
Nel mettere a disposizione dei nostri lettori la trascrizione completa dell’importante testo di Marx ed Engels Indirizzo del Comitato centrale alla Lega del marzo 1850, vorremmo sottoporre una modesta riflessione sui numerosi temi da esso affrontati; sforzandoci di mettere nel giusto rilievo gli insegnamenti più pertinenti alle battaglie che il movimento operaio internazionale si trova ad affrontare anche nella fase attuale e cercando di contestualizzare le preziose assunzioni che afferiscono all’epoca specifica nella quale il testo fu elaborato.
Uno dei temi principali della circolare del Comitato centrale della Lega dei comunisti, indirizzata da Londra ai membri della Lega che operavano in Germania, è la valutazione della natura sociale del processo rivoluzionario che si riteneva imminente sia nei paesi tedeschi che, più in generale, nel continente.
Su questo tema, l’Indirizzo del 1850 non si discosta molto dall’impostazione già espressa ad esempio da Engels nel 1845 nel suo Principi del comunismo, o dal Manifesto del 1847, ma, come vedremo, sulla base delle esperienze maturate in seguito ai movimenti rivoluzionari del 1848-49, approfondisce il quadro, definisce maggiormente i rapporti fra le classi in Germania e tratteggia con maggiore precisione le tappe della “rivoluzione in permanenza”.
Una fondamentale acquisizione nell’Indirizzo è il ripiegamento della grande borghesia liberale nel campo della reazione, il suo definitivo – alla scala storica – compromesso con le forze feudali nel timore delle sempre più assertive istanze del proletariato. Un compromesso che vedeva la borghesia tedesca cedere il controllo della sovrastruttura statale alle forze feudali come contropartita per il ridimensionamento delle fondamenta economiche di queste ultime, nella comune lotta contro la classe operaia.
Come scrivono Marx ed Engels:
Già nel 1848 vi dicemmo, fratelli, che la borghesia liberale tedesca sarebbe giunta quanto prima al potere e avrebbe subito ritorto contro gli operai il potere appena conquistato. Avete veduto come ciò si sia compiuto. Furono infatti i borghesi, dopo il movimento del marzo 1848, a prendere subito possesso del potere dello Stato e a utilizzarlo per respingere senz’altro gli operai, loro alleati nella lotta, nella primitiva posizione di sottomissione. E sebbene la borghesia non potesse raggiungere questo scopo senza allearsi al partito feudale, che era stato sconfitto in marzo, anzi, sebbene non potesse raggiungerlo senza cedere infine a sua volta il potere a questo partito feudale assolutistico, pure essa si è assicurata condizioni che, dati gli imbarazzi finanziari del governo, le porrebbero alla lunga il potere nelle mani e garantirebbero tutti i suoi interessi, qualora fosse possibile che il movimento rivoluzionario si trasformasse già ora in una cosiddetta evoluzione pacifica.
Per Marx ed Engels il ruolo della grande borghesia era dirimente per delimitare i rapporti del proletariato con l’altra forza sociale che nel contesto politico-economico tedesco di metà del XIX secolo si presentava ancora come rivoluzionaria: la piccola borghesia artigiana e intellettuale. Era dirimente perché la piccola borghesia veniva ad assumere una posizione che in un processo rivoluzionario l’avrebbe portata inevitabilmente a confrontarsi con le determinazioni profonde dei suoi interessi sociali. Parallelamente, il proletariato si affermava ormai come la “sola classe risolutamente rivoluzionaria” ed era quindi tanto più necessario stabilirne la più completa indipendenza di classe, la più completa indipendenza politica dal “partito democratico” – “che è per gli operai assai più pericoloso del precedente partito liberale” – in quanto espressione di variegati strati piccolo borghesi che “nutrono il pio desiderio di abolire la pressione del grande capitale sul piccolo capitale, del grosso borghese sul piccolo borghese”.
È importante soffermarci sul “partito democratico piccolo-borghese”, “democratico-sociale” o “rosso”, perché ancora oggi – pur essendosi profondamente trasformate, col maturare dello sviluppo capitalistico, le mezze classi di cui è espressione – la sua influenza sul proletariato è un ostacolo sulla strada del movimento operaio.
Nel 1850 le rivendicazioni della piccola borghesia democratica tedesca erano di un’unica natura ma avevano una duplice valenza storica: da un lato tendevano alla liquidazione completa dei gravami feudali, possibile soltanto attraverso una costituzione democratica che le avrebbe conferito la maggioranza elettorale e quindi necessariamente in seguito all’abbattimento della sovrastruttura feudale. Questa necessità poneva la piccola borghesia ancora nel campo rivoluzionario, perché avrebbe implicato la sua alleanza con il proletariato contro lo Stato feudale e contro la borghesia liberale, ormai compromessa con la reazione. Dall’altro lato, però, gli interessi materiali della piccola borghesia, pur se a volte conflittuali rimangono pienamente compatibili e riassorbibili dal capitalismo, in quanto espressione della dinamica dello sviluppo borghese che mette drammaticamente in atto la concentrazione del capitale in poche mani espropriandone i piccoli possessori.
