THADDEUS STEVENS, L’ULTIMO GIACOBINO

Saggio pubblicato nel n. 126 di Prospettiva Marxista, novembre 2025.


Intendo premere per la piena eguaglianza, il voto ai negri e molto di più…

Il Congresso darà mandato per la confisca di ogni palmo di terra dei ribelli e di ogni dollaro di loro proprietà. Useremo le ricchezze confiscate per fondare centinaia di migliaia di fattorie negre libere e al loro fianco soldati armati per occupare ed estirpare il retaggio dei traditori. Edificheremo una terra lì di uomini liberi, donne libere, figli liberi e libertà.

[…] Me ne infischio del “popolo” e di ciò che vuole e per che cosa è pronto. Che me ne importa del “popolo” e di ciò che vuole? Questa è la faccia di un uomo che si è battuto a lungo e con tenacia per il bene del popolo, senza avere simpatia per esso – ed è ancora peggio senza parrucca. Il popolo ha eletto me per rappresentarlo, per guidarlo, e io lo guido.

Thaddeus Stevens, Lincoln, di T. Kushner – S. Spielberg, 2012.

Gli uomini e le donne che saranno chiamati a «trasformare sé stessi e le cose, e creare ciò che non è mai esistito», quegli uomini e quelle donne che prenderanno con coraggio e risolutezza il loro posto nella lotta per la società collettivista, per il comunismo, non avranno bisogno di «prendere a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi» degli alfieri delle precedenti classi rivoluzionarie allo scopo di «dissimulare a sé stessi» il contenuto delle proprie lotte o per «mantenere la loro passione all’altezza della grande tragedia storica».

Non è in effetti con l’intento di «prendere al servizio» della rivoluzione proletaria gli “spiriti del passato” che l’energica figura di Thaddeus Stevens, tra i massimi dirigenti borghesi della Seconda Rivoluzione americana del 1859-1877 – rivoluzione che dalla tragica insurrezione di John Brown, passando per la Civil War fino alla Reconstruction condusse all’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti – merita di essere ricordata e analizzata da coloro che si schierano con la classe che oggi rappresenta l’avvenire, con l’elemento sovvertitore di una società che ha ormai fatto il suo tempo, con una classe che non ha nulla da dissimulare a sé stessa.

È Marx a rammentarci che per mettere al mondo l’assai poco “eroica” società borghese furono necessari «l’eroismo, l’abnegazione, il terrore, la guerra civile…»[1]. Un eroismo e un’abnegazione che si riveleranno indubbiamente necessari anche nella guerra per l’emancipazione dell’umanità da ogni dominio di classe. È in questo senso che, scevra da ogni “illusione magnificante”, la ricostruzione di una tradizione storica della plurimillenaria lotta delle classi oppresse può trarre preziosi spunti di riflessione anche dall’esempio militante di determinati profili che pure rappresentano innegabilmente un alter rispetto alle lotte passate, presenti e future della nostra classe.

Dal recente saggio biografico dedicatogli dallo storico americano Bruce Levine[2], la figura di Thaddeus Stevens, per oltre un secolo perlopiù mistificata, demonizzata e caricaturizzata negli Stati Uniti (e poco nota in Italia) emerge in tutta la sua complessità umana e politica, risultato di un’evoluzione a volte graduale a volte sorprendentemente accelerata dispiegatasi nell’arco di più di mezzo secolo, che la colloca tra gli elementi più avanzati di un processo che, per la radicalità e profondità degli sconvolgimenti che ha prodotto sull’intero assetto sociale e politico americano, rispecchia forse molto più adeguatamente la definizione di rivoluzione di quanto si possa affermare della Guerra d’Indipendenza contro l’Inghilterra del 1775-1783[3].

Un sincero democratico borghese

Nato nel 1792 in Vermont da una famiglia Battista di agricoltori e artigiani poveri, contrassegnata da una rigorosa fede nell’egualitarismo e nella solidarietà comunitaria, Stevens, secondogenito di quattro fratelli e affetto da una malformazione congenita ad un piede che lo renderà claudicante a vita, riceve presumibilmente il proprio nome di battesimo in omaggio a Tadeusz Kościuszko, il patriota democratico polacco-lituano che combatté nelle file degli indipendentisti americani. Educato ad un protestantesimo influenzato dall’Illuminismo, dai classici antichi e dai princìpi del liberalismo borghese, Stevens vive i primi anni della sua formazione in un Territorio le cui pubbliche istituzioni erano sorte dalle rivendicazioni democratiche e dalle lotte dei piccoli farmers insediatisi nella zona, e che per primo, nel 1777, aveva condannato nella propria Costituzione locale la schiavitù (sebbene solo per i maggiori di 21 anni).

Iscrittosi ad un college nel New Hampshire grazie ai sacrifici della madre, abbandonata dal marito nel 1804, e lavorando contemporaneamente come maestro di scuola, si diploma nell’agosto 1814 con una dissertazione nella quale nel riconoscere le sostanziali ineguaglianze sociali e distinzioni di classe prodotte dal vigente sistema economico, le ritiene tuttavia inevitabili “pegni” del progresso e della ricchezza delle nazioni. Nello stesso anno si trasferisce nel sud della Pennsylvania, dove trova impiego come insegnante mentre intraprende gli studi di Legge all’università di York. Nel 1816 apre uno studio legale a Gettysburg, nel Maryland, ed è nell’attività forense che inizia a farsi conoscere per la sua arguzia e il suo pungente sarcasmo. Nel corso di un processo risponde ad un giudice che lo accusava di manifestare disprezzo per la corte: «Vostro Onore, sto facendo del mio meglio per nasconderlo»[4]. Stimato come avvocato, viene coinvolto nei primi dieci casi che giungono alla Corte Suprema della Pennsylvania dalla contea di Adams dopo aver iniziato la sua attività, e ne vince nove. Tra questi il caso Butler contro Delaplaine, in cui deve reclamare una schiava per conto del suo proprietario. Si tratta di un caso che lo scuote profondamente e che in seguito affermerà di desiderare non aver vinto[5]. Dopo alcuni anni, la professione di procuratore gli consente di investire i propri proventi nel campo immobiliare e in una ferriera. Lanciatosi nell’agone politico nei primi anni ’20, viene colpito da un’alopecia che lo porterà ad indossare una parrucca.  Nel 1833 viene eletto come candidato del Partito Anti-Massonico nella Camera dei Rappresentanti della Pennsylvania, nella quale ha modo di esprimere la sua ferma condanna di qualsiasi ineguaglianza che non sorga “spontaneamente” dal terreno dei rapporti economici, dal “mercato”, ma che sia invece imposta politicamente sul terreno dei diritti legali. Tre anni dopo è delegato alla Convenzione costituzionale dello Stato, nella quale, distinguendosi come liberale e “industrialista”, convinto della “mutua dipendenza” degli interessi delle diverse classi sociali contro i “demagoghi” che tentano di promuovere l’antagonismo «del povero contro il ricco, e del lavoratore contro il capitalista», si batte per un’educazione pubblica gratuita, senza riguardo per il reddito o per l’età, mettendo a disposizione del pubblico la sua vasta biblioteca privata.

Thaddeus Stevens, 1835

L’inizio della lotta alla slaveocracy

Nel 1832, allorché il Congresso degli Stati Uniti dispone l’applicazione di una tariffa protettiva nazionale per i manufatti d’importazione, gli Stati agricoli e schiavisti del Sud, già spaventati dalla fallita rivolta di Nat Turner, percepiscono questa tassa come un atto ostile da parte del Nordest industriale, un inaccettabile tentativo di sottrarre il potere centrale al proprio controllo e di impiegarlo contro la “peculiare istituzione”. Quando la South Carolina minaccia di secedere dall’Unione, la misura viene rapidamente revocata, suscitando la ferma disapprovazione di Stevens, che ritiene simili cedimenti al ricatto degli schiavisti la radice di tutti i successivi conflitti sezionali che affliggeranno l’Unione, il cui esecutivo, fino al 1860, è quasi ininterrottamente ostaggio di presidenze espressione degli interessi del Sud.

Nel 1838 Stevens rifiuta di apporre la propria firma ad un emendamento della Costituzione della Pennsylvania che esclude i neri liberi dal diritto di voto. Negli anni della sempre più violenta reazione delle forze pro-schiavitù, pur avvicinandosi al movimento abolizionista, favorendone politicamente e finanziariamente l’attività in Pennsylvania, partecipando attivamente all’organizzazione della Underground Railroad[6] e adoperandosi per l’ottenimento di pari diritti per i neri liberi degli Stati del Nord, nonché per la salvaguardia degli schiavi fuggiaschi del Sud, non ritiene ancora opportuna la formazione di un “terzo partito”, il Liberty Party abolizionista, che si aggiunga al poco omogeneo partito Whig, al quale ha aderito su posizioni abolizioniste, nella contrapposizione al Democratic Party filoschiavista.

Entrato nel 1848 nella Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti nelle file del partito Whig, la sua nomina è accolta con comprensibile ostilità dai democratici ai quali il suo egualitarismo è ben noto e che lo definiscono “il peggior nemico del Sud”, un fanatico “fomentatore di gelosie e divisioni sezionali”, in pratica quello che ancora oggi – assai poco sorprendentemente – verrebbe definito un “ideologo” “divisivo” e seminatore d’odio.

Convinto che una libera Repubblica non possa essere stabilmente fondata e difesa che sulla base di una classe di piccoli agricoltori indipendenti che lavorino la propria terra con le proprie forze, anche alla Camera nazionale, rispondendo ad un discorso apologetico della schiavitù venato di stucchevole paternalismo da parte del futuro presidente secessionista Jefferson Davis – che arriva ad affermare che nel Sud lo schiavo è trattato meglio di quanto non sia l’operaio nel Nord –  denuncia nella slaveocracy e nell’aristocrazia schiavista, il maggiore ostacolo alla formazione di una tale classe industriosa e la principale causa della degradazione sociale e morale dei “bianchi poveri” del Sud, e aggiunge:

«A mio giudizio, non solo gli Stati schiavisti, ma anche il Governo Generale, che riconosce e sostiene la schiavitù, è un dispotismo». Perché «in questo Governo, i cittadini bianchi liberi» sono gli unici “governanti” e «tutti gli altri sono sudditi». Infatti, continua Stevens, circa «quattro milioni di sudditi vivono sotto il dispotismo più assoluto e opprimente che il mondo abbia mai visto». Gli schiavi americani, afferma, stanno peggio degli schiavi dell’antica Roma e della Grecia o dei servi della Russia del XIX secolo. In questo Paese, infatti, «il suddito non ha diritti, né sociali, né politici, né personali. Non ha voce in capitolo nelle leggi che lo governano. Non può possedere alcuna proprietà. Nemmeno sua moglie e i suoi figli gli appartengono. Il suo lavoro è di un altro… Egli è governato, comprato, venduto, punito, giustiziato da leggi che non ha mai approvato e da governanti che non ha mai scelto. È … privato di ogni diritto che Dio e la natura gli hanno dato e che l’alto spirito della nostra rivoluzione ha dichiarato…». La misera condizione dei sudditi schiavizzati della nazione segnava i cittadini bianchi liberi del Paese come «despoti che la storia marchierà e che Dio aborrisce».[7]

Stevens, la cui tempra di combattente era notoria, rimane assolutamente freddo ed impassibile di fronte alle aggressioni verbali, agli insulti ed alle minacce fisiche dei “gentiluomini” congressisti del “Vecchio Sud”, incapaci di contenere la loro furia.

La radice sostanziale dell’aggressività sudista è puntualmente individuata e sintetizzata in poche significative righe da Marx ed Engels:

La coltivazione degli articoli d’esportazione del Sud, cotone, tabacco, zucchero, etc., ad opera degli schiavi, è remunerativa soltanto quando è effettuata con folti gruppi di schiavi, su larghissima scala e su ampie distese di terreno naturalmente fertile, che richiede soltanto un lavoro molto semplice. La coltivazione intensiva, che dipende non tanto dalla fertilità del terreno quanto dagli investimenti di capitali, dall’energia e dall’intelligenza del lavoratore, è contraria all’essenza della schiavitù. Da questo deriva la rapida trasformazione di Stati quali il Maryland e la Virginia, che precedentemente si servivano degli schiavi per la produzione di articoli d’esportazione, in Stati allevatori di schiavi, per esportarli nel “profondo Sud”. Persino nella Carolina Meridionale, in cui gli schiavi costituiscono i quattro settimi della popolazione, la coltivazione del cotone per anni è stata quasi completamente stazionaria, per effetto dell’esaurimento del terreno […], l’acquisizione di nuovi Territori diviene indispensabile, affinché una parte dei proprietari di schiavi possa avanzare in nuove proprietà di terreno fertile, e si possa creare un nuovo mercato per l’allevamento degli schiavi [la cui importazione dall’Africa era illegale dal 1808], e quindi per la loro vendita, a beneficio degli altri proprietari schiavisti rimasti.[8]

A causa dell’impoverimento del suolo, determinato dalle colture estensive di tabacco e di cotone, l’espansione nei Territori dell’Ovest e, in prospettiva, all’intero territorio nazionale, era per l’economia schiavista una necessità vitale[9]. Il controllo dei nuovi Territori – sottratti ai nativi, ad altre nazioni (come il Messico) o all’insediamento da parte di contadini liberi – e la loro trasformazione in nuovi Stati schiavisti avrebbe peraltro garantito alla classe dominante del Sud il controllo del Senato, consentendogli di bloccare sul nascere qualsiasi iniziativa della Camera dei Rappresentanti mirante a danneggiare gli interessi dei piantatori. Questi tentativi di espansione motivano anche l’impiego di bande di tagliagole in camicia rossa, i border ruffians, allo scopo di minacciare, scacciare e assassinare i coloni nei Territori federali, e saranno all’origine dei sanguinosi scontri del Kansas del 1854-56, che vedranno la milizia antischiavista di John Brown restituire colpo su colpo ai mercenari sudisti provenienti dal Missouri.

Fermamente contrario al Compromesso del Missouri del 1820, che pur provando a stabilire una linea di confine all’allargamento dello schiavismo nei nuovi territori dell’Ovest continuava di fatto a riconoscere la legittimità della schiavitù e delle sue necessità espansioniste, e al Fugitive Slave Act del 1850, che costringeva gli Stati del Nord a collaborare nella cattura e nella riconsegna degli schiavi fuggitivi, nel 1851 Stevens dirige la difesa legale di un gruppo di schiavi fuggiti dal Maryland che a Christiana, in Pennsylvania, insieme ad alcuni bianchi abolizionisti, avevano resistito armi alla mano al tentativo del loro ex-padrone di catturarli con l’aiuto di una banda di “cacciatori di schiavi” e di ricondurli nuovamente in catene. Alla fine del processo gli imputati vengono ritenuti non colpevoli di omicidio dalla giuria.

In quegli anni non particolarmente favorevole al riconoscimento dei diritti degli immigrati europei, soprattutto dei cattolici irlandesi e tedeschi, che considera un serbatoio per la reazione politica nemica delle istituzioni repubblicane, Stevens si allontana dal partito Whig, sempre meno determinato nella lotta contro lo schiavismo, e si lega provvisoriamente ai “nativisti” dell’American Party (noti come “Know Nothing”) senza aderirvi ufficialmente, alla ricerca di un nuovo “contenitore” nel quale portare avanti la propria specifica agenda politica e con l’obiettivo di orientare il partito su posizioni decisamente abolizioniste.

L’adesione al Partito Repubblicano

Nel 1855 aderisce al neocostituito Partito Repubblicano e due anni dopo viene nuovamente nominato rappresentante della Pennsylvania presso la Camera nazionale. Incoraggiato dal successo elettorale, Stevens accentua il suo radicalismo sostenendo pubblicamente il diritto delle donne al voto ed a ricoprire cariche pubbliche.

Un giornalista descrive in questi termini il ritorno di quello che ormai viene definito “il grande plebeo” alla Camera dei Rappresentanti:

Il suo stile oratorio «era polemico, sardonico e cupo». Quando parlava alla Camera, raramente gesticolava teatralmente con le braccia come facevano spesso gli altri; semplicemente giungeva le mani davanti a sé. Manteneva la voce bassa ma sempre udibile, e i suoi modi rimanevano calmi e ponderati, «pronunciando le frasi come se ciascuna pesasse una tonnellata». Manteneva quell’aria sicura e imperturbabile anche quando «lanciava anatemi contro i suoi avversari», pronunciandoli «con la stessa freddezza con cui avrebbe scambiato complimenti». Quella combinazione di aggressività sostanziale e impassibilità formale si rivelò «particolarmente esasperante per i suoi avversari». Un collega dell’Ohio, che non apprezzava molto i modi di Stevens, lo ricordava come «amaro, rapido come l’elettricità, con un sarcasmo e un’arguzia fulminanti».[10]

Fatto oggetto di continui commenti malevoli sulle sue appariscenti parrucche, quando una presunta ammiratrice gli chiede, probabilmente con malizia, di donarle una ciocca di capelli, Stevens si toglie rapidamente la parrucca invitandola a servirsi da sé.

Nel 1859, il fallito tentativo di John Brown di scatenare un’insurrezione di schiavi ad Harpers Ferry, in Virginia, scuote profondamente il Paese, accelerando vertiginosamente la polarizzazione degli schieramenti in campo. Nella settimana che segue l’esecuzione di Brown, i Democratici del Nord e del Sud al Congresso accusano i Repubblicani di essere responsabili dell’incursione e minacciano ancora una volta di opporre resistenza, fino alla secessione, se il loro diritto di possedere schiavi sarà messo in pericolo. Se inizialmente i Repubblicani cercano di prendere le distanze da Brown, in un’occasione, stando ai resoconti dell’epoca, Thaddeus Stevens avrebbe affermato sarcasticamente che

«John Brown meritava di essere impiccato per essere un pazzo senza speranza», aggiungendo però che la follia dell’uomo stava nel «tentativo di conquistare la Virginia con diciassette uomini», quando Brown avrebbe dovuto rendersi conto «che ne sarebbero serviti almeno venticinque».[11]

Considerato il culto delle proprie tradizioni marziali nutrito dai southerners è facile intuire il peso delle sprezzanti parole di Stevens riferite alla possibilità che un pugno di uomini – fra i quali dei neri! – potesse mettere nel sacco le forze schiaviste di uno Stato, la Virginia, che aveva dato i natali ad alcune delle maggiori glorie militari del Paese, come lo stesso Washington e Lee (che peraltro ebbe una parte di rilievo nella repressione del raid di Brown).

