di concentramento dopo il 9 marzo lavoravano – mobilitati in qualche modo – per il «governo nazionale» e i contadini, e operavano clandestinamente all’interno dell’Avanguardia Giovanile. Tutto questo fermento politico nel sud durante i cinque mesi che precedettero la sconfitta dei giapponesi stava sfuggendo al loro controllo, mentre nelle regioni dell’Alto Tonchino si espandeva la zona dei gruppi armati di Ho Chi Minh, anch’essi in attesa degli “eventi”.
Le bombe di Hiroshima e Nagasaki, seguite dalla capitolazione del Giappone il 15 agosto 1945, segnarono un’altra era sanguinosa per questo angolo d’Asia, che le potenze imperialiste (l’accordo di Potsdam tra Stalin, Churchill e Roosevelt) intendevano occupare a nord del diciassettesimo parallelo con le truppe cinesi e a sud con quelle britanniche. Questa nuova spartizione del mondo cancellò l’imperialismo francese dalla mappa dell’Indocina e, grazie alla mediazione dei cinesi di Chiang Kai-Shek, gli americani contavano di includere il Vietnam del Nord nella loro sfera di influenza nel Sud-Est asiatico.
Di fronte al vuoto politico creato dalla resa giapponese e precedendo le truppe cinesi che portavano con sé i nazionalisti filocinesi del Dong-minh-hoi e del Viet-nam quoc dan-dang, Ho Chi Minh riunì i suoi sostenitori nel villaggio di Tantrao (provincia di Thai-nguyen) e creò un Comitato per la Liberazione Nazionale del Vietnam (Uy-ban giai-phong dan-toc Viet-nam), composto in maggioranza da una decina di ex membri del Partito Comunista. In questo modo ruppe con il “governo in esilio” in Cina e quindi con i nazionalisti filocinesi. Dopo alcune spettacolari manifestazioni organizzate dai suoi emissari ad Hanoi, Ho Chi Minh fece il suo ingresso nella città alla testa del suo “esercito popolare” intorno al 18 agosto. Senza ulteriori indugi, il rappresentante del governo filogiapponese di Bao Dai ad Hanoi, Phan Ke Toai, si ritirò. Si instaurò così il potere de facto del Viet Minh, con l’indifferenza dei giapponesi, che avevano ricevuto istruzioni dagli Alleati di mantenere l’ordine fino all’arrivo delle truppe cinesi. Va anche detto che i giapponesi liberarono circa 400 prigionieri politici che erano stati incarcerati negli edifici Shell e che erano stati reclamati dal Viet Minh, e che permisero loro di procurarsi delle armi. Contemporaneamente, i “comitati popolari” presero il controllo dell’amministrazione nelle province e i mandarini scomparvero o si sottomisero. Il 25 agosto fu formato ad Hanoi un governo provvisorio del Viet Minh, presieduto da Ho Chi Minh; a Hue, dopo le dimissioni del governo di Tran Trong Kim, anche Bao Dai abdicò e fu designato “consigliere supremo” da Ho Chi Minh.