Come scrivono gli estensori dell’Indirizzo:
I piccoli borghesi democratici, ben lungi dal voler rovesciare tutta la società per i proletari rivoluzionari, tendono a una trasformazione delle condizioni sociali, per cui la società attuale diventi per loro quanto più è possibile tollerabile e comoda.
L’elenco delle rivendicazioni fondamentali della democrazia chiarisce la natura di quelli che all’epoca erano gli interessi materiali della piccola borghesia e la loro duplice valenza: rivoluzionarie in senso anti-feudale e reazionarie in senso anti-proletario, quando indulgono in “pii desideri” di misure per mezzo delle quali il piccolo proprietario venga messo al riparo dalla concorrenza e dalla concentrazione del capitale. In effetti la piccola borghesia reclama
l’applicazione nelle campagne dei rapporti borghesi di proprietà, mediante l’eliminazione completa del feudalesimo.
Ma anche, anzi soprattutto
una diminuzione delle spese dello Stato, mediante una limitazione della burocrazia, e facendo cadere il peso delle imposte sui grossi proprietari fondiari e sui grossi borghesi. Essi reclamano inoltre l’eliminazione della pressione del grande capitale sul piccolo, mediante istituti pubblici di credito e leggi contro l’usura, per modo che a loro e ai contadini sia possibile ricevere anticipi a buone condizioni dallo Stato invece che dai capitalisti
Nel recentissimo passato, come gruppo politico, ci siamo occupati di demistificare, sia in ambito sindacale che al di fuori, con il nostro opuscolo “Il marxismo e la questione fiscale”, l’utilizzo strumentale di questo e di altri testi di Marx ed Engels per conferire una legittimità “teorica” alla parola d’ordine della “million tax del 10% sul 10% dei più ricchi”, che, nelle intenzioni dei suoi ideatori doveva assurgere a “rivendicazione di classe del proletariato sul terreno fiscale”.
Nel nostro testo abbiamo risposto ai fautori della “patrimoniale di classe”, che ripropongono meccanicamente le rivendicazioni che i comunisti suggerivano al partito operaio nel 1850, che quelle rivendicazioni e quelle proposte di misure politico-economiche erano perfettamente valide e giustificabili nei limiti di quella determinata fase dello sviluppo capitalistico, e che sono state poi realizzate dalla borghesia stessa – cosa di cui gli stessi Marx ed Engels ebbero modo di rendersi conto nell’arco della loro non breve vita politica – rendendo decisamente opportunista, se non reazionario, riproporle oggi come la quintessenza di una piattaforma di classe.
Inoltre, sempre nel nostro opuscolo, abbiamo cercato di chiarire quale ruolo, nell’elaborazione dei dirigenti della Lega dei comunisti, doveva assumere il proletariato nel quadro del “duplice” processo rivoluzionario tedesco.
Nei suoi Principi del comunismo del 1845 Engels prefigura due diversi possibili esiti di una vittoriosa rivoluzione proletaria in Europa:
prima di tutto la rivoluzione del proletariato instaurerà una costituzione democratica, e con ciò il dominio politico, diretto o indiretto, del proletariato. Diretto, in Inghilterra, dove i proletari costituiscono già la maggioranza del popolo. Indiretto, in Francia e in Germania, dove la maggioranza del popolo è costituita non soltanto di proletari, ma anche di piccoli contadini e di piccoli borghesi, che solo ora per l’appunto si trovano nello stadio di transizione al proletariato e diventano sempre più dipendenti dal proletariato in tutti i loro interessi politici, e quindi dovranno presto adeguarsi alle rivendicazioni del proletariato. Ciò costerà forse una seconda battaglia, che però può finire soltanto con la vittoria del proletariato.[1]
Questo schema operativo non muta nella sostanza nell’Indirizzo del 1850 riferito alla Germania:
la massa dei piccoli borghesi, sino a che le sarà possibile, sarà lenta, irresoluta e inattiva, ma una volta conquistata la vittoria, cercherà di ipotecarla per sé, di esortare gli operai alla calma e a ritornare a casa e al lavoro, cercherà di prevenire i cosiddetti eccessi, e di escludere il proletariato dai frutti della vittoria. Non è in potere degli operai impedire che i democratici piccolo-borghesi agiscano in questo modo, ma è in loro potere rendere loro più difficile di volgersi contro il proletariato armato; è in loro potere dettare condizioni tali che il dominio dei democratici borghesi rechi sin dall’inizio in sé stesso il germe della propria dissoluzione, e così sia reso più facile soppiantarlo in seguito col dominio del proletariato.