I deputati del Sud, schiumanti di rabbia, ancora una volta si proiettano dai loro seggi per aggredire fisicamente Stevens, qualcuno persino brandendo un Bowie Knife. Soltanto tre anni prima, inaugurando una prassi che diversi decenni dopo avrebbe trovato dei ben degni emuli nei deputati squadristi alla Camera italiana, un membro del Congresso della South Carolina, Preston Smith Brooks, spalleggiato dai rappresentanti sudisti Laurence Massillon Keitt ed Henry Alonzo Edmundson, aveva percosso il senatore abolizionista Repubblicano Charles Sumner – “colpevole” di aver infangato il discutibile “onore” del “Palmetto State” – colpendolo brutalmente e ripetutamente alla testa mentre era seduto al suo banco, fino a fargli perdere i sensi[12].

Questa volta, i compagni di partito di Stevens non sono disposti a tollerare che il vile atto si ripeta. I Repubblicani, tra cui il culturista e pugile dilettante Roscoe Conkling di New York, si schierano rapidamente a formare un perfetto quadrato militare attorno al rappresentante della Pennsylvania, che, in mezzo al tumulto, non perde il suo consueto aplomb e liquida l’indegna gazzarra come una «brezza momentanea».

Pochi giorni dopo la morte di “Osawatomie” Brown, Stevens si adopera per la pubblicazione in opuscolo delle sue ultime lettere, dichiarazioni e interviste, affermando: «Non conosco nulla che debba essere letto di più o che possa fare più bene leggere»[13].

Stevens aderisce alla piattaforma elettorale del Partito Repubblicano per le presidenziali del 1860, che reclama la definitiva sottrazione del potere esecutivo e legislativo dalle mani di chi è interessato all’estensione dello schiavismo per favorire invece lo sviluppo industriale del Paese e la libera immigrazione interna nei vasti territori dell’Ovest. Nei confronti dell’immigrazione straniera Stevens rivede il suo precedente giudizio, riconoscendo che, almeno a partire dalla seconda metà degli anni ’50, la crescente aggressività politica dello schiavismo ha determinato un progressivo abbandono delle consorterie elettorali democratiche da parte degli stranieri, soprattutto dei tedeschi di recente immigrazione – spesso esuli socialisti dei moti del 1848 – che in seguito forniranno un importante contributo nelle file nordiste della Guerra Civile[14]. Nella primavera del 1860, di fronte alla richiesta avanzata sia dai congressisti Democratici che da quelli Repubblicani di un’intensificazione delle operazioni militari contro i nativi americani al confine tra il Texas e il New Mexico, motivata ufficialmente da notizie di coloni bianchi uccisi in quella zona, Thaddeus Stevens risponde che

«avrebbe voluto che gli indiani possedessero un proprio giornale», perché «se lo avessero avuto, avreste visto immagini orribili degli omicidi a sangue freddo di indiani innocui. Avreste visto immagini più terribili di quelle che ci sono state mostrate [delle vittime bianche] e, non ho dubbi, avremmo conosciuto le vere ragioni di questi problemi con gli indiani». Questo perché, secondo lui, «questi problemi sono spesso causati da uomini bianchi malvagi» e «nove trattati su dieci sono stati violati… da uomini bianchi cristiani, invece che da indiani selvaggi».[15]

Lo scoppio della Guerra Civile

Con la vittoria di Lincoln nel novembre 1860, la secessione del Sud schiavista, a lungo minacciata e da tempo preparata[16], diventa un fatto compiuto il 4 febbraio 1861, con la costituzione degli Stati Confederati d’America. Prima che Lincoln si insedi ufficialmente alla Casa Bianca, il presidente uscente Buchanan – definito da Stevens un «traditore» «schiavo dello schiavismo» – che durante il suo mandato, tramite i segretariati della Guerra, della Marina e del Tesoro ha potenziato militarmente il Sud trasferendo negli arsenali meridionali armi e munizioni, indebolendo numericamente le guarnigioni federali nel Sud, riducendo al minimo la flotta statunitense e prosciugando le casse della Difesa con i finanziamenti alle milizie statali del Sud, non prende ovviamente nessun provvedimento contro un atto che viola palesemente il dettato costituzionale[17], né contro l’attacco proditorio a Fort Sumter.

Nel corso della Guerra Civile Thaddeus Stevens emerge in maniera sempre più nitida come il massimo rappresentante dell’ala Radicale del Partito Repubblicano, premendo più volte sull’esecutivo Repubblicano moderato di Lincoln ed esprimendo critiche motivate al suo operato ed alle sue scelte. Quando Lincoln nomina come Segretario alla Guerra Simon Cameron, un Repubblicano della Pennsylvania noto per la sua corruzione, Stevens, interrogato in merito alle accuse a Cameron risponde: «Non credo che ruberebbe una stufa rovente», anche se in seguito aggiunge: «Credo di aver detto che non avrebbe rubato una stufa rovente. Ora me lo rimangio»[18].

Nella conduzione del conflitto Lincoln è frenato dalla consapevolezza che nelle ultime presidenziali quasi la metà dell’elettorato degli Stati liberi del Nord non lo ha votato, ritenendo troppo audace persino il suo programma di graduale abolizionismo; dall’opinione – diffusa anche tra i Repubblicani – che gran parte dei bianchi del Sud sia contraria alla Secessione e che vi sia stata trascinata dalle élites dominanti; infine dalla sua convinzione che i quattro Stati schiavisti che non hanno aderito alla Secessione: Delaware, Maryland, Kentucky e Missouri (i cosiddetti border states, gli Stati di confine tra Unione e Confederazione), siano fondamentali dal punto di vista dello sforzo bellico e che non sia dunque opportuno allarmarli con una decisa politica militare antischiavista.

Sulla base di queste preoccupazioni, la conduzione della guerra da parte dell’Unione è inizialmente improntata alla difensiva, nella speranza di assestare agli Stati ribelli del Sud un colpo rapido e limitato, sufficiente a farli rinsavire persuadendoli a tornare allo status quo ante, lasciando che lo schiavismo, come auspicato da Lincoln, si estingua da sé in “qualche decennio” per mezzo di graduali e logoranti riforme federali.

Stevens, al contrario, è fin dall’inizio consapevole che il Sud sta lottando per la vita o per la morte del proprio sistema sociale e che, senza sradicare le cause profonde della frattura, anche una vittoria puramente militare non farebbe che rinviare il confronto decisivo, non necessariamente a vantaggio del Nord, ed invoca quindi una “guerra rivoluzionaria”.

Come evidenzia Levine nel suo saggio biografico

Stevens dubitava fin dall’inizio che la vittoria militare sarebbe stata rapida o facile. Prevedeva invece che sconfiggere un nemico così determinato e capace avrebbe richiesto «una guerra lunga e sanguinosa». E il successo sarebbe arrivato solo rafforzando la lotta militare con un attacco frontale contro la schiavitù, pilastro della società sudista e della sua guerra. Agli occhi di Stevens, le due lotte erano inseparabili: la prima non poteva essere vinta senza intraprendere la seconda. Fu tra i primi a sostenere la confisca degli schiavi dei partigiani confederati, a chiedere la piena libertà legale per i confiscati, a invocare l’ampliamento dell’emancipazione a tutti gli schiavi degli Stati ribelli e infine a premere per l’abolizione della schiavitù in tutti gli Stati Uniti. Come Stevens finì per riconoscere, queste misure avrebbero significato una trasformazione radicale della società sudista. Anziché ritirarsi da tali misure per questo motivo, egli le abbracciò con ardore e sostenne esplicitamente la rivoluzione che esse rappresentavano. Era ovvio, sosteneva nella primavera del 1863, «che i mezzi ordinari non possono sedare questa ribellione. Nemmeno una serie di brillanti vittorie porrà fine alla guerra e impedirà che essa si ripeta. Secondo il mio modesto giudizio, il governo deve temprarsi con risoluzioni più severe e prepararsi, se necessario, ad una rivoluzione».

La rivoluzione che Stevens finì per sostenere avrebbe avuto il suo epicentro e la sua maggiore influenza negli Stati del Sud. All’inizio del 1861, quattro milioni di esseri umani – uno su tre nel Sud – erano ridotti in schiavitù. Negli anni che seguirono, quei milioni di persone sarebbero usciti dalla schiavitù per ottenere la libertà legale. La loro liberazione avrebbe privato le famiglie dominanti del Sud della principale fonte della loro ricchezza. Questa seconda rivoluzione americana avrebbe anche ridisegnato la politica nazionale. Avrebbe privato l’élite del Sud del controllo che aveva esercitato per così tanto tempo sul governo federale, trasferendolo ai rappresentanti degli interessi commerciali, finanziari e manifatturieri con sede nel Nord. […]

«I loro soldati sono coraggiosi quanto i vostri», Stevens ammoniva i suoi colleghi. «Né abbiamo generali più abili dei loro». La chiave della vittoria era da ricercare altrove: mettere le mani su tutti gli schiavi che lavoravano per i ribelli. Non era sufficiente catturare solo coloro che sostenevano direttamente gli eserciti ribelli. «Finché [i ribelli] avranno i mezzi per coltivare i loro campi con il lavoro forzato, potrete versare il sangue di decine di migliaia di uomini liberi e spendere miliardi di dollari, anno dopo anno, senza avvicinarvi minimamente alla fine». Anche se «il nero non impugnasse mai un’arma» a favore della Confederazione, sosteneva Stevens, «è lui il vero pilastro della guerra» dalla parte dei ribelli. Questo elemento cruciale della forza confederata doveva essere eliminato dall’equazione. La fattibilità di tale operazione era ovvia. Dopo tutto, «coloro che ora forniscono i mezzi di guerra [ai ribelli]» sono in realtà «i nemici naturali degli schiavisti». Erano proprio queste le persone che potevano e «dovevano essere rese nostre alleate».[19]

Quasi contemporaneamente a Stevens, e quasi negli stessi termini, Marx ed Engels ritengono che

La preoccupazione di assecondare la buona disposizione degli schiavisti “lealisti” dei border states, la paura di spingerli fra le braccia dei secessionisti – in breve, il desiderio di non toccare menomamente la suscettibilità, gli interessi e i pregiudizi di questi infidi alleati, ha provocato la debolezza cronica del governo dell’Unione sin dall’inizio della guerra, lo ha indotto a prendere mezze misure, lo ha costretto a dissimulare il principio della guerra e a non colpire il punto più vulnerabile del nemico, la radice del male – la schiavitù stessa.[20]

Le Leggi di Confisca

Negli anni del conflitto, attraverso continue proposte di iniziative legislative, e con la loro strenua difesa dagli attacchi dei Democratici e dei rappresentanti dei border states, l’ala Radicale guidata da Stevens si pone all’estrema avanguardia del Partito Repubblicano costringendo i suoi settori più conservatori e meno determinati ad adottare le misure che ritiene necessarie. La guerra, inizialmente accettata e portata avanti dal Nord esclusivamente con lo scopo di preservare l’Unione, deve necessariamente diventare una guerra contro lo schiavismo, per rimodellare l’Unione stessa, malgrado tutti i dubbi e le resistenze. Come riportato da Levine, citando una cronaca del Congresso durante la guerra: «i timidi divennero audaci e i risoluti si rafforzarono vedendo il coraggio con cui [Stevens] manteneva i suoi princìpi»[21].

Nel giro di pochi anni, il Congresso a maggioranza Repubblicana, attraverso la Commissione Finanze (“Ways and Means”) guidata da Stevens, approva una serie di leggi che imprimono quel formidabile impulso allo sviluppo commerciale e industriale del Paese che i sudisti e i loro alleati del Nord avevano bloccato per decenni: misure di sostegno alla costruzione di infrastrutture, al sistema bancario, alla moneta nazionale, al sistema universitario, alle tariffe doganali e alla proprietà terriera per i piccoli coltivatori del Nord.

Stevens è il primo e il più acceso propugnatore e sostenitore dei “Confiscation Acts”, una serie di leggi di guerra che, a partire dall’agosto 1861, consentono all’esercito e alla marina degli Stati Uniti di penetrare nella Confederazione per sequestrare le proprietà nemiche, dunque anche gli schiavi, impiegate a sostegno della ribellione. Ribellandosi alla legittima autorità nazionale e sottraendosi quindi alla protezione della Costituzione gli schiavisti si mettono nelle condizioni di consentire al Governo federale di privare legalmente i ribelli dei loro schiavi, a meno che questi ultimi non fossero già insorti liberandosi da sé. Agli oppositori (anche Repubblicani) di queste misure al Congresso, che vogliono emendare il Disegno di legge in modo che il diritto di proprietà dei padroni sugli schiavi non sia “annullato”, ma semplicemente “sospeso” dal Governo federale; che pretendono che gli schiavi confiscati non siano poi liberati, ma invece trattenuti e considerati come prigionieri di guerra confederati; o che avanzano dubbi circa la costituzionalità dei provvedimenti, Stevens risponde che

Se gli schiavi confiscati fossero stati classificati come prigionieri di guerra, avrebbero potuto essere rimandati al loro luogo di origine attraverso uno scambio di prigionieri. Il fatto che una persona potesse così tornare in schiavitù ripugnava al senatore della Pennsylvania. «Dio non voglia che io accetti» che gli schiavi una volta confiscati «siano restituiti ai loro padroni!». Stevens insistette sul fatto che la cattura di qualsiasi schiavo da parte delle armate dell’Unione doveva significare la loro completa liberazione. «Una delle conseguenze più gloriose della vittoria», dichiarò, sarebbe stata «dare la libertà a coloro che sono oppressi». Quindi «io, per quanto mi riguarda, non esiterò mai a dire, una volta che questi schiavi saranno stati conquistati da noi: «Andate e siate liberi». […]

«Da dove traete l’autorità di uccidere i ribelli? Non è concessa da alcun potere esplicito nella Costituzione». Questa autorità «voi la possedete come mezzo del potere concesso per reprimere l’insurrezione». «Quando la Costituzione viene ripudiata e messa in discussione da una ribellione armata, troppo potente per essere sedata con mezzi pacifici […] la Costituzione stessa conferisce al Presidente e al Congresso un potere supplementare, che […] deve continuare ad aumentare e modificarsi in base alle crescenti e mutevoli necessità della nazione». […]

Stevens aggiunse che, nei fatti, il diritto di emancipare gli schiavi derivava da una fonte superiore alla Costituzione. «Anche se la Costituzione tace su questo potere», sosteneva, l’emancipazione era comunque «diventata inevitabilmente necessaria per la sicurezza del popolo, la prima legge della natura», che avrebbe conferito al Governo tale potere. Una legge superiore alla Costituzione avrebbe permesso, anzi avrebbe obbligato il Presidente a fare tutto il necessario per garantire la sopravvivenza della nazione. «Salus populi, la sicurezza del popolo, sarebbe diventata la legge suprema, superiore a tutte le leggi e a tutte le costituzioni». Sequestrare i beni e gli schiavi del nemico era necessario per reprimere la ribellione dei piantatori e, secondo Stevens, tale necessità rendeva legittimo il sequestro. […]

Alla base di questa argomentazione c’era la convinzione che un fine appropriato determinasse e giustificasse i mezzi necessari per raggiungerlo. Tale affermazione era ed è comunemente criticata in nome di standard morali assoluti di giusto e sbagliato che trascendono il tempo, il luogo e le circostanze. Ma Stevens considerava la propria comprensione del rapporto tra fini e mezzi irresistibile e inattaccabile. Alcuni temevano che tale ragionamento e i precedenti che esso giustificava potessero anche razionalizzare la tirannia. Stevens rispose riportando l’attenzione sui fini perseguiti in ciascun caso. Solo questo era il modo corretto per valutare la legittimità dei mezzi impiegati. Sia il governo dell’Unione in tempo di guerra che i leader della ribellione rivendicavano poteri straordinari e letali. Dovevamo onorare entrambe le rivendicazioni? Naturalmente no, rispose Stevens. Noi sosteniamo una rivendicazione e respingiamo l’altra a causa dei fini molto diversi che ciascuna di esse effettivamente perseguiva. Nel caso dell’Unione, disse, il potere straordinario «è concesso per il bene», mentre nel caso della Confederazione tale potere è «strappato per il male». Questi erano i motivi per sostenere il primo e respingere il secondo.