Cosa accadde nel sud del paese dopo il 15 agosto? A Saigon si fece sentire la stessa assenza di potere che nel nord; le truppe giapponesi sembravano congelate nell’immobilità in attesa dell’arrivo degli inglesi, mentre dal 9 marzo i francesi disarmati aspettavano la loro “liberazione” e il ritorno al potere. I sostenitori di Ho Chi Minh (alcuni emissari giunti dal Tonchino si erano uniti al gruppo stalinista della Cocincina) giravano in auto dotate di altoparlanti gridando “difendete il Viet Minh” (“ung-ho Viet minh”), il ‘Viet Minh’ era un nome fino ad allora sconosciuto a Saigon ed esercitava tutto il fascino del mistero, e poi distribuivano volantini in cui si dichiaravano «dalla parte degli alleati russi, cinesi, britannici e statunitensi per l’indipendenza». Il «Fronte Nazionale Unito», che in pochi giorni aveva riunito il Partito per l’Indipendenza del Vietnam (Viet-nam quoc gia doc lap dang), la Gioventù d’Avanguardia, il Gruppo degli Intellettuali, la Federazione dei Funzionari Pubblici e la setta buddista Tinh do cu insieme agli Hoa Hao e ai Cao Dai, invitava la popolazione a manifestare per l’indipendenza in una situazione incerta e minacciosa. Il 21 agosto 1945, per la prima volta nella vita politica del paese, fin dal mattino, vere e proprie masse di persone si radunarono come formiche e riempirono il Boulevard Norodom, poi i Giardini Botanici vicino al palazzo del governatore, e infine attraversarono le principali arterie scandendo gli slogan: «Abbasso l’imperialismo francese!» («Da dao de quoc phap»), «Viva l’indipendenza del Vietnam!» («Vietnam hoan toan doc lap»), mentre le bandiere e gli striscioni che sventolavano sopra questo esercito in movimento indicavano la presenza della Gioventù d’Avanguardia, che soltanto il giorno prima era un’organizzazione filogiapponese, dei contadini guidati da militanti stalinisti provenienti dai dintorni di Saigon, degli operai di Saigon-Cholon, dei caodaisti, dei buddisti di varie sette raggruppati attorno ai loro bonzi, degli Hoa Hao e dei militanti dei gruppi trotskisti La Lutte e della Lega dei Comunisti Internazionalisti. Questi ultimi, sotto la bandiera della Quarta Internazionale, lanciavano slogan come «La terra e le risaie ai contadini, le fabbriche e le imprese ai lavoratori!». Alcuni manifestanti erano armati di bastoni di bambù affilati. Si vedevano striscioni con scritte insolite come «Gruppi d’assalto assassini» («Ban am sat xung phong») innalzati da uomini a torso nudo e tatuati, che portavano armi affilate e vecchi fucili. La polizia vietnamita al servizio dell’occupazione non sapeva più da dove prendere ordini: rimase passiva di fronte al corteo che attraversava la città in sciopero, e la folla scomparve solo nel pomeriggio. Questa manifestazione, che doveva la sua iniziativa al Viet Minh, era la classica tattica preparatoria alla presa del potere: rappresentava il sigillo dell’approvazione generale. Ma in realtà tutti scesero in strada con aspirazioni diverse. L’unico sentimento comune, ma travolgente, era «mai più i francesi al potere, viva la fine del regime coloniale!».
Questo primo risveglio di queste masse, che erano state da sempre «incatenate e imbavagliate», emanava una tensione elettrica in mezzo ad una calma insolita, la calma minacciosa che precede una tempesta. Ogni costrizione era spezzata e tutti sembravano vivere un momento di totale libertà, in cui l’assenza dello Stato e il crollo della polizia permettevano a ciascuno di prepararsi a modo suo all’eventualità di un terribile conflitto. Quale oscurità all’orizzonte di un cambiamento fondamentale! Roosevelt, Churchill e Stalin avevano deciso il nostro destino a Yalta e Potsdam. Ora dovevamo essere gettati anima e corpo in un futuro senza domani. Di fronte alla prospettiva dell’imminente arrivo delle truppe britanniche e alla minaccia del ritorno del vecchio regime coloniale (il colonnello Cédile, inviato speciale della «Nuova Francia», era già nel palazzo del governatore generale a Saigon), tutti decisero di cercare e procurarsi armi; tutti vivevano nella stessa atmosfera esplosiva.
Gli eventi stavano per svolgersi in questi momenti cruciali di crisi generale con la velocità di un fulmine. I gruppi nazionalisti e le sette che erano stati filogiapponesi rimanevano armati, ma incapaci di prendere l’iniziativa: il loro tempo era finito con la caduta del Giappone. Il Viet Minh, rafforzato politicamente dall’arrivo di Ho Chi Minh ad Hanoi e avendo già preso il controllo del movimento dell’Avanguardia Giovanile, i cui leader si erano uniti ad esso, e rafforzato anche dalla gigantesca manifestazione del 25 agosto, in cui aveva visto l’approvazione delle masse alla sua politica di collaborazione con gli “Alleati” per l’indipendenza nazionale, stava per imporre il suo dominio.