Stevens non stava rifiutando la moralità come guida. Tuttavia, sosteneva che il fatto che un’azione fosse morale o immorale (buona o dannosa) dipendeva dal fine che essa serviva, dal contesto particolare in cui l’azione si verificava. Nel contesto di una lotta per la sopravvivenza nazionale, il raggiungimento della vittoria rappresentava un bene superiore a qualsiasi diritto assoluto alla vita, figurarsi alla sacralità della proprietà privata.[22]

Stevens non può tuttavia accontentarsi di misure di confisca che, per quanto utili, colpiscono esclusivamente gli schiavisti “ribelli” continuando a considerare gli schiavi come un bene mobile per non alimentare il terrore nutrito dai rappresentanti dei border states per qualsiasi proposta di emancipazione generale degli schiavi in quanto esseri umani. Non è possibile colpire al cuore il sistema al Sud finché si tollerano le pretese di questi “alleati” schiavisti e dei loro amici al Congresso. Per Stevens la liberazione totale e permanente degli schiavi è diventata improrogabile, senza rammaricarsi eccessivamente per i suoi eventuali “costi” (anche umani):

Gli scrittori favorevoli alla schiavitù avevano sempre avvertito che se gli schiavi fossero stati liberati si sarebbero rivoltati contro i loro ex padroni in modo sanguinoso. Stevens prevedeva quindi che, se l’Unione avesse decretato l’emancipazione, i doppiogiochisti del Nord avrebbero senza dubbio «sollevato un clamore sugli orrori di una rivolta servile». Stevens avrebbe poi detto a suo nipote Alanson che «gli schiavi dovevano essere incitati alla rivolta e somministrare ai ribelli un assaggio di vera guerra civile». Per il momento, si limitava a chiedere «cosa fosse più ripugnante: una ribellione di schiavi che lottano per la loro libertà o una ribellione di uomini liberi che lottano per uccidere la nazione?». Disprezzava coloro che «si oppongono all’emancipazione perché libera gli schiavi dei traditori! Cristiani dal cuore tenero! Statisti misericordiosi! Filantropi benevoli! Se questi sono statisti, dove si trovano gli idioti?». Insofferente di tutti questi tentennamenti e cavillosità legali, Stevens desiderava vedere nel Nord lo stesso «zelo ardente che spinge il Sud». Coloro che guidavano l’Unione «agivano per coscienziosa lealtà, sotto il freddo dettame di un onesto giudizio». Ma, purtroppo, «non sentiamo nulla di quel coraggio determinato e invincibile che nella Rivoluzione [americana] fu ispirato dalle grandi idee di libertà, uguaglianza e diritti dell’uomo».[23]

Il Proclama di Emancipazione

Nel dicembre 1861 Stevens introduce una risoluzione che reclama la liberazione degli schiavi di proprietà dei confederati e dei loro simpatizzanti – riferendosi velatamente agli schiavisti dei border states – e in un discorso del gennaio 1862 invoca la liberazione degli schiavi in tutti gli Stati Uniti:

«L’emancipazione universale deve essere proclamata per tutti». L’Unione deve agire per «estinguere la schiavitù in tutto il continente; per cancellare, per quanto ci riguarda, la macchia più odiosa e infernale che abbia mai disonorato lo stemma dell’umanità» […] «Il nostro obiettivo non deve essere solo quello di porre fine a questa terribile guerra, ma anche di impedirne il ripetersi». Ciò richiedeva la completa estirpazione della schiavitù. Poiché «tutti devono ammettere che la schiavitù è la causa» della guerra, dovevano anche riconoscere che «finché essa esisterà, non potremo avere un’Unione solida». Il fatto inevitabile è che «i princìpi della nostra Repubblica sono del tutto incompatibili con la schiavitù. Non possono coesistere». Se il Governo federale avesse liberato anche solo tre quarti degli schiavi lasciando il resto in schiavitù, la schiavitù come istituzione legale sarebbe sopravvissuta e «avrebbe presto invaso nuovamente tutto il Sud», gettando le basi per un’altra ribellione. Quindi «avreste speso inutilmente tesori incalcolabili e vite innumerevoli». Pertanto, «mentre state sedando questa insurrezione a un costo così terribile, eliminatene la causa, affinché le generazioni future possano vivere in pace».[24]

Riconoscendo di essere stato «paralizzato» per troppo tempo dai tentativi di «accomodamento» con gli schiavisti dei border states, nel settembre 1862, Lincoln emana finalmente il pur limitato Proclama Preliminare di Emancipazione, il quale prevede che a partire dal 1° gennaio 1863 tutte le persone tenute in schiavitù in qualsiasi Stato o parte di Stato ribelle al Governo federale sarebbero state dichiarate libere senza alcun indennizzo dei proprietari, e che a tutti i neri sarebbe stato riconosciuto – almeno formalmente – il diritto di servire nell’esercito e nella marina dell’Unione. Per nulla appagato da questo risultato, che considera ancora insufficiente, nell’aprile 1863 Stevens insiste affinché l’istituzione stessa della schiavitù venga formalmente dichiarata illegale in tutto il Paese:

«Non può esserci sicurezza per il futuro senza modificare la Costituzione in modo da proibire per sempre la schiavitù in questa Repubblica» […]. Senza tale emendamento, sarebbe stato «inutile emancipare tutti gli schiavi ora». «Perché se la schiavitù stessa fosse rimasta legale», nel momento in cui gli Stati fossero stati riammessi, avrebbero ridotto in schiavitù ogni uomo di colore entro i loro confini. Nulla nella Costituzione avrebbe impedito loro, in quanto Stati, di trattarli come meglio credevano.[25]

Dal punto di vista militare, intanto, rovesciando l’iniziale andamento sfavorevole della guerra per il Nord – dovuto al sabotaggio preventivo delle forze armate dell’Unione da parte dei precedenti presidenti southerners, alla maggiore presenza di ufficiali esperti tra i secessionisti, alle esitazioni politiche del Governo unionista ed alla condotta al limite del tradimento di non pochi ufficiali conservatori del Nord, socialmente e personalmente contigui con i loro colleghi ribelli – il 1863 si rivela promettente per la causa unionista. Con il prolungarsi della guerra lo «zelo ardente» auspicato da Stevens si manifesta con sempre maggiore intensità camminando sulle gambe dei piccoli contadini liberi del Nordovest, a volte immigrati europei partiti alla ricerca di una “terra senza signori” e radicalmente insofferenti verso qualsiasi forma di dominio aristocratico. È il loro istintivo sanculottismo, più che la volontà di liberare i neri dalla schiavitù – che rimane il movente di una eroica minoranza abolizionista – a rappresentare la base di consenso di massa della direzione politica della borghesia industriale del Nordest, il motore di un’accresciuta combattività che si trasmette alle truppe dell’Unione e che consente l’emergere di nuovi, giovani e talentuosi quadri militari che si battono con abilità e convinzione. In quell’anno a Gettysburg viene fermata un’incursione di Robert E. Lee in Pennsylvania nel corso della quale il generale sudista Jubal A. Early saccheggia e demolisce la Caledonia Iron Works di Stevens, rammaricandosi apertamente di non aver incontrato sul posto il proprietario[26], l’uomo che secondo lui aveva causato più danni alla Confederazione di qualsiasi altro membro del Congresso degli Stati Uniti, per poterlo impiccare seduta stante, «dividere le sue ossa» e spedirle «ai vari Stati come curiosità» –; sul Fronte Occidentale, Ulysses S. Grant conquista Vicksburg e poi Port Hudson, ponendo definitivamente il bacino del Mississippi sotto il controllo dell’Unione:

Con alcuni dei terreni più ricchi e delle piantagioni più grandi del Sud, la perdita di quella valle a favore dell’Unione fu un colpo devastante per la schiavitù nel Mississippi e in Louisiana. Molti degli schiavisti che rimasero sulle loro terre videro i lavoratori neri rifiutarsi di obbedire agli ordini o di lasciare le proprietà quando veniva loro chiesto. «La maggior parte di loro pensa, o finge di pensare», si lamentava uno dei più ricchi piantatori della regione di Natchez, «che la piantagione e tutto ciò che contiene appartenga a loro». Altri schiavi abbandonarono semplicemente i loro proprietari in gran numero. E nelle piantagioni da cui erano fuggiti i padroni ribelli, gli ex schiavi spesso iniziarono a coltivare la terra per proprio conto.[27]

Nel frattempo, il radicalismo “giacobino” di Stevens ha modo di manifestarsi anche in favore dei lavoratori migranti cinesi della California:

Nel 1862 il legislatore dello Stato impose una tassa mensile speciale a coloro che svolgevano quasi tutte le professioni diverse dal lavoro agricolo. E nel giugno dello stesso anno, il deputato Repubblicano della California Aaron A. Sargent chiese al Congresso degli Stati Uniti di aumentare la tariffa sul riso pulito, alimento base della dieta cinese. Sargent chiarì che il suo scopo era quello di aumentare gli oneri a carico della popolazione cinese nata in Cina, che descriveva come «un popolo dalla lingua straniera, dalle abitudini riprovevoli, impossibile da assimilare e con costumi difficili da comprendere», che «si riversa a migliaia sulle nostre coste, come le rane d’Egitto». «Siamo invasi da questi pagani», esclamò.

Essendo stato a stretto contatto con i nativisti, ci si sarebbe potuto aspettare che Thaddeus Stevens applaudisse tali parole e misure discriminatorie. Invece, condannò con indignazione il maltrattamento di «questa classe di persone», un trattamento che aveva «disonorato lo Stato della California». Ricordò alla Camera che «la Cina è stata negli ultimi tempi molto oppressa dalle nazioni europee», che avevano recentemente dichiarato guerra alla Cina perché si era rifiutata «di consentire l’importazione di droghe velenose che demoralizzano la sua società e distruggono il suo popolo». Ora che «negli ultimi anni un gran numero di cinesi è emigrato nello Stato della California in cerca di fortuna», affermò, «hanno il diritto di andarci; e ritengo che la discriminazione contro di loro sia una violazione di ogni norma di diritto che dovrebbe prevalere in un Paese civile». Le misure adottate dalla California per perseguitarli «sono in totale contrasto con lo spirito generoso delle nostre libere istituzioni. Sono una beffa alla vanteria che questa terra sia il rifugio degli oppressi di tutti i climi». […] la Camera dei Rappresentanti respinse la proposta del deputato Sargent.[28]

Considerata la recente “caccia al migrante” messa in atto in California dall’attuale amministrazione “Repubblicana” di Trump, è lecito domandarsi quanto Stevens, colui che portò «lo spirito di John Brown nel lavoro di statista»[29], rappresenti in definitiva un alter anche e soprattutto per la moderna e putrescente borghesia imperialista – non soltanto americana.

Soldati neri nell’esercito unionista

Nel 1863, nonostante il Proclama di Emancipazione e le grandi vittorie militari dell’Unione, la “causa” degli schiavisti è ancora tutt’altro che persa. Stevens e i Radicali, forti dell’esempio di eccezionale audacia e combattività dei neri liberi e degli schiavi emancipati o fuggiaschi inquadrati militarmente da pochi coraggiosi ufficiali unionisti, moltiplicano le pressioni sul governo di Lincoln non soltanto affinché i volontari neri vengano ammessi regolarmente nell’esercito e gli schiavi fuggiti o emancipati vengano armati, ma affinché si appronti una vera e propria campagna di reclutamento di potenziali soldati neri tra i 3.521.108 schiavi del Sud (il 38,6% della popolazione complessiva)[30]. Contro tutte le resistenze degli esitanti e dei doppiogiochisti, che ritengono l’armamento dei neri un “salto nel buio”, temendo la loro “inadeguatezza al combattimento” e presumendo che si lascerebbero andare ad “atrocità” contro la popolazione bianca del Sud, e che si preoccupano di non “irritare” maggiormente gli schiavisti, i quali non accetterebbero mai di arrendersi a truppe “negre”, Stevens ribadisce che è «favorevole a inviare l’esercito tra tutta la popolazione schiava del Sud e chiedere loro di abbandonare i loro padroni, prendere le armi che forniremo loro e unirsi a noi in questa guerra di liberazione contro i traditori e i ribelli». E aggiunge che «ovunque siano stati impiegati, la testimonianza unanime è che [i soldati neri] non sono stati meno valorosi, meno coraggiosi, meno leali degli uomini bianchi che hanno combattuto al loro fianco». Lungi dal dimostrare che i neri «non sono in grado di diventare buoni soldati e soldati umani, la storia ci insegna che sono i soldati migliori e più docili del mondo». Piuttosto che essere «barbari per natura», sono «un popolo adatto ad essere umanizzato come qualsiasi altro»[31]. In risposta alle notizie delle atrocità reali perpetrate dai confederati nei confronti dei soldati neri caduti prigionieri, spesso trucidati o condotti in schiavitù, Stevens fa introdurre una legge che rimarca come i soldati neri siano soldati come tutti gli altri e abbiano diritto allo stesso trattamento riservato ad ogni altro soldato nemico, autorizzando il Presidente degli Stati Uniti a «reagire o intervenire per proteggerli».

Nell’aprile 1864, in seguito a precise e decise rivendicazioni dei soldati neri, il Congresso approva una misura che garantisce loro pari trattamento in materia di vestiario, salario, razioni ed equipaggiamento, con effetto retroattivo al 1° gennaio 1864. Nel dibattito congressuale Stevens afferma che la questione è «se i soldati degli Stati Uniti, che indossano l’uniforme dell’Unione, che marciano sotto la bandiera dell’Unione, […] espongono la propria vita in battaglia e alla morte, debbano essere trattati in modo uguale, o se in quella posizione e sotto quella gloriosa bandiera dobbiamo mantenere le distinzioni che sono state l’infamia e la vergogna dell’Unione e dell’epoca, e che esistevano quando esisteva la schiavitù». Ormai, aggiunge, solo «un amante della schiavitù o un demagogo tenterebbe di sostenere che qualsiasi soldato che impugna le armi in battaglia debba essere trattato come inferiore a qualsiasi altro uomo che combatte al suo fianco. Non mi interessa se i soldati sono di origine milesiana [irlandese], teutonica, africana o anglosassone». Semmai, continua Stevens, se qualche soldato meritava una paga maggiore degli altri, «doveva essere quella classe di uomini che correva i pericoli maggiori quando entrava nel nostro esercito». «L’uomo nero sa che quando vi entra i pericoli sono maggiori per lui che per l’uomo bianco. Non solo corre il rischio di essere ucciso in battaglia, ma ha la certezza, se fatto prigioniero, di essere massacrato invece di essere trattato come prigioniero di guerra». Stevens coglie poi l’occasione per denunciare il pregiudizio razziale in generale, criticando l’ossessione per «l’accidentale colore della pelle o la forma del viso» piuttosto che per «l’intelletto e il merito degli esseri umani»[32].

Nella primavera del 1865, nella campagna conclusiva della guerra, le forze di Ulysses S. Grant includono trentatré reggimenti neri, i cui membri costituiscono circa un ottavo dei soldati dell’Unione sotto il suo comando. Nel corso della guerra, 186.017 neri hanno prestato servizio nell’esercito o nella marina dell’Unione, la stragrande maggioranza dei quali reclutati negli Stati schiavisti; una forza che per ammissione dello stesso Lincoln diede un fondamentale contributo alla causa unionista e che avrebbe potuto essere molto più ampia e decisiva, accelerando la soluzione del conflitto, se fosse stata impiegata nei tempi richiesti dai Radicali abolizionisti guidati da Thaddeus Stevens.

La battaglia per il Tredicesimo Emendamento

In vista delle elezioni presidenziali del novembre 1864, di fronte alla minaccia costituita dalla candidatura del generale McClellan, la cui dubbia determinazione a vincere la guerra non prevede assolutamente alcun tipo di emancipazione degli schiavi, e dalla piattaforma del Partito Democratico, che prevede in caso di vittoria elettorale “sforzi immediati” per ottenere un cessate il fuoco e una Convenzione “rappacificatrice” degli Stati, Stevens appoggia pubblicamente e senza esitazioni la ricandidatura di Lincoln, mantenendo riservate le sue critiche all’operato del Presidente. Nella Convention repubblicana di giugno, viene adottata una piattaforma che finalmente rivendica, più di un anno dopo la proposta avanzata da Stevens e dai Radicali, un emendamento costituzionale che abolisca la schiavitù in tutto il Paese e che in aprile è già stato approvato dalla maggioranza repubblicana del Senato. Rieletto Lincoln, con un sostanziale margine di voti, la battaglia per l’approvazione del Tredicesimo Emendamento si sposta sul terreno assai più accidentato della Camera dei Rappresentanti.

La prospettiva di una sempre più prossima conclusione della guerra a favore dell’Unione rappresenta paradossalmente una minaccia per la tendenza più radicale della Seconda Rivoluzione americana. La sempre più concreta prospettiva di una rovinosa sconfitta costringe la classe dominante del Sud a muovere i primi passi in direzione di una trattativa – quei passi che aveva sdegnosamente rifiutato di compiere quando si riteneva invincibile – che prevenga il peggio: l’estirpazione della Southern Way of Life. Perfettamente consapevoli che una pace con il Sud permetterebbe agli schiavisti di evitare le peggiori conseguenze della sconfitta, ed anzi consentirebbe loro di recuperare le forze per un successivo, inevitabile, nuovo assalto, e avvertiti del fatto che la stanchezza per una guerra lunga e sanguinosa inizia ad insinuarsi anche fra le masse del Nord, i Radicali premono insistentemente sull’Esecutivo di Lincoln affinché l’emendamento sia approvato il prima possibile dal Congresso, ovviamente ostacolati dai Democratici del Nord e da una parte dei Repubblicani moderati, che, al contrario, fanno pressioni per una immediata apertura di trattative con i Confederati.

Dopo mesi di battaglie politiche, di accorte tergiversazioni, di manovre di corridoio e persino per mezzo della corruzione di alcuni rappresentanti Democratici, l’indiscutibile abilità politica di Lincoln, in stretta collaborazione con il gruppo di Stevens, riesce ad ottenere che il Tredicesimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che abolisce e criminalizza la schiavitù in tutto il Paese, venga finalmente approvato con la necessaria maggioranza dei due terzi[33]:

Nel pomeriggio del 31 gennaio 1865, Stevens si alzò per concludere la mozione Repubblicana a favore dell’abolizione [della schiavitù]. Gli altri membri della Camera si affollarono immediatamente intorno a lui per ascoltare le sue parole, mentre senatori, giudici della Corte Suprema e altre personalità di alto rango riempivano le tribune e i corridoi. La Camera approvò quindi il Tredicesimo Emendamento con 119 voti a favore e 56 contrari. Quando il risultato fu annunciato, l’aula e le tribune esplosero in applausi, lacrime e grida di gioia. Mesi di pressioni e trattative avevano contribuito a quel risultato, ma anche i successi dei Repubblicani nelle elezioni congressuali del 1864, che probabilmente avevano fatto cambiare idea ad alcuni rappresentanti Democratici in carica sulla direzione che stava prendendo la politica. Il Tredicesimo Emendamento passò quindi all’approvazione dei parlamenti statali.

Per l’anziano Stevens, l’approvazione da parte del Congresso di un passo per cui aveva lottato così a lungo non poteva che essere gratificante. La sua salute stava peggiorando, come era evidente a chi gli stava vicino. Ma «se la Provvidenza mi concederà ancora un po’ di tempo», sospirò nella primavera del 1864, fino al giorno in cui «il piede di uno schiavo non potrà mai più calpestare il suolo della Repubblica, sarò lieto di accettare qualsiasi sorte mi attenda». Nel maggio 1864, il Democratico dell’Ohio George H. Pendleton accusò i Repubblicani di essere un partito «rivoluzionario» e chiese loro di ammetterlo. «Ammettete di porre in atto una rivoluzione; ammettete di essere rivoluzionari; ammettete di non desiderare il ripristino del vecchio ordine; ammettete di non lottare per restaurare l’Unione. Assumetevi la responsabilità di questa posizione». Una sfida del genere non spaventava affatto Thaddeus Stevens, che esaltò «il potere purificatore di questa rivoluzione» e rassicurò i suoi ascoltatori sul fatto che «di rivoluzione si tratta».[34]

La fine della guerra

In vista della conclusione della guerra, Lincoln, per accelerare il loro ritorno nell’Unione, si predispone a concedere il “perdono” a tutti gli abitanti degli Stati secessionisti che non abbiano assunto posizioni politiche e militari di rilievo nella Confederazione – il che equivale a non colpire con misure repressive la classe di cui l’élite politica sudista aveva sintetizzato e rappresentato gli interessi –, a restaurare i diritti di proprietà dei ribelli perdonati (fatta eccezione per la proprietà degli schiavi) e, pur desiderando personalmente che i lavoratori neri vengano trattati come tutti gli altri, non si oppone a misure come quella del cosiddetto “apprendistato”, una forma di peonaggio che limita i diritti legali degli ex schiavi e dei loro figli per vincolarli al lavoro presso i loro ex padroni per un determinato periodo di tempo. Nella valle del Mississippi, l’esercito dell’Unione vieta infatti le frustate e obbliga i “datori di lavoro” a pagare un salario agli schiavi emancipati, ma al tempo stesso aiuta i primi a “disciplinare” i lavoratori neri, obbligandoli a firmare contratti annuali, punendo coloro che lasciano il lavoro prima della scadenza del “contratto”.

All’inizio di febbraio del 1865, Lincoln propone al suo gabinetto che il Governo federale risarcisca i padroni ribelli per la perdita dei loro schiavi, abbandonando tale proposta di fronte all’opposizione del gabinetto stesso. In seguito, accetta l’ordinanza del generale William T. Sherman che assegna provvisoriamente gran parte dei terreni del Sud agli schiavi liberati. Cionondimeno, nel marzo 1864, suggerisce in privato che la Louisiana, una volta reintegrata nell’Unione, conceda il voto agli uomini neri istruiti e a «coloro che hanno combattuto valorosamente nelle nostre file» e, nella primavera del 1865, promuove pubblicamente questa linea nel suo ultimo discorso.

Il 55° reggimento di colore del Massachussets canta la “marcia di John Brown” nelle strade di Charleston

Fin dal primo anno di guerra Stevens, al contrario, ha proposto che agli eserciti dell’Unione che penetrano nel Sud venga affiancato “un tribunale militare” per confiscare e vendere le terre dei ribelli “al miglior offerente” per saldare con il denaro raccolto il debito nazionale, e per permettere l’insediamento di «coloni coraggiosi e leali» che, «con le armi in pugno, avrebbero preso possesso dei terreni [dei ribelli espropriati] per sé o per i loro affittuari e sarebbero stati pronti a difenderli contro chiunque avesse osato avvicinarsi». Alla fine della guerra, Stevens reclama le più severe misure atte a eradicare una volta e per sempre il potere e i costumi del Sud schiavista: «Spogliate la fiera aristocrazia delle sue gonfie proprietà» esorta Stevens «e insegnate ai loro figli ad entrare nelle officine o a maneggiare l’aratro, e così umilierete i fieri traditori»[35]. Il “flagello del Sud” esige che gli Stati del Sud siano trattati come province conquistate senza diritti costituzionali e che la fine formale della schiavitù coincida con precise garanzie economiche e politiche per gli schiavi liberati. Respingendo le politiche di ricostruzione moderate di Lincoln, Stevens chiede di aumentare e rafforzare il potere del Governo federale per imporre la subordinazione dei ribelli e per garantire non soltanto la libertà personale, ma anche pari diritti legali agli schiavi liberati:

Era sicuramente d’accordo con l’insistenza di Salmon P. Chase secondo cui, per vincere la guerra e ricostruire adeguatamente l’Unione, «il popolo del Sud con cui dobbiamo riconciliarci sono gli afroamericani, che coltivano la terra, caricano le barche e i vagoni o svolgono lavori artigianali», insieme a tutti i bianchi sinceramente disposti a vedere la schiavitù sostituita da un lavoro veramente libero.[36]

UN UOMO RICONOSCE UN UOMO – “Dammi la tua mano, camerata! Abbiamo entrambi perso una GAMBA per la buona causa; ma, grazie a Dio, non abbiamo mai perduto il CUORE.”

La “Restaurazione” presidenziale

Con l’assassinio di Lincoln, nell’aprile 1865, il controllo dell’Esecutivo passa al vicepresidente Andrew Johnson. Piccolo proprietario del Tennessee che non è riuscito a prosperare e ad acquistare schiavi per via della concorrenza dei piantatori più ricchi, senatore Democratico prima dello scoppio della guerra, Johnson si oppone alla Secessione e in seguito viene nominato Governatore militare del Tennessee occupato dall’Unione. Accettato da Lincoln come candidato alla vicepresidenza nel 1864 e in fama di intransigente oppositore dei sudisti, la maggior parte dei Radicali vede inizialmente con ottimismo il suo insediamento. Non Stevens, che già nel 1864 aveva chiesto ai suoi colleghi di partito: «Non potete trovare un candidato vicepresidente senza andarvelo a raccattare in una dannata provincia ribelle?»[37]

In effetti la presidenza Johnson si rivela estremamente reazionaria, accentuando i tratti moderati della politica di Lincoln in direzione di un vero e proprio “abbraccio” con la declinante classe dominante del Sud nel tentativo di una “Restaurazione” (termine da Johnson preferito a “Ricostruzione”) che ristabilisca i rapporti di forza politici tra Sud e Nord antecedenti alla guerra e che assicuri ai bianchi del Sud la supremazia sui neri liberati, che Johnson considera in possesso di «minori capacità di governo di qualsiasi altra razza del popolo». Johnson si affretta ad offrire un’amnistia a quasi tutti i sudisti bianchi che promettano “fedeltà” all’Unione e consente agli esclusi dall’amnistia di presentare petizioni individuali per richiedere lo scontato “perdono” presidenziale. Sia gli “amnistiati” che i “perdonati” sudisti ottengono libertà personale, diritto di voto e accesso ai pubblici uffici, oltre alla restituzione delle loro proprietà (eccettuati gli ex schiavi).

Dall’altra parte dell’Atlantico, anche Marx ed Engels rivedono rapidamente le loro iniziali speranze nella presidenza Johnson e Marx ritiene addirittura che «La reazione in America è già iniziata e si rafforzerà ben presto, se non cessa subito la fiacca che si è vista finora»[38]. Meno di un mese dopo Engels aggiunge:

Anche a me la politica di Mr. Johnson piace sempre di meno. Sempre più violento ricompare l’odio contro i neri, e si lascia sfuggire ogni potere dalle mani nei confronti dei vecchi lords del Sud. Continuando di questo passo, fra sei mesi tutte le vecchie canaglie secessioniste siederanno nel Congresso di Washington. Là non c’è niente da fare senza coloured suffrage, e J[ohnson] lascia che su questo punto decidano i vinti, gli ex padroni di schiavi.[39]

Alla fine del 1865, in base alle direttive presidenziali, in tutti gli ex Stati Confederati eccetto il Texas si procede a nuove elezioni locali e ovunque la maggioranza dei bianchi del Sud rielegge ex funzionari Confederati; nella Legislatura statale della Louisiana ex ufficiali ribelli rindossano orgogliosamente l’uniforme che avevano opportunamente messo in naftalina e lo Stato del Mississippi rifiuta addirittura di ratificare il Tredicesimo Emendamento. Rassicurati da un Presidente che devono ritenere “mandato dal cielo”, gli ex schiavisti del Sud, da remissivi e imploranti tornano insolenti e spavaldi, cercando di riguadagnare con l’intrigo quanto possibile del terreno perduto sul campo di battaglia:

I ricchi sudisti e i loro rappresentanti politici rivelarono ben presto i loro piani definitivi per utilizzare il potere politico appena riconquistato. Il loro obiettivo principale era quello di mantenere o riottenere le loro piantagioni. Per quanto riguarda chi avrebbe lavorato quella terra, alcuni inizialmente speravano che la schiavitù potesse in qualche modo sopravvivere, ad esempio se gli Stati avessero rifiutato di approvare il XIII emendamento. Quella speranza morì con la ratifica dell’emendamento alla fine del 1865. Ma come avrebbero potuto allora i proprietari terrieri del Sud trovare la forza lavoro che ritenevano necessaria per garantire la redditività, persone che potessero essere indotte a svolgere un lavoro straordinario a un costo relativamente basso per i proprietari terrieri? Fin dal XVII secolo, i proprietari terrieri del Sud erano fermamente convinti che solo il lavoro obbligatorio, imposto dalla legge, potesse soddisfare tale esigenza. […]

Alla fine dell’anno l’élite del Sud aveva accettato la fine della schiavitù perché non aveva altra scelta. Ma se i piantatori e i loro alleati avessero avuto la meglio, l’abolizione formale avrebbe costituito il limite esterno del cambiamento. Samuel Thomas, un colonnello dell’Unione in servizio nel Mississippi e nella Louisiana nord-orientale, riferì che, sebbene i bianchi ora riconoscessero di non poter più possedere singoli individui di razza nera, «avevano ancora il sentimento radicato che i neri in generale appartenessero ai bianchi in generale». Se glielo avessero permesso, avrebbero riportato i neri a una condizione il più possibile simile alla schiavitù. Per farlo, come anticipava un giornale conservatore di New Orleans, avrebbero creato un nuovo sistema di lavoro «prescritto e imposto dallo Stato».

L’assenza di terra dei neri era una condizione preliminare per il successo di quel programma. Sembrava essenziale, cioè, non solo mantenere le terre delle piantagioni nelle mani dei piantatori, ma anche rendere impossibile ai neri ottenere qualsiasi terreno decente da coltivare, in modo che non avessero altra alternativa che lavorare per i bianchi. Come spiegò lo stesso colonnello Thomas, «I bianchi sanno che se ai negri non è permesso acquisire proprietà o diventare proprietari terrieri, devono tornare al lavoro nelle piantagioni e lavorare per salari che riescono a malapena a sfamare loro stessi e le loro famiglie; e ritengono che questo tipo di schiavitù sia meglio di niente».

Impedire ai neri di possedere la terra era solo il primo passo verso una rinnovata subordinazione. Il passo successivo fu quello di negare ai neri senza terra i diritti personali che avrebbero potuto consentire loro, in qualità di lavoratori salariati, di ottenere salari più alti, orari di lavoro più brevi e condizioni di lavoro migliori, o di abbandonare del tutto il lavoro nei campi. I governi degli Stati del Sud eletti sotto l’egida di Johnson cominciarono ad approvare leggi ispirate al programma dei piantatori. Le nuove leggi, note collettivamente come “codici neri”, miravano a creare una forza lavoro nera malleabile e dipendente. […] I dettagli variavano da Stato a Stato, ma la maggior parte di questi codici includeva gli stessi elementi fondamentali. Negando agli afroamericani la cittadinanza, gli Stati approvarono leggi che limitavano drasticamente o negavano molti dei diritti associati alla cittadinanza, come il diritto di far parte di una giuria, di possedere terreni o armi, di scegliere il proprio luogo di residenza e la propria occupazione, e persino di scegliere il proprio datore di lavoro e negoziare i termini del contratto. Molte località proibivano ai neri di svolgere qualsiasi lavoro che non fosse quello agricolo o domestico. Diversi codici statali imponevano lunghi orari di lavoro e mansioni lavorative e specificavano il comportamento servile che ci si aspettava. Gli schiavi liberati che non avevano un lavoro adeguato potevano essere arrestati, incarcerati e multati. Se non fossero stati in grado di pagare la multa, sarebbero stati dati in affitto a un datore di lavoro che si sarebbe assunto la responsabilità della multa e l’avrebbe decurtata dal salario dei lavoratori.

I codici neri rivendicavano un diritto speciale sui corpi dei bambini, privando i genitori dei mezzi legali per difendere le loro famiglie. Una legge della Carolina del Nord consentiva ai funzionari di allontanare i bambini neri dalle loro famiglie e di darli in “apprendistato” a qualcun altro «quando i genitori… non impiegano abitualmente il loro tempo in un’occupazione onesta e laboriosa». Quando i tribunali affidavano questi bambini ad altri adulti, di solito sceglievano l’ex proprietario del bambino piuttosto che i familiari e gli amici dei genitori.[40]

Il Quattordicesimo Emendamento

Di fronte allo spudorato tentativo della classe dominante del Sud di stabilire forme di dominio le più simili possibile alla loro ormai irrevocabilmente perduta condizione di proprietari di schiavi, e davanti alla vergognosa complicità della presidenza Johnson, l’ormai vecchio e malandato “grande plebeo” moltiplica gli sforzi per quella che sarà la sua ultima grande battaglia per “perfezionare” la rivoluzione.

Nel dicembre 1865 i Radicali di Stevens riescono ad impedire ai nuovi rappresentanti degli ex Stati sudisti di prendere posto nei due rami del Parlamento finché accurate indagini sulle violenze perpetrate contro i neri e i bianchi leali del Sud non siano presentate al Congresso per deliberare sulle loro risultanze:

… all’apertura della trentanovesima sessione del Congresso, Edward McPherson, il nuovo segretario della Camera che era da tempo vicino a Stevens, chiamò l’appello dei membri. In conformità con la decisione del gruppo Repubblicano, si rifiutò di leggere i nomi di coloro che rivendicavano seggi provenienti dagli ex Stati confederati. Dopo aver aiutato McPherson a respingere le proteste dei Democratici della Camera, Stevens presentò la richiesta del suo gruppo di costituire una commissione mista, che il 13 dicembre il Congresso accettò di formare. Tra i suoi quindici membri figurava Stevens, che guidava la delegazione della Camera.[41]

Con il bando dei rappresentanti sudisti dal Congresso, i Repubblicani ottengono il 70% dei seggi al Senato e il 75% alla Camera, tuttavia, queste percentuali non si traducono in un dominio del Congresso da parte dei Radicali che non controllano interamente la delegazione Repubblicana.

Convinto che la nazione è «nel mezzo di una rivoluzione» che si tratta di «perfezionare», Stevens non si perde d’animo e, nel gennaio 1866, propone una Legge sui Diritti Civili. Persuaso della necessità di sancirne il contenuto nella Costituzione per evitare future abrogazioni, Stevens propone un Emendamento che garantisca che «tutte le leggi nazionali e statali siano applicabili in modo uguale a tutti i cittadini e che non sia fatta alcuna discriminazione sulla base della razza e del colore della pelle». Nell’aprile successivo Stevens presenta alla Camera una versione dell’Emendamento, elaborata dalla Commissione mista per la Ricostruzione, che prevede l’esclusione dalle cariche statali e nazionali degli ex funzionari politici e militari della Confederazione e che modifica la modalità in base alla quale prima della guerra veniva calcolata la dimensione della delegazione di ogni Stato alla Camera dei Rappresentanti e al Collegio Elettorale, ovvero in base al “numero totale di persone libere” più i “tre quinti di tutte le altre persone” (vale a dire gli schiavi) residenti nello Stato. Abolire senz’altro la clausola dei “tre quinti” significherebbe tuttavia permettere agli Stati del Sud di beneficiare dell’intero numero dei neri, ora riconosciuti come cittadini seppure non ancora dotati di diritto di voto in quegli Stati, e quindi paradossalmente rafforzare gli Stati sudisti al Congresso. Stevens e i Radicali propongono come ovvia soluzione l’estensione del diritto di voto ai neri del Sud, scontrandosi però con le resistenze della maggioranza dei Repubblicani che non vogliono ledere la storica prerogativa dei singoli Stati di stabilire autonomamente i requisiti per il diritto di voto o che temono di scontare alle prossime elezioni congressuali il pregiudizio razziale diffuso in tutto il Paese. Per risolvere l’impasse Stevens suggerisce allora di modificare l’emendamento inserendovi una clausola che prevede che qualora anche un solo cittadino nero di uno degli Stati del Sud venga privato del diritto di voto per motivi razziali nessun cittadino nero può essere conteggiato nel determinare il numero dei Rappresentanti di quello Stato alla Camera, costringendo gli Stati sudisti a scegliere tra il voto ai neri o una drastica perdita di rappresentatività. Anche questa proposta viene però respinta in favore di una soluzione più debole che prevede la riduzione della delegazione di uno Stato alla Camera solo in proporzione al numero di cittadini maschi adulti specificamente esclusi dalle urne.