Infatti, sui muri della città apparve presto un proclama firmato dal «Comitato esecutivo provvisorio del Sud» («Uy-ban hanh chanh lam-thoi Nambo»). Il Comitato invitava la popolazione a schierarsi al suo fianco per ottenere l’indipendenza del paese attraverso negoziati con gli «Alleati» e prometteva la formazione di una repubblica parlamentare democratica. Contemporaneamente a questo manifesto che annunciava la “presa del potere” da parte del Viet Minh, davanti al municipio di Saigon fu affisso un elenco dei membri del governo provvisorio, presieduto dallo stalinista Tran Van Giau, fissato a un’imponente colonna ricoperta di stoffa rossa; un altro stalinista, Nguyen Van Tao, che era stato consigliere comunale di Saigon, fu assegnato al Ministero dell’Interno e, per dare al loro comitato l’apparenza di un’unione nazionale accettabile agli Alleati in un eventuale negoziato, gli stalinisti si assicurarono la collaborazione governativa di un medico, di alcuni intellettuali non stalinisti e persino di un proprietario terriero. Questo comitato Nam-bó sedeva nel municipio, sorvegliato da miliziani in uniforme bianca. La polizia e i poliziotti si erano uniti a loro, e i commissariati erano controllati dai compagni di Tran Van Giau; i pirati di Le Van Vien, chiamati Bay Vien, erano stati arruolati come poliziotti e come agenti per i futuri omicidi stalinisti (erano ben noti ai francesi con l’etichetta di “bande di Binh xuyen”, il nome di un villaggio situato tra Saigon e Cholon).
L’attività del Comitato Nam-bó si estese alle province, dove furono istituiti comitati provvisori che presero il controllo dei comitati popolari sorti spontaneamente nei villaggi e della vecchia Gioventù d’Avanguardia. L’arrivo della Commissione Alleata fu annunciato per l’inizio di settembre. Per le strade di Saigon sventolavano immensi striscioni con scritte di benvenuto in inglese, russo, cinese e vietnamita: «Benvenute forze alleate!». Alcune azioni dimostrative rivelarono le intenzioni del Comitato Nam-bó di fare piazza pulita del colonialismo francese: le strade di Saigon cambiarono nome. La Rue Catinat, l’arteria lussuosa della città, famosa per i suoi uffici di polizia, le prigioni e le camere di tortura, fu battezzata “Via della Comune di Parigi”, e il Boulevard Norodom fu chiamato “Boulevard della Repubblica” … Le statue degli “eroi” della conquista (il vescovo di Adran che tiene per mano il giovane principe Canh davanti alla cattedrale, l’ammiraglio Rigault de Genouilly sul fiume di Saigon e Bonnard davanti al Teatro Municipale) e altri monumenti dell’era coloniale furono distrutti.
La mattina del 2 settembre il Comitato Nam-bó organizzò una grande processione ufficiale. La milizia appena armata aprì la marcia in uniforme. Nel pomeriggio alcuni colpi furono sparati nella piazza della cattedrale, non si sa da dove, provocando un’esplosione generale; i manifestanti si lanciarono sulle case dei francesi e la manifestazione terminò a tarda notte con morti e feriti da entrambe le parti.
Ben presto arrivarono in aereo i Gurkha della XX Divisione indiana al comando del generale britannico Gracey. Fin dal suo arrivo, Gracey fece diffondere in tutta la città volantini lanciati da aerei da caccia giapponesi in cui proclamava di aver incaricato i giapponesi di mantenere l’ordine pubblico e di aver proibito alla popolazione di detenere armi sotto pena di severe punizioni. Un immenso manifesto che ripeteva questo proclama fu affisso sulle mura della città. Il tono altezzoso di questo rappresentante militare alleato equivaleva ad un avviso formale, rivolto non soltanto ai gruppi armati delle sette religiose che avevano conservato quantità di armi giapponesi, ma anche al Comitato Nam-bó, la cui milizia armata era ritenuta più o meno responsabile dei «disordini» del 2 settembre. Gracey installò il suo quartier generale nel piccolo palazzo del governatore della Cocincina. Un’attività febbrile agitava i gruppi e le sette. Gli Hoa Hao assunsero il nome di Partito Socialdemocratico (Dang dan-xa) e sembra che, insieme ai caodaisti, fossero stati invitati dal Viet Minh a ricoprire alcuni incarichi ministeriali subordinati agli affari sociali. I trotskisti del gruppo La Lutte si pronunciarono a favore del sostegno al Viet Minh stalinista in questa fase della lotta per l’indipendenza nazionale e per la formazione di una repubblica democratica, ma dichiararono di riservarsi il diritto di critica; un’altra tendenza trotskista denunciò come un’illusione alimentata tra le masse la possibilità di ottenere l’indipendenza nazionale attraverso negoziati con i briganti imperialisti di cui il Viet Minh sollecitava l’alleanza. Reclamando l’armamento del popolo (contrariamente alle intenzioni del Comitato Nam-bó di controllare tutti i gruppi armati) e la preparazione di un’insurrezione armata e dichiarandosi contro il ritorno del vecchio regime, organizzarono alcune decine di operai e impiegati in un «Comitato rivoluzionario popolare» («uyban nhan-dan cach-mang») nel sobborgo di Tan-dinh a Saigon, e un comitato popolare simile fu formato a Bien-hoa, a circa 30 chilometri da Saigon. Ma l’attività di tali comitati, in dualismo con il potere de facto degli stalinisti, era una macchia che poteva diffondersi, e l’arresto e l’incarcerazione dei loro membri da parte della polizia vi pose fine. Va notato che i militanti di Tan-dinh si lasciarono disarmare senza protestare, perché temevano che se avessero sparato sulla polizia avrebbero solo alimentato le accuse di provocazione lanciate contro di loro dai responsabili del municipio e sarebbero stati fraintesi dalle masse. I capi delle sette, anch’essi vittime delle ricerche della polizia, scomparvero insieme ai loro gruppi armati. La repressione del Viet Minh mirava già a controllare tutti i suoi oppositori.

Il Comitato Nam-bó, al quale Gracey aveva accordato alcuni riconoscimenti di cortesia senza dargli un riconoscimento formale, operava ancora nel municipio; d’altra parte, anche Cédile, che complottava febbrilmente con gli inglesi per «ristabilire l’ordine coloniale», aveva avviato un dialogo tra sordi con questo stesso Comitato. I volantini del 17 settembre del Comitato chiamavano allo sciopero generale contro i francesi, ma sempre nella speranza di una possibile negoziazione con gli inglesi, e raccomandavano la calma alla popolazione. Tre giorni dopo, il 20, la stampa vietnamita fu vietata dagli inglesi e i proclami del Comitato furono strappati e rimossi dai muri della città. Il 22 i britannici controllavano la prigione e stavano riarmando circa 1.500 soldati francesi che erano stati rinchiusi dai giapponesi nelle caserme del secondo reggimento indocinese. Infine, durante la notte tra il 22 e il 23 settembre, i francesi, aiutati dai Gurkha, rioccuparono le stazioni di polizia, il quartier generale della polizia politica, l’ufficio delle imposte e l’ufficio postale. Il Comitato Viet Minh lasciò il municipio e si ritirò nel quartiere di Cholon; quella stessa notte scoppiò l’insurrezione di Saigon.
L’insurrezione di Saigon del 23 settembre 1945
Una delle principali preoccupazioni del Comitato del Viet Minh era quella di ottenere il “riconoscimento” da parte delle autorità britanniche come governo de facto. A tal fine, il comitato fece tutto il possibile per dimostrare la propria forza e la propria capacità di “mantenere l’ordine”.
Attraverso la stampa ordinò lo scioglimento di tutti i gruppi partigiani che avevano svolto un ruolo attivo nella lotta contro l’imperialismo giapponese.
Tutte le armi dovevano essere consegnate alla polizia del Viet Minh. La milizia del Viet Minh, nota come “Guardia Repubblicana” (Cong hoa-ve-binh), e la sua polizia avevano quindi il monopolio legale del porto d’armi.
I gruppi presi di mira da questa decisione non erano solo alcune sette religiose (i Cao Dai e gli Hoa Hao), ma anche i comitati operai, molti dei quali erano armati.
Erano inoltre nel mirino l’Organizzazione della Gioventù d’Avanguardia e una serie di “gruppi di autodifesa”, molti dei quali avevano sede nelle fabbriche o nelle piantagioni. Questi gruppi sostenevano un programma sociale molto radicale, ma non erano disposti ad accettare il controllo totale del Viet Minh.
I trotskisti del gruppo Scintilla (Tia Sang), anticipando un confronto imminente e inevitabile con le forze militari britanniche e francesi, iniziarono a distribuire volantini che invitavano alla formazione di comitati di azione popolare (tochuc-uy-ban hanh-dong) e all’armamento del popolo.
Essi sostenevano la creazione di un’assemblea popolare, che doveva essere l’organo di lotta per l’indipendenza nazionale.