Stevens, da sempre convinto che i “Founding Fathers” «fossero stati costretti a rinviare i princìpi della loro grande Dichiarazione [di Indipendenza] e ad attendere il loro pieno consolidamento a tempi più propizi» e che ritiene quel tempo ormai arrivato, è a sua volta costretto a riconoscere che questo compromesso rappresenta

… «tutto ciò che si poteva ottenere allo stato attuale dell’opinione pubblica», perché «la mente del pubblico era stata educata nell’errore per un secolo» ed era quindi poco ricettiva alla garanzia di pieni e uguali diritti per tutti gli uomini. «Ritenendo, quindi, che questa sia la migliore proposta che si possa effettivamente presentare», spiegò Stevens, «la accetto». Lasciarla invece morire avrebbe «rinviato la protezione della razza di colore forse per secoli». Egli non avrebbe «gettato via un grande bene perché non è perfetto. Prenderò tutto ciò che posso ottenere per la causa dell’umanità e lascerò che sia perfezionato da uomini migliori in tempi migliori».

Come dimostrano queste parole, Stevens non rifiutava in generale il compromesso, contrariamente alla reputazione che aveva in alcuni ambienti. Offrì una lezione da manuale su come accettare un compromesso necessario senza abbandonare o nascondere la propria posizione politica e le proprie preferenze e quindi senza disorientare i propri alleati e sostenitori. Accettò questo “piccolo passo” non propriamente ideale verso il suffragio dei neri perché non aveva modo di ottenere una misura migliore. Ma chiarì a tutti sia le sue opinioni sia i limiti del compromesso che si sentiva costretto ad accettare. Rifiutando di fingere che l’Emendamento fosse migliore di quanto fosse in realtà, preparò alleati e sostenitori a rinnovare la lotta quando le condizioni lo avrebbero permesso.[42]

Il 10 maggio 1866 questa versione addolcita del Quattordicesimo Emendamento viene approvata a schiacciante maggioranza dal Congresso. Di fronte alle manifestazioni di gioia del pubblico presente, il Democratico Charles Eldridge reagisce con stizza, lamentando il chiasso dei “negri nelle tribune”, che, da parte loro, gli rispondono subissandolo di fischi. Quando il Presidente della Camera interviene per riportare il silenzio in aula Stevens gli domanda ironicamente se fosse «ammesso che i membri dell’aula disturbassero quelli delle tribune»[43].

La Ricostruzione Radicale

Le elezioni congressuali dell’autunno 1866 premiano ampiamente i Repubblicani incrementando la loro maggioranza in entrambe le camere e rafforzando leggermente i Radicali, complice la rabbiosa opposizione al Quattordicesimo Emendamento da parte di Johnson – in campagna elettorale il Presidente si spinge fino ad accusare pubblicamente Thaddeus Stevens di essere «contrario ai princìpi fondamentali» del governo degli Stati Uniti e di «lavorare per distruggerli», reclamando apertamente che venga impiccato come traditore – che gli ha alienato anche gli elementi conservatori del Partito Repubblicano. I Repubblicani, oltre a conquistare cariche di governatore e la maggioranza nei parlamenti statali in tutto il Nord, ne ottengono anche in West Virginia, Missouri e Tennessee.

Le notizie delle violenze dei sudisti contro gli afroamericani, contro quella parte dei “poor whites” che si sono schierati convintamente con l’Unione e che stanno faticosamente iniziando a superare radicati pregiudizi razziali solidarizzando con i neri, e contro quelli che i sudisti chiamano carpetbagger, i nordisti che si sono recati a Sud in seguito alla pace, spingono Stevens a considerare imperativo proteggere i cittadini leali negli Stati ribelli «dai barbari che li uccidevano ogni giorno» e che «ogni giorno seppellivano in tombe segrete non solo centinaia, ma migliaia di persone di colore»[44]. Il 1866, l’anno di questa infame Vandea americana, segna non a caso la nascita dell’organizzazione segreta di codardi incappucciati nota come Ku Klux Klan.

Nella primavera e all’inizio dell’estate del 1866, folle di bianchi insorsero contro i neri a Charleston e Norfolk. Nel maggio dello stesso anno, la polizia bianca e i veterani neri dell’esercito dell’Unione si scontrarono a Memphis e si affrontarono a colpi di arma da fuoco, dopodiché i bianchi irruppero nei quartieri neri, aggredendo uomini, donne e bambini, uccidendo quarantasei persone, ferendone settanta e distruggendo più di novanta case. Alla Camera dei Rappresentanti, Stevens attaccò coloro che sollecitavano una riconciliazione nazionale affrettata. Dovrebbero smetterla con il loro «canto delle sirene di pace e buona volontà finché non riusciranno a tapparmi le orecchie alle urla e ai gemiti delle vittime morenti a Memphis».

Il peggio doveva ancora venire. Alla fine di luglio, a New Orleans, i Repubblicani tentarono di convocare una Convenzione costituzionale statale per concedere il diritto di voto ai neri. I bianchi, tra cui poliziotti reclutati tra le file degli ex soldati confederati, assalirono i delegati e i loro sostenitori, uccidendo circa cinquanta persone, ferendone altre duecento e dando alle fiamme case, chiese e scuole. La violenza non si placò.[45]

Ad accrescere ulteriormente le preoccupazioni di Stevens, si aggiunge una decisione della Corte Suprema che, alla fine del 1866, stabilisce che un tribunale militare non può condannare qualcuno per un reato per il quale siano competenti i tribunali civili. Ovviamente questa decisione tende a minare la capacità dell’esercito di far rispettare la legge e l’ordine negli ex Stati ribelli. È ormai impellente per Stevens, approfittando della congiuntura favorevole per i Radicali, creare nuovi governi negli Stati del Sud.

Nel febbraio 1867 presenta un Disegno di legge per la Ricostruzione (che diventa Legge nonostante il veto presidenziale) che prevede la divisione degli ex Stati Confederati in cinque distretti amministrati dall’esercito. A ciascun distretto vengono assegnati comandanti militari muniti di «forze militari sufficienti per consentire a tali ufficiali di svolgere i propri compiti e far rispettare la propria autorità» e che possono annullare qualsiasi tentativo di interferenza da parte delle autorità statali. È dovere di questi soldati «proteggere tutte le persone nei loro diritti personali e di proprietà, reprimere insurrezioni, disordini e violenze e punire, o far punire, tutti i disturbatori della pace pubblica e i criminali»[46], e per giudicare questi casi, i comandanti possono istituire tribunali militari ogni volta che lo ritengano necessario. L’esercito deve inoltre supervisionare che le elezioni siano aperte a tutti i maschi adulti aventi diritto al voto di “qualsiasi razza”, fatta eccezione per coloro che non possono prestare giuramento di passata lealtà (ovvero la maggior parte dei sudisti bianchi). Gli Stati devono infine redigere nuove costituzioni (soggette all’approvazione del Congresso) e indire elezioni per i funzionari statali. La delegazione di uno Stato può sedere al Congresso solo dopo aver ratificato il Quattordicesimo Emendamento[47].

La lotta per il diritto di voto ai neri

Sulla questione del voto ai neri Thaddeus Stevens adotta inizialmente un approccio tatticamente prudente. Convinto, in base alla sua concezione delle istituzioni democratiche, che «un’aristocrazia terriera» e «una classe senza terra» siano altrettanto «pericolose in una repubblica»[48], Stevens teme, in primo luogo, che gli schiavi liberati, provenienti da una prolungata condizione di forzato degrado sociale e ancora privi di quell’indipendenza materiale e di giudizio resa per lui possibile dalla proprietà – per quanto piccola – della terra, possano venire condizionati elettoralmente dai loro ex proprietari diventati nella maggior parte dei casi i loro attuali “datori” di lavoro. Tuttavia, pur non essendo tra i primi membri del Congresso a sollecitare il diritto di voto per gli schiavi liberati, nel dicembre 1865 afferma alla Camera che «senza il diritto di voto negli ex Stati schiavisti… credo che sarebbe stato molto meglio lasciare gli schiavi in schiavitù»[49]. Nel gennaio 1866 Stevens si oppone alla concessione del voto agli ex schiavi fino a quando il Governo federale non abbia fornito loro adeguate garanzie in merito a tutti i loro diritti, fino a quando «questo Congresso non avrà compiuto la grande opera di rigenerare la Costituzione e le leggi di questo Paese secondo i princìpi della Dichiarazione di Indipendenza». Nel luglio dello stesso anno vota, diversamente da altri Radicali, a favore dell’ammissione dei rappresentanti del Tennessee al Congresso, nonostante questo Stato neghi il voto ai neri, ma al tempo stesso insiste affinché sia concesso il voto agli ex schiavi. Gli schiavi liberati, dichiara, «devono avere il diritto di voto o continueranno, di fatto, a essere schiavi»[50]. In questo periodo Stevens fa pressione per il suffragio nero negli Stati in cui il Governo nazionale esercita una chiara autorità costituzionale, mentre assume un atteggiamento temporeggiatore riguardo al diritto di voto dei neri nell’insieme degli ex Stati confederati, soprattutto nel timore di compromettere, caldeggiando intempestivamente una misura largamente “impopolare” anche al Nord, le altre misure di Ricostruzione – come il prolungamento del controllo federale diretto sugli ex Stati ribelli e quella “riforma agraria” a cui sta lavorando e che, nella sua concezione, serve precisamente a creare un solido e irrevocabile terreno economico e sociale a sostegno del suffragio dei neri nel Sud.

Una volta che il Partito Repubblicano rifiutò di prolungare il governo federale diretto negli Stati ribelli, Stevens non ebbe altra scelta che affidarsi all’elettorato nero per impedire che quegli Stati ricadessero nelle mani dei Democratici (cioè degli ex secessionisti). Nel 1866, le elezioni a livello statale nel Sud resero evidente questa necessità quando gli elettori portarono al potere simpatizzanti confederati. E forse la vittoria schiacciante dei Repubblicani nelle elezioni negli Stati liberi nello stesso anno rassicurò Stevens sul fatto che concedere il diritto di voto agli schiavi liberati del Sud non sarebbe costato voti ai Repubblicani del Nord.

Nel gennaio 1867, Stevens si dichiarò «a favore del suffragio negro in tutti gli Stati ribelli». Solo su questa base sarebbero potuti sorgere governi leali; altrimenti «gli uomini leali, bianchi e neri, sarebbero stati oppressi, esiliati o assassinati» e quegli Stati «sarebbero stati sicuramente governati da traditori» che avrebbero «inviato una solida delegazione di rappresentanti ribelli al Congresso e espresso un voto elettorale ribelle» per la presidenza, mettendo così il controllo del Governo nelle loro mani e in quelle dei loro alleati del Nord. Ciò era inaccettabile.

Inoltre, Stevens domandò: «I neri leali non hanno forse lo stesso diritto dei bianchi ribelli di scegliere i propri governanti e di fare le leggi?[51]

Approvata dal Congresso la Legge sulla Ricostruzione,

I lavoratori neri di vari settori industriali scioperarono per chiedere condizioni migliori. I mezzi di trasporto pubblico furono oggetto di richieste di integrazione [razziale] dei propri veicoli. Ovunque gli schiavi liberati tenevano riunioni, molte delle quali protette da guardie armate, per imparare come votare e decidere per chi votare. Anche gli Unionisti bianchi del Sud, che avevano imparato a considerare gli elettori neri come alleati insostituibili contro la vecchia élite, applaudirono la nuova Legge e il ruolo di Stevens nella sua approvazione.[52]

Nell’autunno 1867, in ottemperanza ai dettami della nuova Legge, si tengono negli Stati dell’ex Confederazione nuove assemblee costituenti alle quali i neri votano in massa, mentre la maggior parte degli uomini bianchi adulti aventi diritto al voto si rifiutano sdegnosamente di partecipare. Si viene così a formare una coalizione repubblicana composta da neri liberati, mobilitati nella Union League, da carpetbagger e da una parte dei bianchi poveri del Sud (soprannominati spregiativamente scalawags dagli ex ribelli):

… i delegati repubblicani dominarono quelle assemblee e le costituzioni da loro elaborate dichiararono l’uguaglianza giuridica e politica dei neri, crearono il primo sistema scolastico pubblico del Sud, vietarono la detenzione per debiti e la fustigazione come pena criminale, ridussero il numero di reati punibili con la morte e abolirono meccanismi e politiche regressive come i requisiti patrimoniali per ricoprire cariche pubbliche e far parte di una giuria. Le elezioni generali tenutesi in base a quelle costituzioni portarono i repubblicani nelle residenze dei governatori del Sud e al controllo delle legislature statali.

I neri accolsero con favore la possibilità di entrare nell’arena politica. Sebbene alcuni ex schiavi avessero ottenuto notevoli progressi nell’istruzione durante i primi anni di libertà, la maggior parte era ancora analfabeta. Impararono ad agire politicamente con la pratica.[53]

Purtroppo, alle elezioni di medio termine, il favorevole andamento elettorale dei Repubblicani nel Sud grazie al voto dei neri non si traduce in un altrettanto favorevole risultato a Nord, portando ad una diminuzione dell’influenza Radicale nel Partito e nel Congresso. Nei mesi successivi, le stringenti condizioni per la riammissione degli ex Stati ribelli all’Unione vengono progressivamente annacquate, sino a ridursi all’accontentarsi della “promessa” da parte di Stati come l’Alabama, l’Arkansas, il Nord e South Carolina, la Louisiana, la Georgia e la Florida di garantire per il futuro la permanenza del diritto di voto ai neri, mentre al contempo viene omesso il provvedimento di Stevens che interdice dal voto e dalle cariche gli ex funzionari confederati. Nell’agosto 1867 Thaddeus Stevens affronta pubblicamente la questione del suffragio nero non solo nel Sud ma anche nel Nord e nei quattro border states, ovvero in tutto il Paese. Nello stesso anno, riesce a far approvare in Senato, nonostante l’ennesimo veto di Johnson, un Disegno di legge che concede il diritto di voto agli afroamericani nel District of Columbia, lo Stato della capitale federale. Nella primavera del 1868, insistendo alla Camera sul suffragio universale maschile – con il Partito Repubblicano sempre più riluttante a seguirlo su questa strada – dichiara giunto il momento in cui «i demagoghi che ci parlano di differenze razziali devono vergognarsi e nascondersi dalla faccia della Terra» e che la nazione deve riconoscere «il suffragio universale e imparziale come l’unico fondamento su cui può poggiare il Governo […]. Quando si tenta di allontanarsi da esso, si cessa di essere uomini e si diventa tiranni, meritevoli della maledizione del genere umano. Abbiamo raggiunto un punto nella storia di questa nazione in cui possiamo adottare questo grande e glorioso principio»[54].

La lotta per l’indipendenza economica degli ex schiavi

Per Stevens la struttura economica e sociale del Sud deve essere radicalmente trasformata per creare una società più egualitaria, e lo strumento principale di questa trasformazione deve essere precisamente la confisca delle proprietà terriere dei piantatori ribelli e la loro redistribuzione sotto forma di piccole fattorie. Tuttavia, almeno fino alla fine del conflitto, pubblicamente Stevens si dichiara favorevole alla suddivisione in piccoli appezzamenti delle grandi proprietà dei ribelli e alla loro vendita, mentre auspica che gli ex schiavi lavorino come liberi salariati sulle terre dei nuovi proprietari che sono stati in grado di acquistarle (neri o bianchi unionisti che siano). Nel corso della guerra, in qualità di presidente della Commissione Finanze, Stevens fa approvare alla Camera misure che si pongono in questa direzione. Nel 1863 viene istituita la Commissione d’inchiesta sugli schiavi liberati americani (AFIC) e due anni dopo, a seguito dell’inchiesta, viene approvato il Freedmen’s Bureau Bill, che istituisce l’Ufficio per i rifugiati, gli schiavi liberati e le terre abbandonate, comunemente noto come Freedmen’s Bureau il quale, entro il 1865, arriva a controllare più di 850.000 acri di terreni agricoli confiscati o abbandonati nel Sud.

Nel corso della guerra, gli schiavi e gli schiavi liberati hanno nel frattempo cominciato a occupare e lavorare per proprio conto le terre dei ribelli che sono fuggiti davanti all’esercito dell’Unione in Virginia, nella Carolina del Nord, nella Georgia, nella Louisiana e in diverse aree lungo il Mississippi:

Gli schiavi liberati credevano che secoli di lavoro duro e non retribuito da parte loro e dei loro antenati avessero conferito loro il diritto di diventare piccoli agricoltori indipendenti. Non dovevano più lavorare per altri sulla terra di altri, su «questa stessa terra», come diceva un ex schiavo nel suo dialetto gullah, «che è ricca del sudore del nostro viso e del sangue della nostra schiena». Le piantagioni confiscate, sostenevano, dovevano essere suddivise in fattorie di modeste dimensioni e assegnate a loro. La Convenzione nazionale degli uomini di colore che si riunì a Syracuse nell’ottobre 1864 rivendicò «la nostra giusta quota del demanio pubblico», indipendentemente dal fatto che la nazione avesse acquisito quel suolo «mediante acquisto, trattato, confisca o conquista militare».[55]

Terminato il conflitto, Stevens inizia a sollecitare apertamente la redistribuzione delle terre confiscate alla popolazione nera:

«È impossibile che esista una reale uguaglianza dei diritti», disse Stevens ad un pubblico di Lancaster nell’autunno del 1865, «quando poche migliaia di uomini monopolizzano l’intera proprietà terriera». Infatti, «come possono esistere istituzioni repubblicane, scuole libere, chiese libere, liberi rapporti sociali in una comunità mista di nababbi e servi?» Creare e salvaguardare tali istituzioni richiedeva la confisca e la ridistribuzione delle terre dell’élite. Senza di ciò, «questi uomini [gli schiavi liberati] non possono diventare cittadini utili». […]

Nel settembre 1865, Stevens chiese la confisca delle piantagioni dei sudisti che possedevano almeno duecento acri di terra. Dichiarò di non avere alcuna intenzione di confiscare le proprietà dei bianchi «poveri, ignoranti e costretti con la forza». Questi ultimi «dovevano essere perdonati» perché avevano solo «seguito l’esempio e gli insegnamenti dei loro vicini ricchi e intelligenti». Questi ultimi non meritavano alcuna considerazione e la confisca delle loro terre avrebbe fornito al Governo una superficie molto più vasta di quella che il Freedmen’s Bureau aveva mai controllato. Secondo i suoi calcoli, ciò avrebbe significato confiscare quasi quattrocentomila acri di terra. «Dividete questa terra in fattorie di dimensioni adeguate. Date, se volete, quaranta acri a ogni uomo adulto liberato». Poi vendete il resto della terra confiscata «al miglior offerente». Il ricavato di tali vendite avrebbe dovuto finanziare le pensioni dei soldati dell’Unione, risarcire i cittadini leali che avevano subito perdite di proprietà a causa dei predoni confederati durante la guerra e pagare il debito nazionale.[56]

Tuttavia, l’amministrazione di Washington, piuttosto che aiutare gli ex schiavi ad ottenere la piena proprietà legale sui terreni concessi loro a titolo di possesso dalle autorità militari o su altri terreni confiscati, preferisce vendere queste proprietà a famelici investitori del Nord, oppure, soprattutto sotto la presidenza di Johnson, restituisce queste terre – anche se già occupate e coltivate dagli schiavi liberati – agli ex proprietari, nella speranza di facilitare la cosiddetta “riconciliazione nazionale”. Entro un anno dalla fine della guerra, più della metà dei terreni precedentemente sotto il controllo del Freedmen’s Bureau vengono restituiti agli ex proprietari, mentre la maggior parte del rimanente viene restituita nei due anni successivi.