I lavoratori del grande deposito dei tram di Go Vap (a circa otto chilometri da Saigon), aiutati dai militanti di Tia Sang, organizzarono una milizia operaia. La milizia lanciò un appello ai lavoratori della zona di Saigon-Cholon affinché si armassero e si preparassero alla lotta inevitabile contro le forze dell’imperialismo britannico e francese. A quel punto il generale Gracey aveva proclamato la legge marziale.
Prima di abbandonare il centro di Saigon, il Comitato del Viet Minh tappezzò i muri con manifesti che invitavano la popolazione a «disperdersi nelle campagne», a «evitare lo scontro» e a «mantenere la calma, perché il Comitato spera di aprire negoziati».
Un senso di insicurezza aleggiava sulla città, che lentamente si svuotava di parte della sua popolazione vietnamita.
Durante la notte tra il 22 e il 23 settembre 1945, le truppe francesi, sostenute dai Gurkha comandati da ufficiali britannici, rioccuparono varie stazioni di polizia, l’ufficio postale, la banca centrale e il municipio. Non incontrarono alcuna resistenza immediata. La notizia si diffuse a macchia d’olio e scatenò una vera e propria insurrezione nei quartieri operai della città. Si sentirono esplosioni in zone molto distanti tra loro. Il movimento era scoppiato senza che nessuno avesse dato alcun tipo di direttiva.
Il Viet Minh non aveva certamente chiamato all’insurrezione. La sua unica preoccupazione era “la legge e l’ordine” e la propria ascesa al potere, dopo i negoziati.
In tutti i sobborghi periferici furono abbattuti alberi, ribaltate auto e camion e ammucchiati mobili nelle strade. Barricate rudimentali furono erette per impedire il passaggio delle pattuglie francesi e Gurkha e l’occupazione di posizioni strategiche da parte delle forze imperialiste. Il centro della città cadde rapidamente sotto il controllo delle truppe francesi e giapponesi, sostenute dai Gurkha. Ma i sobborghi più poveri di Khanh Hoi, Cau Kho, Ban Co, Phu Nhuan, Tan Dinh e Thi Nghe erano saldamente nelle mani dei ribelli.
I ribelli non erano un gruppo omogeneo. Tra loro c’erano membri dei Comitati popolari, della Gioventù d’Avanguardia, caodaisti e persino gruppi “fuori linea” delle Guardie repubblicane staliniste.
Nelle zone controllate dalle forze popolari i francesi venivano fucilati: i funzionari più crudeli del vecchio regime, i poliziotti odiati, noti alla popolazione per aver partecipato alle torture, venivano cercati, uccisi e gettati nei canali. Il razzismo, alimentato da ottant’anni di dominio imperialista e dal disprezzo dell’uomo bianco per l’uomo giallo, lasciò il segno nella violenza delle masse, che esplose in momenti come questi. Il massacro di un centinaio di civili francesi nella tenuta Heraud, a Tan Dinh, fu un doloroso promemoria di questo fatto. Le minacce di alcuni coloni francesi di «spellare vivi gli annamiti per farne sandali di cuoio» si ritorse contro tutti i bianchi.
Le forze di occupazione perquisirono febbrilmente tutto il centro della città. Ciò non impedì agli insorti di incendiare diversi edifici importanti, come la Manufactured Rubber Company, e alcuni magazzini.
Durante la notte tra il 23 e il 24 settembre, i guerriglieri attaccarono il porto senza tregua. Il giorno seguente, gruppi rivoluzionari sfilavano apertamente in Rue de Verdun e marciavano lungo il Boulevard de la Somme, convergendo verso la piazza del mercato, che in seguito incendiarono.
A Saigon non c’era né acqua né elettricità. Le forniture stavano esaurendosi. Ogni giorno i francesi cercavano di estendere l’area sotto il loro controllo, mentre vari gruppi armati si organizzavano come guerriglieri nella periferia della città.
Il Comitato del Viet Minh pubblicò un volantino: «I francesi […] sembrano provare piacere nell’uccidere il nostro popolo. C’è solo una risposta: un blocco alimentare». Mentre cercava di «affamare» i francesi (una speranza vana, dato che le navi britanniche controllavano l’accesso al porto), il Viet Minh continuava ad aggrapparsi alla speranza di avviare negoziati con gli inglesi.