Stevens si batte strenuamente contro questo esito. Nel gennaio 1866 considera insufficiente un Disegno di legge presentato da Lyman Trumbull che, oltre a «confermare e rendere validi i titoli di possesso» che l’Ordinanza speciale n. 15 del generale Sherman aveva concesso agli schiavi liberati lungo la costa atlantica, propone di riservare per l’affitto a rifugiati bianchi e schiavi liberati fino a tre milioni di acri di terra di proprietà pubblica in Florida, Mississippi e Arkansas, applicando un canone annuo “basato sulla valutazione del terreno”, e di consentire agli schiavi liberati di acquistare le fattorie pagando un prezzo pari al valore di mercato del terreno. Stevens obietta che negli Stati menzionati i terreni pubblici sono di scarsa qualità e i prezzi di vendita proposti sono troppo alti per persone che fino a ieri erano in stato di schiavitù; e, soprattutto, il Disegno di legge lascia intatte le piantagioni di proprietà di quelli che definisce “maleodoranti ribelli” nella maggior parte dell’ex Confederazione. Il mese successivo Stevens presenta un Disegno di legge alternativo che mira a garantire ai liberi cittadini un titolo legale incontestabile sulle terre concesse da Sherman, mentre propone di attingere i tre milioni di acri di terreno fertile aggiuntivi non soltanto dai terreni di proprietà pubblica, ma anche dai terreni «non occupati» e «dalle proprietà confiscate al nemico» non soltanto nei tre Stati summenzionati, ma anche in Alabama e in Louisiana, peraltro calmierando per gli ex schiavi i prezzi di affitto e di vendita. Alla Camera, più di due terzi dei Repubblicani votanti (compresi anche alcuni Radicali) si uniscono ai Democratici nel respingere la sua proposta. Costretto ad appoggiare il Disegno di legge di Trumbull, Stevens ammonisce i suoi colleghi che negare ad «ogni adulto liberato una casa sulla terra dove era nato, aveva lavorato e sofferto» avrebbe attirato su di loro «la censura dell’umanità e la maledizione del cielo»[57]. Non domo, nel marzo 1867, Stevens propone di trasferire al Governo federale tutti i terreni di proprietà pubblica dell’ex Confederazione da aggiungersi a quelli già previsti dalla Legge Trumbull per fornire ad ogni maschio adulto e ad ogni capofamiglia vedovo tra gli schiavi liberati una proprietà di quaranta acri e la somma di cinquanta dollari per potervi edificare. In ogni caso, Stevens intende confiscare solo i beni dell’élite ex confederata, lasciando intatta la terra di chiunque abbia un patrimonio totale inferiore a cinquemila dollari, una somma comunque considerevole all’epoca. Secondo le sue stime, coloro che verrebbero colpiti da questa legge costituiscono meno del 2% della popolazione bianca del Sud, mentre a beneficiarne sarebbero invece

«quattro milioni di uomini feriti, oppressi e indifesi, i cui antenati erano stati tenuti in schiavitù per due secoli» e costretti a svolgere il lavoro che aveva pagato la terra in questione. Se lasciati senza proprietà, quei quattro milioni «dovevano necessariamente… essere servi e vittime di altri». Invece, «rendiamoli indipendenti dai loro vecchi padroni… dando loro un piccolo appezzamento di terra da coltivare per sé stessi». Solo allora «non saranno costretti a lavorare» per altri a «condizioni ingiuste». In questo modo, avremmo anche «elevato il carattere degli schiavi liberati», rendendoli più indipendenti sia politicamente che economicamente, poiché «niente rende un uomo un buon cittadino quanto renderlo proprietario terriero».

Copie stampate del discorso di Stevens circolarono nel Sud e gli schiavi liberati che sapevano leggere lo lessero ad alta voce agli altri durante le loro riunioni, incoraggiando l’agitazione popolare per la confisca delle terre. Al Congresso, tuttavia, il suo disegno di legge suscitò orrore in molti. Stevens respinse le loro obiezioni. Le misure proposte «possono essere condannate solo dai criminali [secessionisti] e dai loro amici più stretti, e da quel tipo di uomini poco virili il cui vigore intellettuale e morale si è liquefatto in una debolezza che scambiano per misericordia, e che non è temperata da un solo granello di giustizia, e a quei religiosi che scambiano la meschinità per cristianesimo e dimenticano che l’essenza della religione è “fare agli altri ciò che gli altri hanno il diritto di aspettarsi da te”».[58]

Anche stavolta, la Camera non approva il Disegno di legge di Stevens, rinviandolo sine die fino a lasciarlo morire. La maggioranza dei Repubblicani, che in tempo di guerra ha accettato – come stringente necessità militare – l’abolizione della proprietà sugli esseri umani, si rivela decisamente contraria all’abolizione dei diritti di proprietà privata della terra degli ex ribelli in tempo di pace. Molti tra essi temono inoltre che i proprietari terrieri neri rifiutino di coltivare il cotone – per la sua associazione simbolica con la precedente condizione di schiavitù – danneggiando l’industria tessile del New England.

Il tentativo di impeachment di Johnson e la fine

L’entrata in vigore del Reconstruction Act non pone fine agli sforzi profusi da Andrew Johnson per sabotare l’azione del Congresso negli Stati dell’ex Confederazione. Il Presidente, nella sua qualità di comandante in capo dell’esercito, non perde occasione per ostacolare l’applicazione della Legge che affida all’esercito il controllo temporaneo di dieci Stati del Sud. Nel giugno 1867 Johnson emana direttive volte a limitare la discrezionalità dei comandanti militari nei rapporti con i funzionari statali e locali. In agosto rimuove dall’incarico il Segretario alla Guerra Edwin M. Stanton, che considera troppo vicino ai Radicali, sostituendolo con il più moderato Ulysses S. Grant. La mossa successiva è la rimozione di tutti i generali in comando che, nei distretti militari in cui è stato suddiviso il Sud, hanno cercato di far rispettare la Legge scontrandosi con la tracotanza dei politici e dei magistrati bianchi sudisti e con le folle di suprematisti sussidiate, organizzate e armate dai primi – anche aprendo il fuoco contro di esse. Nel frattempo, Johnson procede – infine anche contro il parere di Grant – alla progressiva smobilitazione dell’esercito, riducendo a non più di 25.000 il numero di soldati dislocati nel Sud a protezione degli ex schiavi e degli unionisti dalla crescente ferocia della “feccia bianca”. Indubbiamente, il Presidente si rivela essere quello che il rappresentante Repubblicano James M. Ashley, definisce il «leader riconosciuto» della «controrivoluzione»[59]. Dal canto suo, Stevens riferisce alla Camera che «gli omicidi e gli oltraggi più orribili che l’uomo possa immaginare vengono commessi quotidianamente in questi Stati senza che venga fatto alcun tentativo di punire i responsabili»[60]. Stevens, che ha ormai più di 70 anni e la cui salute è in rapido declino, si persuade che, affinché la Ricostruzione possa procedere, Andrew Johnson deve essere rimosso al più presto dal suo incarico, ed è il primo, nel dicembre 1866, a sostenere la necessità dell’impeachment. Quando un membro del Congresso tenta di difendere l’operato di Johnson ricorrendo alla trita retorica dell’uomo che “si è fatto da sé”, Stevens commenta con amara ironia di essere «lieto di sentirlo, perché ciò solleva Dio Onnipotente da una pesante responsabilità»[61]. Dopo vari tentativi falliti, il 22 febbraio 1868, in seguito all’illegittimo licenziamento di Stanton, la Commissione per la Ricostruzione guidata da Stevens riesce a far accogliere dalla Camera l’impeachment del Presidente come «procedimento puramente politico […] inteso come rimedio per gli illeciti [cioè la condotta impropria] commessi nell’esercizio delle funzioni pubbliche e per impedirne il protrarsi». Scontento della forma finale con la quale alla fine l’incriminazione presidenziale viene presentata, Stevens è impossibilitato a presenziare con continuità al processo al Senato, che, per condannare Johnson, ha bisogno dell’approvazione dei due terzi dei senatori. Le udienze durano sei settimane, al termine delle quali sei Repubblicani si uniscono ai Democratici assolvendo Johnson con il margine di un solo voto. Un fattore determinante nell’assoluzione del Presidente è senz’altro la temuta possibilità che l’impeachment conduca alla Casa Bianca il Repubblicano Radicale Benjamin F. Wade, come Stevens favorevole al suffragio femminile, all’eguaglianza per gli afroamericani e ai diritti sindacali (in gioventù è stato operaio nei lavori di costruzione dell’Erie Canal), e, nella sua qualità di presidente pro tempore del Senato degli Stati Uniti, in quel momento successore designato di Johnson (che non ha vicepresidente) per i restanti nove mesi del mandato.

Benjamin F. Wade

Durante il processo al Senato, [Stevens] fu trasportato nel Campidoglio su una sedia e avvolto in coperte. Fu così che entrò nella sala del Senato quel giorno di maggio in cui Andrew Johnson ottenne la sua assoluzione. A quel punto Stevens sembrava sopravvivere solo grazie alla forza di volontà. «La sua malattia sta progredendo rapidamente», osservò l’osservatore francese Georges Clemenceau, «ma le sue energie stanno aumentando ancora più rapidamente. Di tanto in tanto un sorriso sardonico, simile a una smorfia, gli increspa il volto livido. Se non fosse per il fuoco che arde nel profondo dei suoi occhi penetranti, si potrebbe immaginare che la vita abbia già abbandonato quel corpo inerte, ma esso nutre ancora tutta l’ira di un Robespierre». Verso la fine della sessione estiva del 1868 alla Camera, Stevens sembrò riprendersi. «Per alcuni giorni tornò la sua vecchia vivacità», ricordò in seguito un collega, insieme alle «brillanti battute e alle uscite inaspettate che tutti apprezzavano tanto». Ma quello fu solo l’ultimo sussulto di una vita ormai al tramonto. L’11 agosto, all’età di settantasei anni, Thaddeus Stevens morì.[62]

Due giorni dopo, il suo feretro viene trasportato in una sala del Campidoglio, vegliato da una guardia d’onore di soldati neri e omaggiato da circa seimila persone, bianche e nere. In seguito, la sua salma viene trasferita a Lancaster, in Pennsylvania, dove altre ventimila persone, anche in questo caso bianche e nere, assistono al funerale. Pensando al suo epitaffio, qualche anno prima Stevens si era dichiarato soddisfatto che recitasse: «Qui giace colui che non è mai salito a nessuna eminenza» e che ha nutrito solo «la modesta ambizione di poter dire di aver lottato per migliorare le condizioni dei poveri, degli umili, degli oppressi di ogni razza, lingua e colore».  Alla fine, sceglie di essere sepolto nell’unico cimitero multirazziale della sua città e di essere ricordato con la sobria e fino alla fine orgogliosamente divisiva iscrizione: «Riposo in questo luogo tranquillo e appartato, non per una naturale preferenza per la solitudine. Ma, trovando altri cimiteri limitati per questioni di razza, o per regole statutarie, ho scelto questo per poter illustrare con la mia morte i princìpi che ho sostenuto durante una lunga vita: l’eguaglianza dell’Uomo davanti al suo Creatore»[63].

Poco prima di morire, Stevens intravede le difficoltà e la probabile dissipazione delle sue infaticabili lotte per “perfezionare” la Seconda Rivoluzione americana. Con il sempre più marcato arretramento conservatore dei Repubblicani e il rinnovato protagonismo dei Democratici, Stevens teme che una vittoria Democratica alle presidenziali del 1868 possa persino portare alla restaurazione della schiavitù. Preso dallo sconforto, confida ad un suo collega: «La mia vita è stata un fallimento. Dopo tutta questa grande lotta durata anni a Washington e il terribile sacrificio di vite e ricchezze, vedo poca speranza per la Repubblica». Tuttavia, nel suo ultimo discorso alla Camera, dichiara con fermezza: «l’uomo è ancora vile. Ma recentemente sono stati fatti passi così grandi nella giusta direzione, che il patriota ha il diritto di farsi coraggio»[64].

E indubbiamente di tutto il proprio coraggio avrebbero avuto bisogno i neri liberati e gli unionisti bianchi del Sud per affrontare il regno del terrore razzista che la classe dominante ex-schiavista scatenerà per tutti gli anni della Ricostruzione fino al suo tramonto definitivo nel 1877, quando verrà soppiantata dal regime di segregazione razziale puntellato dalle famigerate leggi “Jim Crow”, sancito dalla Corte Suprema nel 1884, e che durerà ancora per un lungo, buio, secolo di sofferenze e umiliazioni.

Abolizionisti e radicali, ieri e oggi

La Guerra Civile americana e la successiva Ricostruzione rappresentano due fasi di una rivoluzione dall’indiscutibile contenuto economico e politico borghese. Una rivoluzione impegnata in quello che Amadeo Bordiga definì efficacemente un «lavoro di pulizia storica»: l’abolizione di una forma di schiavitù che nulla aveva a che fare con quella antica e che era altresì pienamente integrata nel mercato mondiale capitalistico e con la produzione industriale della sua epoca; una superfetazione sociale sopravvissuta alla fase storica dell’accumulazione originaria del capitale – con tutto un portato sovrastrutturale di tradizioni aberranti e di una peculiare “cultura” della classe dominante – e che ostacolava l’ulteriore sviluppo del capitalismo stesso. Lo schiavismo nell’America del XIX secolo rappresentava un aborto che coesisteva nello stesso “utero” sociale insieme al più giovane e robusto feto “industriale” e che minacciava di impedire la piena crescita di quest’ultimo.

Marx ed Engels si schierano convintamente e apertamente con la guerra rivoluzionaria borghese dell’Unione contro lo schiavismo confederato, e in particolare con la punta avanzata dell’intero movimento, affinché sull’intero territorio degli Stati Uniti prevalga un ordinamento sociale in cui «lo scambio di merci non include altri rapporti di dipendenza che quelli derivanti dalla sua propria natura»[65] e nel quale è pertanto la capacità lavorativa e non la persona che la esprime ad essere una merce suscettibile di essere comprata e venduta, perché, per poter vendere la propria forza lavoro sul mercato, «il suo possessore deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della sua capacità lavorativa, della sua persona»[66]. Un ordinamento sociale in cui il libero lavoratore e «il possessore di denaro s’incontrano sul mercato ed entrano in rapporto reciproco come possessori di merci di pari diritti, unicamente distinti dal fatto che l’uno è compratore e l’altro venditore; quindi anche come persone giuridicamente eguali»[67], come soggetti che «si riferiscono l’uno all’altro solo come possessori di merci e scambiano equivalente contro equivalente»[68].

Non può dunque sorprendere che le valutazioni di Marx ed Engels nel corso della Guerra Civile americana si rivelino così in sintonia con quelle di Thaddeus Stevens. Essendosi posti i due fondatori del socialismo scientifico dal punto di vista di classe del proletariato, e dunque dal punto di vista del più radicale, completo e rapido sviluppo possibile delle forze produttive e dei rapporti capitalistici di produzione come premessa del loro superamento, il radicalismo di Stevens, che dal suo punto di vista di classepuramente borghese si batte per il lavoro libero, per l’eguaglianza giuridica delle persone, per la libera circolazione di merci e persone, per lo sviluppo dell’industria moderna e contro il latifondismo – in una parola, per il capitalismo nella sua assoluta, totale purezza –, ponendosi oggettivamente nella prospettiva dello sviluppo delle condizioni per il socialismo incarna la massima convergenza possibile tra il movimento rivoluzionario comunista e un movimento politico borghese nella fase storicamente ascendente del capitalismo. 

Nelle loro riflessioni, per quanto riguarda i nodi politicamente e socialmente dirimenti nel corso del conflitto, Marx ed Engels evidenziano la contraddittorietà del processo rivoluzionario americano:

Il presidente Lincoln azzarda un passo avanti soltanto quando il corso degli eventi e le richieste generali dell’opinione pubblica non consentono ulteriori indugi. Ma una volta che “old Abe” si è convinto di essere arrivato a quel momento critico, allora sorprende in egual misura amici e nemici, con un’azione improvvisa eseguita nel modo più silenzioso possibile.[69]

Affinché il governo rivoluzionario moderato di Lincoln “azzardi” questi “passi avanti”, oltre al «corso degli eventi e le richieste generali dell’opinione pubblica», si rivela però di fondamentale importanza anche il costante pungolo dell’ala Radicale di Stevens, che puntualmente anticipa e promuove molte delle decisioni che Lincoln adotta in seguito, alla sua maniera ferma quanto sobria e misurata.