I colloqui con Gracey iniziarono finalmente… e il 1° ottobre fu annunciata una tregua. Il 5 ottobre arrivò il generale Leclerc, capo della forza di spedizione francese. La sua missione era quella di “ristabilire l’ordine” e “costruire un’Indocina forte all’interno dell’Unione Francese”. Sbarcò con le sue truppe. I commando della corazzata Triomphant sfilarono lungo Rue Catinat. L’odiato tricolore sventolava nuovamente dalle finestre.
I “negoziati” tra il Viet Minh e gli inglesi continuarono. L’unico risultato fu che alle truppe britanniche e giapponesi fu concesso “passaggio libero e senza molestie” attraverso le zone occupate dagli insorti. Il Comitato del Viet Minh, continuando la sua politica di appeasement nei confronti degli alleati imperialisti, aveva consapevolmente preso questa decisione.
I Gurkha e i giapponesi spostarono ulteriori distaccamenti occupando punti strategici alla periferia di Saigon. Il 12 ottobre le truppe francesi, sostenute dai Gurkha, lanciarono un attacco generale verso nord-est. Le misere capanne dei contadini bruciarono da Thi Nghe a Tan Binh. L’accerchiamento della città da parte dei ribelli fu gradualmente rotto, in combattimenti disperati. Il capo del gruppo di guerriglieri di Bay Vien rifiutò di svolgere un lavoro di polizia sottobanco contro altre tendenze non affiliate al Viet Minh. Proclamò la sua indipendenza da quest’ultimo. La sua non era l’unica banda armata a rifiutare l’autorità degli stalinisti. Il più grande di questi gruppi “dissidenti” era noto come Terza Divisione, de-tam-su-doan. Era guidato da un ex nazionalista che per un certo periodo aveva riposto la sua fiducia nel Giappone.
Qualche centinaio di uomini armati organizzò una strenua resistenza contro i francesi nella Plaine des Joncs, ma si arrese pochi mesi dopo e il gruppo si sciolse.
Il Viet Minh non tollerava alcuna tendenza che osasse formulare la minima critica nei suoi confronti. Affrontava tali tendenze liquidandole fisicamente. I militanti del gruppo trotskista La Lutte furono le prime vittime del terrore stalinista, nonostante le loro dichiarazioni di «sostegno critico al governo del Viet Minh».
Riuniti in un tempio nella zona di Thu Due, mentre preparavano la lotta armata contro i francesi sul fronte di Gia Dinh, una mattina furono circondati dal Viet Minh, arrestati e internati poco dopo a Ben Sue, nella provincia di Thu Dau Mot.
Lì furono tutti fucilati, insieme ad altri 30 prigionieri, all’arrivo delle truppe francesi.
Tra gli assassinati c’era Tran Van Thach, ex consigliere comunale di Saigon, eletto nel 1933 su una lista stalinista-trotskista e rilasciato pochi mesi prima dal campo di lavoro di Poulo Condore.
Ta Thu Thau, anch’egli rilasciato da Poulo Condore, si era recato nella provincia del Tonchino per aiutare a organizzare i soccorsi alle zone colpite dalla carestia. Fu assassinato dai sostenitori di Ho Chi Minh, mentre tornava indietro, nell’Annam centrale.
In questo clima di terrore instaurato dal Viet Minh, la milizia operaia del deposito dei tram di Go Vap, forte di circa 60 membri, partecipò all’insurrezione di propria iniziativa. I 400 operai e impiegati della Tramway Company erano noti per la loro militanza e il loro spirito indipendente.
Sotto il dominio imperialista francese non esistevano diritti sindacali. Dopo il 9 marzo 1945, quando i giapponesi avevano sostituito i francesi alla guida di questa particolare impresa, i lavoratori avevano immediatamente costituito un proprio comitato operaio e avanzato una serie di rivendicazioni.
I soldati giapponesi, guidati dal colonnello Kirino, erano venuti a minacciarli, ma di fronte alla loro posizione militante e unitaria, erano stati costretti a concedere loro un aumento salariale e persino a riconoscere 11 delegati eletti dalle 11 categorie di lavoratori: elettricisti, falegnami, metalmeccanici, ecc.
Nell’agosto 1945, quando i tecnici stranieri abbandonarono momentaneamente l’impresa, il deposito fu occupato e gestito dagli stessi operai, fino al momento dell’insurrezione.
Tutti gli insorti che non si schierarono immediatamente sotto le bandiere del Viet Minh furono denunciati dal Viet Minh come traditori. I lavoratori che non si identificavano con la “causa patriottica” venivano definiti “sabotatori” e “reazionari”.
La CGT meridionale era presieduta dall’arcistalinista Hoang Don Van. La sua funzione era quella di controllare i lavoratori della zona di Saigon-Cholon, nominando per loro dei “rappresentanti” dall’alto.
In questo clima di violento totalitarismo ideologico, i lavoratori del deposito dei tram di Go Vap, sebbene affiliati alla CGT meridionale, rifiutarono l’etichetta di Cong-nhan cuu-quoc (Lavoratori salvatori della patria). Insistevano nel rimanere una milizia proletaria e rifiutavano la bandiera del Viet Minh (stella gialla su sfondo rosso), affermando che avrebbero continuato la loro lotta sotto la bandiera rossa, la bandiera della loro emancipazione di classe.
I tramvieri si organizzarono quindi in gruppi di combattimento di 11 uomini sotto la guida di leader eletti… e sotto il comando generale di Tran Dinh Minh, un giovane trotskista del nord che aveva pubblicato un romanzo sociale ad Hanoi con lo pseudonimo di Nguyen Hai Au e che era venuto nel sud per partecipare alla lotta.
In questa fase gli stalinisti locali, sotto il comando di Nguyen Dinh Thau, sembravano molto più interessati ad arrestare e fucilare i loro critici di sinistra – e in realtà tutti coloro che consideravano potenziali rivali per la leadership del movimento – che a perseguire la lotta contro i francesi. Gli atti terroristici divennero la regola. Lasciarono un’impronta profonda sullo «Stato embrionale» che il maquis stava per diventare. L’emergere del Viet Minh come forza dominante, negli anni a venire, fu possibile solo dopo che fu versato molto sangue della classe operaia e contadina.
Rifiutando di accettare l’autorità di Nguyen Dinh Thau, la milizia dei tramvieri cercò di riorganizzarsi nella Plaine des Joncs, verso la quale si era aperta una via, combattendo nel frattempo contro i Gurkha e i francesi a Loc Giang, Thot Not e My Hanh.
Nella Plaine des Joncs i tramvieri stabilirono contatti con i contadini poveri. E fu qui che, in un combattimento contro le forze imperialiste, Tran Dinh Minh fu ucciso, il 13 gennaio 1946. Altri 20 tramvieri avevano già perso la vita nel corso delle battaglie combattute lungo il percorso.
L’intolleranza del Viet Minh nei confronti di tutte le tendenze indipendenti, le accuse di tradimento accompagnate da minacce di morte e la debolezza numerica della milizia dei tramvieri finirono per costringere i suoi membri a disperdersi. Tre di loro, Le Ngoc, Ky e Huong, un giovane operaio di 14 anni, furono pugnalati a morte dalle bande del Viet Minh.
L’esplosione di Saigon si propagò nelle campagne e nelle province più lontane. I contadini catturarono i funzionari locali che si erano distinti per la loro crudeltà o le loro estorsioni, e molti di essi furono messi a morte. Ma nelle campagne, come nelle città, il pretesto della rabbia popolare contro gli sfruttatori fu ovunque utilizzato dal Viet Minh per regolare i conti con i dissidenti politici.
NOTE
[1] Tra questi altri figuravano, Dao Hung Long (alias Anh Gia) e Phan Van Hum. Il gruppo affermava che «essendo in ogni momento un’ideologia reazionaria, il nazionalismo non può che forgiare una nuova catena per la classe operaia». Cfr. Ngo Van, Le mouvement IVe Internationale en lndochine 1930-1939, Cahiers Leon Trotsky (40).
[2] La Lega dei Comunisti Internazionalisti per la Quarta Internazionale, di cui era membro Ngo Van Xuyet, sosteneva la Quarta Internazionale come l’organizzazione di Ta Thu Thau, ma non partecipava al fronte La Lutte, concentrandosi invece sulla pubblicazione della rivista Le Militant.
[3] Oltre a “Lucien”, anche lo scrittore Ngo Van Xuyet fu incarcerato in questo periodo.