Si tratta di una caratteristica delle rivoluzioni borghesi che anni dopo Engels sintetizzerà in modo estremamente efficace e che si attagliano benissimo al corso della Guerra Civile americana e della successiva fase della Ricostruzione:

Dopo il primo grande successo la minoranza vittoriosa in generale si scindeva: una metà era soddisfatta dei risultati raggiunti, l’altra voleva andare più avanti e presentava nuove rivendicazioni, che corrispondevano almeno in parte all’interesse reale o apparente della grande massa popolare. Queste rivendicazioni più radicali vennero in certi casi anche realizzate, ma spesso solo per un momento, ché il partito più moderato prendeva di nuovo il sopravvento e le ultime conquiste andavano in tutto o in parte perdute di nuovo. Gli sconfitti gridavano allora al tradimento, o attribuivano la sconfitta al caso. In realtà però le cose stavano per lo più a questo modo: le conquiste della prima vittoria non erano state assicurate che dalla seconda vittoria del partito più radicale; raggiunto questo punto, e quindi anche ciò che era momentaneamente necessario, i radicali e i loro successi sparivano nuovamente dalla scena.[70]

Se Abraham Lincoln è in una certa misura espressione della piccola borghesia del Midwest e del West, fatta di piccoli coltivatori e artigiani indipendenti, della quale condivide sia l’insofferenza verso qualsiasi forma di aristocrazia e di subordinazione personale – che lo porta anche a guardare con occhio benevolo le prime rivendicazioni di una classe operaia cui riconosce certi “diritti” – sia l’istintivo rispetto verso la proprietà privata, Thaddeus Stevens è invece un grande borghese con origini plebee. Nel contesto americano della metà del XIX secolo la sua figura fonde gli interessi della moderna industria con un sincero radicalismo democratico giacobino, e, più esprime soggettivamente il secondo, più spiana oggettivamente la strada ai primi. Il suo egualitarismo, la sua lotta ad ogni pregiudizio razziale, le sue «dispotiche infrazioni al diritto di proprietà» non rappresentano altro che la rivoluzione borghese intenta a distruggere gli ostacoli al dispiegarsi del capitalismo nella sua forma più pura, e che, per assicurare la piena realizzazione e il mantenimento delle proprie conquiste, deve vincere – almeno in una certa misura e per un certo periodo – anche le titubanze dei settori maggioritari di una classe che è ormai, sul piano storico mondiale, sulla difensiva. Se infatti nella Seconda Rivoluzione americana il Radicalismo Repubblicano ha assolto una funzione – diremmo quasi di anticorpo – analoga a quella svolta dal giacobinismo nella Rivoluzione francese, una rilevante differenza è certamente individuabile nel diverso livello di sviluppo degli specifici rapporti di produzione capitalistici sul piano locale come su quello storico mondiale, sia dal punto di vista delle concrete possibilità di adottare determinate misure borghesi radicali così come da quello del più maturo affacciarsi sulla scena storica delle rivendicazioni di classe del proletariato.

Per Marx, in effetti, la ragione fondamentale per l’indicazione al proletariato socialista di appoggiare la causa dell’Unione – oltre alla più generale lotta contro la più ributtante forma di oppressione dell’uomo sull’uomo – risiedeva nelle possibilità del progresso del movimento operaio nell’insieme degli Stati Uniti d’America, nei quali «… ogni movimento operaio autonomo è rimasto paralizzato finché la schiavitù deturpava una parte della repubblica. Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi là dove è marchiato a fuoco in pelle nera»[71]. E non è un caso, continua Marx, che dalla «morte della schiavitù» sia

… subito germogliata una nuova, giovane vita. Il primo frutto della guerra civile è stata l’agitazione per la giornata delle otto ore, che con gli stivali delle sette leghe della locomotiva procede dalle coste dell’Atlantico a quelle del Pacifico, dalla Nuova Inghilterra alla California…[72]

… confermando teoricamente il pronostico di Engels che riteneva necessario sostenere la lotta del Nord affinché la repubblica borghese potesse essere riconosciuta dal movimento operaio americano non più come un fine in sé ma «soltanto come strumento e forma di passaggio alla rivoluzione sociale…»[73].

Come scrive Marx:

…ogni classe che prenda il posto di un’altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell’universalità, a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide. […]

E indubbiamente, come in tutte le rivoluzioni borghesi, a guidare Stevens era la convinzione di lottare per il bene dell’intera umanità. Una convinzione resa oggettivamente possibile e plausibile alla borghesia rivoluzionaria dal fatto che

… in realtà all’inizio il suo interesse è ancora più legato all’interesse comune di tutte le altre classi non dominanti […]. La sua vittoria giova perciò anche a molti individui delle altre classi che non giungono al dominio, ma solo in quanto pone questi individui nella condizione di ascendere nella classe dominante.[74]

La rappresentazione dell’interesse della borghesia industriale del Nord come interesse universale è dunque in una certa misura giustificata, ed è questo a rendere realmente gloriosa la rivoluzione borghese americana del 1859-1877, così come quella inglese del 1649 e quella francese del 1792-1794.

La Seconda Rivoluzione americana però – e “Thad” Stevens in essa – solo limitatamente prende a prestito i costumi dei fantasmi del passato (della Guerra di Indipendenza e della Rivoluzione francese) e certamente ancora non si appropria indebitamente delle parole d’ordine dell’avvenire (lo pseudo “socialismo” delle rivoluzioni anticoloniali). Peraltro, il giudizio del “grande plebeo” sulle rivoluzioni in generale muta considerevolmente e sostanzialmente nel corso degli anni:

Un Thaddeus Stevens notevolmente più giovane aveva denigrato la Rivoluzione francese del XVIII secolo, presentandola come un esempio negativo per gli Stati Uniti e usando parole come «giacobino» come epiteti. Ma nel 1862, spinto dalle nuove circostanze a sollecitare una trasformazione fondamentale nel proprio Paese, Stevens auspicò a gran voce che «l’ardore che ispirò la Rivoluzione francese» potesse trovare un riscontro negli Stati Uniti. I rivoluzionari francesi, come altri in altre parti del mondo, ricordava con ammirazione, erano «pervasi e spinti dai gloriosi princìpi della libertà», un’«idea che rende gli uomini invincibili». Gli Stati Uniti avevano bisogno di molto più di quello spirito. E tale spirito sarebbe sorto, credeva Stevens, solo quando i cittadini della nazione si fossero trovati a lottare per una causa altrettanto ispiratrice. «Fate sapere al popolo che questo Governo non sta lottando solo per far rispettare un patto sacro [cioè la Costituzione], ma per portare a compimento i princìpi della Dichiarazione di Indipendenza… e il sangue di ogni uomo libero ribollirà di entusiasmo e i suoi nervi saranno rafforzati in questa guerra santa».[75]

Per quanto rievochi frequentemente il modello della Rivoluzione francese – ed in particolare il giacobinismo – Stevens nutre minori illusioni di un Robespierre o di un Saint-Just sulle possibilità di rendere consuetudine la virtù civica, l’eguaglianza assoluta e la fratellanza sulle basi di una società evidentemente fondata sull’egoismo dello scambio mercantile, sulla libera concorrenza, sulla proprietà privata[76]. Diverso è il livello di maturità dei rapporti sociali borghesi in 70 anni di sviluppo capitalistico, particolarmente in quel Nord degli Stati Uniti in cui il capitalismo era stato impiantato nella sostanziale assenza di un retroterra feudale, e dunque necessariamente diverso è anche il grado di autoillusione di una borghesia ancora alle prese con compiti di natura rivoluzionaria. Stevens non crede infatti nell’eguaglianza in assoluto e non crede nemmeno nell’eguaglianza sociale; non si propone come i giacobini di eliminare le inevitabili manifestazioni individuali della vita capitalistica ma reclama l’eguaglianza politica assoluta, e una base economica minima garantita per tutti –  la piccola proprietà –, affinché quelle che ritiene le “naturali” e dunque per lui legittime diseguaglianze nella capacità degli individui di affermarsi (evidente l’influenza dell’ideologia protestante) si esplichino senza mostruose forzature “artificiali”.

Se, d’altro canto, la proposta di Stevens di confiscare e frazionare le piantagioni degli ex-schiavisti in piccole aziende agricole di proprietà degli schiavi liberati riconosceva implicitamente che il latifondismo rappresentava un ostacolo per lo «sviluppo “idealmente” puro del capitalismo nell’agricoltura»[77], al tempo stesso si arrestava alle soglie della “nazionalizzazione”, ovvero dell’assunzione della titolarità giuridica della proprietà di tutta la terra da parte dello Stato della classe borghese[78]. Nondimeno, la riforma agraria di Stevens si rivela sufficientemente radicale da spaventare con le sue pur remote implicazioni la borghesia yankee e i suoi rappresentanti politici al Congresso, tra i quali anche alcuni Radicali Repubblicani, che

…si chiedevano anche con nervosismo dove avrebbe portato quella strada, se avessero iniziato a redistribuire la proprietà terriera alle persone sfruttate e impoverite. «Se il Congresso intende prendere atto delle rivendicazioni dei lavoratori contro il capitale», avvertiva Henry Raymond sul New York Times, «non ci può essere alcuna pretesa decente [sic] di confinare [questa presa d’atto] alla manodopera schiavizzata del Sud. È una questione… di relazioni fondamentali tra industria e capitale; e prima o poi, se si inizia nel Sud, la cosa troverà la sua strada nelle città del Nord». Il Daily Advertiser di Boston esprimeva una preoccupazione simile, sostenendo che opporsi all’esistenza delle aristocrazie terriere era «un’arma a doppio taglio», poiché «ci sono socialisti che ritengono che qualsiasi aristocrazia» rappresenti un anatema, compresa l’élite economica del Nord. Ad alimentare tali timori era la crescente ondata di organizzazione sindacale e di scioperi nel Nord, che stava creando una frattura tra molti Repubblicani e i lavoratori.[79]

Ed è precisamente sul fronte delle relazioni lavoro-capitale nel Nord che Stevens mette più volte in allarme i suoi colleghi. Sebbene si impegni infatti nel promuovere elevate tariffe protezionistiche per l’industria, tenta anche, senza successo, di far approvare una legge per proteggere i lavoratori con una giornata lavorativa di otto ore nel District of Columbia e di ottenere aumenti salariali per i dipendenti pubblici[80]. Pur non essendovi nulla di intrinsecamente anticapitalista, e ancor meno di socialista nelle sue proposte autenticamente riformiste, il rivoluzionario borghese radicale Thaddeus Stevens è, alla fine della sua parabola politica, contrastato dai membri meno lungimiranti della stessa classe di cui ha promosso e assicurato oggettivamente gli interessi.

Conseguenza della Seconda Rivoluzione americana è stata infatti la formidabile accelerazione dello sviluppo industriale del capitalismo americano e con esso, a partire dal dopoguerra, l’ulteriore aumento dell’importanza numerica e della forza della classe operaia. La crescita del protagonismo sociale del suo antagonista storico doveva comprensibilmente frenare la borghesia industriale nel perseguire conseguentemente riforme che facilitassero l’unione del proletariato, mentre al contempo doveva incentivare la sua propensione al compromesso con i residui della vecchia slaveocracy, costretta a convertirsi ai moderni rapporti capitalistici. È in questo senso anzi che del peculiare e abietto razzismo elaborato in secoli di legittimazione ideologica dello schiavismo protocapitalistico si appropria la moderna borghesia industriale, rielaborandolo allo scopo di mantenere ed alimentare fittizie divisioni interne alla sua classe antagonistica.

Tuttavia, se con la tragica sconfitta della Ricostruzione Radicale il riconoscimento della piena eguaglianza giuridica di tutti gli esseri umani è slittato di circa un secolo – e in questo senso la Seconda Rivoluzione americana può certamente definirsi incompiuta da una borghesia che non era più storicamente in grado di completarla e da un proletariato che all’epoca non era ancora in grado di farlo – la vecchia classe dominante del Sud, in quanto beneficiaria del modo di produzione schiavistico, era stata però definitivamente annientata e il suo peso nella sintesi governativa degli Stati Uniti era stato fortemente ridimensionato in concomitanza della sua forzata conversione in una moderna borghesia agraria. È vero, il razzismo ne uscì rafforzato, ma la schiavitù era stata abolita; i neri del Sud persero quasi immediatamente il diritto di voto, ma divennero quantomeno titolari di una personalità giuridica e non era più legalmente consentito trattarli alla stregua di beni mobili. Da quel momento in poi il proletariato americano avrebbe potuto finalmente porre le proprie rivendicazioni di classe – compresa quella della completa unità interetnica contro ogni oppressione razziale – in maniera indipendente e su un terreno socialmente e politicamente più avanzato. Senza questo terreno, negli anni Sessanta del secolo dell’imperialismo, non sarebbero state possibili quelle riforme per i “diritti civili” dei neri, a cui il capitalismo americano è stato costretto dalla spinta oggettiva della lotta di classe del proletariato nero. E senza la sferza dei Radicali di Thaddeus Stevens un secolo prima, questo terreno non sarebbe stato ottenuto; la rivoluzione borghese americana non avrebbe raggiunto nemmeno i suoi obiettivi minimi, e bene fecero all’epoca i rappresentanti teorici del proletariato ad appoggiare gli elementi d’avanguardia di questo processo.

A buon diritto, dunque, Thaddeus Stevens può essere definito l’ultimo giacobino. Non tanto perché sia stato l’ultimo ad essersi definito tale (se mai lo ha fatto) o perché abbia condiviso tutte le illusioni dei giacobini, quanto perché è stato l’ultimo ad assolvere la funzione storica che i giacobini svolsero oggettivamente 70 anni prima: rappresentare quel “partito radicale” in grado di assicurare con le sue “fughe in avanti” le conquiste di una borghesia nel complesso più pavida e accondiscendente.

Ultimo esponente pienamente rivoluzionario di una classe che sul piano storico mondiale aveva già iniziato ad esaurire i propri compiti progressivi, Stevens, che è un capitalista, un industriale, pur battendosi per la più assoluta eguaglianza giuridica di tutti gli esseri umani non può tuttavia vedere nell’abolizione della proprietà lo strumento per l’autentica eguaglianza, per la coltivazione universalmente e realmente garantita delle diverse attitudini di ciascuno e per la loro libera possibilità di estrinsecazione in una società senza classi. È già al là di un Robespierre[81] ma ancora al di qua di un Babeuf.

Dieci o venti anni dopo, e con dieci o venti anni di meno, Thaddeus Stevens avrebbe potuto diventare con le stesse probabilità sia un fiero nemico del movimento operaio che un convinto socialista. Non stupisce quindi che la sua figura sia stata tanto vituperata da una generazione di storici americani figli del compromesso postbellico tra Nord e Sud borghesi: coaguli individuali di tendenze storiche come Stevens o Robespierre incarnano la cattiva coscienza di una classe dominante in avanzato stato di decadenza, ormai asserragliata nella difesa di un privilegio che, a differenza delle classi dominanti che l’hanno preceduta, non ha neanche la franchezza di definire tale.

In tempi relativamente recenti Thaddeus Stevens è stato oggetto – almeno negli Stati Uniti – di una cautamente benevola “riscoperta”, presumibilmente riflesso di una dialettica tra le frazioni borghesi americane nel secondo decennio di questo secolo tendente ad impugnare specificamente una certa lettura dell’annosa “questione razziale”. Ne fa fede la sontuosa pellicola cinematografica di Steven Spielberg dedicata a Lincoln (2012), in cui il “grande plebeo” viene interpretato con grande mestiere da Tommy Lee Jones.

Alcuni critici hanno lamentato il fatto che nel film Stevens verrebbe raffigurato come un rigido “principista” un idealista costretto a confrontarsi con la prosaica realtà e quindi, inevitabilmente obbligato a rinunciare ai propri princìpi per raggiungere quegli obiettivi di compromesso che il “pragmatico” Lincoln sa invece essere i soli realizzabili. Si tratterebbe in effetti di una lettura in perfetto ossequio al concetto borghese di “realismo” e probabilmente è persino quanto si proponeva intenzionalmente di trasmettere la pellicola. Nondimeno, ad uno sguardo non superficiale risulta evidente quanto nel film la presenza del personaggio di Stevens sia seconda per importanza solamente a quella dello stesso Lincoln e quanto la sceneggiatura – costrettavi dal materiale storico con cui opera e da una certa onestà espositiva – descrivendo l’operato di Stevens finisca per dovergli riconoscere un affilatissimo senso politico, un’intransigenza niente affatto aliena al realismo, ma altresì informata ad un diverso realismo fondato su obiettivi borghesi avanzati, conseguenti, lucidamente perseguiti[82]. È forse quindi più corretto affermare che in Lincoln, al di là della rappresentazione dell’opinione che i contemporanei avevano di “Thad” Stevens, è involontariamente illustrata la sua reale capacità di muoversi tatticamente nel solco della totale coerenza con i propri princìpi. A chi conosca la loro rispettiva parabola ed il loro ruolo nella tormentata determinazione della linea politica dell’Unione durante la guerra, sarà proprio Stevens ad apparire come colui che con lo sguardo saldamente ancorato alla propria bussola è anche perfettamente consapevole «delle paludi, dei deserti e degli abissi» che deve incontrare lungo il cammino, mentre è invece il cauto, il “realista”, il “pragmatico” Lincoln colui che è più volte costretto non tanto a riconsiderare la via migliore per raggiungere la meta prefissata quanto a ridefinire la meta stessa.

La tanto celebrata Lost Cause confederata – nonostante i suoi richiami ad un diritto di autodeterminazione che oggi i falsi marxisti innalzano a principio eterno e che ieri i veri Marx ed Engels non avevano remore a mettersi all’occorrenza risolutamente sotto i tacchi – non era altro, in fin dei conti, che una molto prosaica questione di “roba”, come tale capace di infiammare la ferocia bestiale di qualsiasi classe proprietaria. A maggior ragione quella dell’altezzoso strato di parassiti del “Gallant South”, una stirpe ormai da generazioni incapace di compiere un qualsiasi lavoro produttivo se non sotto la minaccia dello staffile, assuefatta perciò a concepire il lavoro in sé stesso esclusivamente in termini di schiavitù[83]. Uno strato di fuchi particolarmente versato in un’arte militare assurta a necessario sfogatoio di energie non meglio orientabili, nonché ad obbligo sociale nella difesa di un ributtante privilegio percepito come diritto naturale e inalienabile.

Ancora oggi – e non solamente negli Stati Uniti – stracci con i colori della Croce del Sud vengono sventolati simbolicamente da escrementi sociali che patiscono l’urgenza di nascondere retoricamente con il manto della presunta “grandezza morale” la loro Worst Cause, i propri interessi di bottegai o la propria degradante, servile, adesione ai dettami del grande capitale. Ancora oggi Thaddeus Stevens, il rivoluzionario borghese che si batte con implacabile dedizione contro la schiavitù personale e contro il privilegio fondato sulla diseguaglianza giuridica, per instaurare oggettivamente quella «schiavitù della società civile» che è «apparentemente la libertà più grande» perché «al posto del privilegio è subentrato… il diritto»[84], ha qualcosa da dire agli abolizionisti della schiavitù salariale, della condizione in cui il lavoratore è «schiavo del lavoro per il guadagno», e in cui in generale l’essere umano è «schiavo sia del bisogno egoistico proprio, sia del bisogno egoistico altrui»[85]; ha qualcosa da dire a quei radicali che, riconoscendo l’autentica radice delle contraddizioni sociali, si battono per l’emancipazione dell’umanità dalle catene del capitalismo e per l’eguaglianza sociale.


NOTE

[1] Questo ed altri precedenti riferimenti tra caporali provengono dal testo di K. Marx Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852.

[2] B. Levine, Thaddeus Stevens. Civil War Revolutionary, Fighter for Racial Justice, Simon & Schuster, New York, 2021 [le traduzioni da questo saggio sono redazionali].

[3] «Alla rivoluzione francese è contemporanea quella americana, ma all’analogia della richiesta di istituti democratici fanno contrappeso le differenze, che in America si trattava di indipendenza di coloni bianchi da uno Stato europeo, per giunta il primo Stato borghese, e non dell’abbattimento di una classe dominante nazionale: tanto che la stessa Francia feudale ostile alla Gran Bretagna simpatizzò coi ribelli di America e li aiutò con le armi; come poi doveva la capitalista Inghilterra appoggiare con tutte le forze la controrivoluzione feudale in Francia». [A. Bordiga], Russia e Rivoluzione nella teoria marxista, 1954-55, Edizioni Il Programma Comunista, 1990, pp. 40-41.

[4] M. Meltzer, Thaddeus Stevens and the Fight for Negro Rights, Thomas Y. Crowell Company, New York, 1967, p. 17.

[5] H. L. Trefousse, Thaddeus Stevens: Nineteenth-Century Egalitarian, University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1997, pp. 13-16.

[6] Secondo ricerche recenti Stevens avrebbe ospitato regolarmente schiavi fuggitivi nella sua proprietà di Lancaster.

[7] B. Levine, Op. cit., pp. 68-69.

[8] La guerra civile nordamericana, 20 ottobre 1861, in K. Marx – F. Engels, La guerra civile, Silva Editore, Roma, 1971, pp. 86-87.

[9] Poco dopo lo scoppio della Guerra Civile, Marx ed Engels denunceranno apertamente l’obiettivo del Sud di avviare una “riorganizzazione” dell’Unione «sulla base della schiavitù, sotto il controllo riconosciuto dell’oligarchia schiavista. Il progetto di una simile riorganizzazione è stato enunziato esplicitamente dai più eminenti oratori del Sud alla Convenzione di Mongomery, e spiega l’inclusione nella nuova Costituzione [degli Stati confederati] di un paragrafo che lascia a tutti gli Stati della vecchia Unione la facoltà di entrare nella Confederazione. Il sistema schiavista contagerebbe tutta l’Unione». Per Marx ed Engels nel caso in cui questo progetto dovesse realizzarsi negli Stati del Nord «i bianchi appartenenti alla classe lavoratrice verrebbero degradati a poco a poco al livello di iloti. E questo concorderebbe con il principio strombazzato ai quattro venti secondo cui soltanto certe razze sono adatte alla libertà [a proposito del presunto “razzismo” politico dei fondatori del socialismo scientifico… N.d.R.], e come nel Sud il lavoro servile è la sorte dei neri, allo stesso modo nel Nord è la sorte dei tedeschi e degli irlandesi, o dei loro discendenti diretti». La guerra civile negli Stati Uniti, 6 novembre 1861, in K. Marx – F. Engels, La guerra civile, Silva Editore, Roma, 1971, pp. 102-103.

[10] B. Levine, Op. cit., p. 101.

[11] Ibidem, p. 103.

[12] Il “prode” autore del gesto ricevette in omaggio diversi bastoni nuovi da parte di “rispettabili gentlemen” del Sud, evidentemente compiaciuti del suo gesto.

[13] B. Levine, Op. cit., p. 104.

[14] Furono circa 200.000 gli immigrati tedeschi che combatterono come volontari nelle file dell’Unione. Fra essi anche Joseph Weydemeyer, amico di Marx ed Engels e pioniere del socialismo scientifico in America che durante la guerra ottenne il grado di colonnello nell’esercito del Nord.

[15] B. Levine, Op. cit., p. 155.

[16] «L’Unione era ancora importante per il Sud soltanto nella misura in cui gli si offriva il potere federale come mezzo per continuare la politica schiavista. In caso contrario, era meglio provocare subito la frattura anziché restare a guardare lo sviluppo del Partito Repubblicano e la formidabile ascesa del Nord-Ovest per un altro quadriennio, ed intraprendere la lotta in condizioni più sfavorevoli». La guerra civile nordamericana, 20 ottobre 1861, in K. Marx – F. Engels, La guerra civile, Silva Editore, Roma, 1971, p. 90.

[17] Schermendosi con cavillosità costituzionali Buchanan affermava se gli Stati non avevano il diritto di secedere dall’Unione, il Governo federale non aveva tuttavia quello di impedirgli di secedere.

[18] A. Glass, Senate Votes to Seat Pennsylvania’s Simon Cameron, March 13, 1857. Politico. Washington, D.C, 12 marzo 2016.

[19] B. Levine, Op. cit., pp. 123 e 141-142.

[20] La guerra civile negli Stati Uniti, 6 novembre 1861, in K. Marx – F. Engels, La guerra civile, Silva Editore, Roma, 1971, p. 103. Meno di un anno dopo Marx ed Engels aggiungono che, nella misura in cui non veniva colpita direttamente, «la schiavitù si trasformava da tallone d’Achille a scudo invulnerabile del Sud. Grazie agli schiavi che fanno tutto il lavoro produttivo, tutti gli uomini del Sud adatti al combattimento possono scendere in campo!». Una critica della situazione americana, 9 agosto 1862, Ibidem, p. 245.

[21] B. Levine, Op. cit., p. 125.

[22] Ibidem, pp. 134-136.

[23] Ibidem, pp. 143-144.

[24] Ibidem, pp. 144-145.

[25] Ibidem, pp. 153-154.

[26] Sembra che Stevens, che si era recato in zona a supervisionare le operazioni, sia stato allontanato a forza dai suoi operai per preservarne l’incolumità. In seguito alla distruzione della fabbrica, che gli costò circa 95.000 dollari dell’epoca, fornì un aiuto immediato ai suoi dipendenti. Cfr. Trefousse, Op. cit., p. 134-135 e F. Brodie, Thaddeus Stevens: Scourge of the South, W. W. Norton & Company, New York, p. 180.

[27] B. Levine, Op. cit., p. 154.

[28] Ibidem, pp. 155-156.

[29] Ibidem, p. 3.

[30] In una lettera del 7 agosto 1862, Marx rassicura un Engels piuttosto sfiduciato sulle sorti della guerra: «Il Nord alla fine condurrà la guerra seriamente e ricorrerà a sistemi rivoluzionari e butterà da parte il predominio dei border slave statesmen. Un solo reggimento nero avrà un effetto straordinario sui nervi del Sud. […] Il succo di tutta la storia mi sembra il fatto che una guerra di questo genere dev’essere condotta rivoluzionariamente, e che finora gli yankees hanno tentato di condurla costituzionalmente». K. Marx – F. Engels, La guerra civile, Silva Editore, Roma, 1971, p. 320.

[31] B. Levine, Op. cit., pp. 160 e 162.

[32] Ibidem, p. 163.

[33] Stevens affermò: «la più grande misura del diciannovesimo secolo è stata approvata grazie alla corruzione, promossa e istigata dall’uomo più puro d’America [Lincoln]». J. M. Scovel, Thaddeus Stevens. Lippincott’s Monthly Magazine, Philadelphia, 1898, p. 550.

[34] B. Levine, Op. cit., pp. 168-169.

[35] https://socialistworker.co.uk/socialist-review-archive/thaddeus-stevens-and-legacy-radical-reconstruction.

[36] B. Levine, Op. cit., p. 179.

[37] Ibidem, p. 166.

[38] Lettera di Marx ad Engels, 24 giugno 1865, in K. Marx – F. Engels, La guerra civile, Silva Editore, Roma, 1971, p. 350.

[39] Lettera di Engels a Marx, 15 luglio 1865, in K. Marx – F. Engels, Op. cit., p. 351. Nell’aprile 1866 Marx scrive ad Engels: «Dopo la fase della guerra civile gli United States sono entrati soltanto adesso nella fase rivoluzionaria vera e propria, e i wiseacres europei, che credono nell’onnipotenza del signor Johnson, saranno ben presto delusi». Ibidem, p. 352.

[40] B. Levine, Op. cit., pp. 193-195.

[41] Ibidem, p. 197.

[42] Ibidem, pp. 204-205.

[43] Ibidem, p. 205.

[44] Ibidem, p. 210.

[45] Ibidem, pp. 212-213.

[46] Ibidem, p. 214.

[47] Gli Stati ratificarono l’Emendamento, che divenne parte della Costituzione a metà del 1868.

[48] Ibidem, p. 218.

[49] Ibidem, p. 216.

[50] Ibidem, p. 217.

[51] Ibidem, pp. 218-219.

[52] Ibidem, p. 216.

[53] Ibidem, pp. 219-220. «Un anziano ex schiavo della Georgia osservò: “Ogni creatura ha un istinto. Il vitello va dalla mucca per succhiare, l’ape all’alveare. Siamo un popolo povero, umile e degradato, ma conosciamo i nostri amici. In tempo di guerra percorrevamo quindici miglia a piedi per capire come andava la battaglia; possiamo percorrere quindici miglia e più per capire come votare”». Ibidem.

[54] B. Levine, Op. cit., p. 223.

[55] Ibidem, p. 224.

[56] Ibidem, pp. 226-227. Nel suo discorso alla Camera Stevens afferma di ritenere che «Quaranta acri di terra e una capanna sarebbero più preziosi per [l’afroamericano] del diritto immediato di voto». H. M. Bond, Social and Economic Forces in Alabama Reconstruction, Journal of Negro History, 23 (3), July 1938, p. 300.

[57] B. Levine, Op. cit., p. 229.

[58] Ibidem, pp. 229-230.

[59] B. Levine, Op. cit., p. 232.

[60] Ibidem, p. 233.

[61] Ibidem.

[62] Ibidem, p. 238.

[63] Ibidem, p. 244.

[64] F. Brodie, Op. cit., p. 364.

[65] K. Marx, Il capitale, Utet, Torino, 2009, Libro I, p. 261.

[66] Ibidem.

[67] Prosegue Marx: «Il perdurare di questo rapporto esige che il proprietario della forza lavoro la venda sempre soltanto per un determinato tempo, perché se la vende in blocco, una volta per tutte, vende sé stesso, si trasforma da uomo libero in schiavo, da possessore di merci in merce. Deve, in quanto persona, riferirsi costantemente alla sua forza lavoro come a sua proprietà, quindi come a sua propria merce, e può farlo solo in quanto la metta a disposizione del compratore sempre soltanto in via transitoria, per un periodo di tempo determinato; gliela lasci temporaneamente in uso, e perciò, con la sua alienazione, non rinunci alla proprietà su di essa». Ibidem.

[68] Ibidem, p. 271.

[69] Vicende americane, 3 marzo 1862, in K. Marx – F. Engels, La guerra civile, Silva Editore, Roma, 1971, p. 192.

[70] F. Engels, Introduzione a K. Marx, Le lotte di classe in Francia 1848-1850, in K. Marx – F. Engels, Opere scelte, Lotta comunista, Milano, 2023, p. 1269.

[71] K. Marx, Il capitale, Utet, Torino, 2009, Libro I, p. 417.

[72] Ibidem.

[73] Lettera di Engels a Marx, 15 novembre 1862, in K. Marx – F. Engels, La guerra civile, Silva Editore, Roma, 1971, p. 328.

[74] K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1972, vol. V, p. 46.

[75] B. Levine, Op. cit., pp. 143-144.

[76] «Robespierre, Saint-Just ed il loro partito sono caduti perché hanno scambiato la comunità antica, realisticamente democratica, che poggiava sul fondamento della schiavitù reale, con lo Stato moderno rappresentativo, spiritualisticamente democratico, che poggia sulla schiavitù emancipata, sulla società civile. Che colossale illusione essere costretti a riconoscere e sanzionare nei diritti dell’uomo la società civile moderna, la società dell’industria, della concorrenza generale, degli interessi privati perseguenti liberamente i loro fini, dell’anarchia, dell’individualità naturale e spirituale alienata a sé stessa, e volere poi nello stesso tempo annullare nei singoli individui le manifestazioni vitali di questa società, e volere modellare la testa politica di questa società nel modo antico!». K. Marx – F. Engels, La sacra famiglia, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1972, vol. IV, p. 136.

[77] «Teoricamente la nazionalizzazione è lo sviluppo «idealmente» puro del capitalismo nell’agricoltura». Lenin, Il programma agrario della socialdemocrazia nella prima rivoluzione russa del 1905-1907, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 13, p. 302.

[78] «Il borghese radicale (oltre a guardare con un occhio alla soppressione di tutte le altre tasse […]) prosegue di qui teoricamente verso la negazione della proprietà fondiaria privata che egli vorrebbe rendere proprietà comune (common property) della classe borghese, del capitale, nella forma di proprietà statale. Tuttavia nella prassi manca il coraggio, perché l’assalto ad una forma di proprietà – una forma della proprietà privata sulle condizioni di lavoro – diventerebbe molto pericoloso per l’altra forma [la proprietà privata nell’industria]». K. Marx, Teorie sul plusvalore, Editori Riuniti, Roma, 1973, vol. II, pp. 41-42.

[79] Ibidem, p. 231. A questo proposito Marx, nella sua prefazione alla prima edizione de Il capitale, menziona gli interventi del Repubblicano Radicale Benjamin Franklin Wade: «… al di là dell’Atlantico, il signor Wade, vicepresidente degli Stati Uniti dell’America del Nord, dichiarava in pubbliche assemblee: Soppressa la schiavitù, passa all’ordine del giorno la trasformazione dei rapporti del capitale e della proprietà fondiaria! Sono segni dei tempi, questi, che non si possono nascondere né sotto manti purpurei, né sotto tonache nere. Essi non significano che domani accadranno miracoli. Mostrano come perfino nelle classi dominanti albeggi il presentimento che la società attuale non è un solido cristallo, ma un organismo suscettibile di modificarsi, e in processo di costante metamorfosi». K. Marx, Il capitale, Utet, Torino, 2009, Libro I, p. 77.

[80] H. L. Trefousse, Op. cit., p. 195.

[81] Dal punto di vista delle fisionomie caratteriali poi, è forse l’influenza ideologica formativa del battismo protestante ad evitare a Stevens, altrettanto incorrotto e incorruttibile di Robespierre e altrettanto interamente dedito alla propria battaglia, di cedere alla tentazione di reclamare il premio della sua virtù – seppure quello immateriale della pubblica adorazione di un ego identificato con la propria causa e i propri princìpi mediante il meccanismo mimetico della rivendicazione di impersonalità – che ha indebolito la figura del giacobino francese nella sua tragica lotta contro la socialmente intrinseca meschinità della classe di cui incarnava la coscienza insoddisfatta.

[82] Con un’interpretazione figlia dell’attuale spirito dei tempi, che tuttavia non rende il film meno intelligente e accurato, una rivendicazione di Stevens per l’epoca ed il contesto estremamente avanzata come l’eguaglianza “di fronte alla legge” viene rappresentata anacronisticamente come una ritirata tattica, quando in realtà riguardava un nodo gordiano assai più dirimente per gli interessi concreti del Sud schiavista di qualsiasi dissertazione filosofica sull’eguaglianza naturale o “in assoluto”.

[83] «Un giornalista del Nord in viaggio nel Sud del dopoguerra scoprì che quell’opinione era più forte che mai. I piantatori “non hanno alcuna concezione del lavoro libero. Non concepiscono alcuna legge per controllare i lavoratori, se non la legge della forza”». Ibidem, pp. 193-194.

[84] K. Marx – F. Engels, La sacra famiglia, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1972, vol. IV, p. 130.

[85] Ibidem, p. 126.

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