La rivoluzione, proletaria quanto alle sue forze propulsive e alla sua base di massa, condurrà alla “vittoria comune” contro la reazione feudale con gli strati piccolo-borghesi rivoluzionari, questi strati, rappresentati dal loro “partito democratico” si ritroveranno inevitabilmente a svolgere un ruolo di primo piano nelle fasi iniziali della rivoluzione, il loro dominio politico nella costituzione democratica tedesca però dovrà essere fin dall’inizio condizionato da quello che nel 1845 Engels chiama il “dominio politico indiretto” del proletariato, nelle forme che lui e Marx chiariscono nell’Indirizzo e che rappresentano una lucidissima anticipazione di quella configurazione dei rapporti di classe che in seguito ad altre esperienze rivoluzionarie è stata chiamata “dualismo di potere”:
Accanto ai nuovi governi ufficiali essi [gli operai] debbono in pari tempo istituire propri governi rivoluzionari operai, sia nella forma di giunte e consigli comunali, sia mediante circoli e comitati operai, cosicché i governi democratici borghesi non solo perdano subito l’appoggio degli operai, ma si veggano fin da principio sorvegliati e minacciati da organismi dietro cui si trova tutta la gran massa degli operai. In una parola: dal primo momento della vittoria la diffidenza non deve più rivolgersi contro il vinto partito reazionario, ma contro i propri alleati di ieri, contro il partito che vorrà sfruttare da solo la vittoria comune.
Ovviamente questi governi rivoluzionari, queste giunte e questi “consigli” operai devono esercitare una forza reale:
per potersi contrapporre energicamente e minacciosamente a questo partito, il cui tradimento verso gli operai incomincerà con la prima ora della vittoria, gli operai debbono essere armati e organizzati. L’armamento di tutto il proletariato con schioppi, fucili, pistole e munizioni deve essere attuato subito
Teniamo molto ad evidenziare questi passaggi, perché come abbiamo già scritto nel nostro opuscolo sulla “questione patrimoniale”, questo ed altri scritti di Marx ed Engels sono stati artatamente piegati all’esigenza di dimostrare che la rivendicazione di una tassa patrimoniale – al netto dei diversi compiti storici che poteva assolvere in quella diversa fase storica – può assumere, allora come oggi, una funzione coagulante per la classe operaia prima della rottura rivoluzionaria, e che anzi sia propedeutica alla rottura stessa.
Il passaggio dell’Indirizzo che, annebbiati da un immotivato entusiasmo, i fautori della million tax “di classe” esibiscono come trofeo è il seguente:
Abbiamo visto come i democratici giungeranno al potere nel prossimo movimento rivoluzionario, come essi saranno costretti a proporre delle misure più o meno socialiste. Ora si domanderà: che misure proporranno a loro volta gli operai? Naturalmente, al principio del movimento, gli operai non potranno ancora proporre misure direttamente comuniste. Ma essi possono: 1. Costringere i democratici a intervenire da quante più parti sarà possibile nell’ordinamento attuale della società, a disturbarne il corso regolare, a compromettersi, come pure a concentrare nelle mani dello Stato il più gran numero possibile di forze produttive, mezzi di trasporto, fabbriche, ferrovie, ecc. 2. Essi debbono spingere all’estremo le misure proposte dai democratici, che ad ogni modo non si presenteranno come rivoluzionari, ma solo come riformatori, e trasformarle in attacchi diretti alla proprietà privata. Così, ad esempio, quando i piccoli borghesi proporranno di acquistare le ferrovie e le fabbriche, gli operai dovranno reclamare che tali ferrovie e fabbriche siano confiscate dallo Stato puramente e semplicemente, senza risarcimento, come proprietà di reazionari. Se i democratici proporranno l’imposta proporzionale, gli operai proporranno l’imposta progressiva; se i democratici proporranno essi stessi una imposta progressiva moderata, i lavoratori insisteranno per una imposta così rapidamente progressiva, che il grande capitale ne sia rovinato; se i democratici reclameranno che si regolino i debiti dello Stato, i proletari reclameranno che lo Stato faccia bancarotta. Le richieste degli operai dovranno sempre regolarsi sulle concessioni e sulle misure dei democratici.
Se lo si esamina a fondo, anche alla luce del resto del documento, i motivi “patrimonialisti” di entusiasmo devono necessariamente venire meno. Innanzitutto, si deve ricordare che Marx ed Engels ritengono che nella Germania del 1850 gli operai debbano avanzare le proposte sopraelencate nel quadro di un processo rivoluzionario, quindi, come abbiamo visto, in una configurazione di rapporti di forza tra le classi che veda il dominio politico indiretto del proletariato, dominio basato su un dualismo di poteri con il governo democratico borghese e sostanziato dall’armamento generale del proletariato. Ci vuole molta fantasia per ritenere che oggi, non soltanto in una fase storica nella quale la borghesia ha quanto meno codificato la progressività dell’imposta, ma oltretutto ben al di fuori di un qualsiasi processo rivoluzionario in atto o all’orizzonte e con rapporti di forza tra le classi assolutamente sfavorevoli al proletariato, il movimento operaio possa coagularsi e rafforzarsi adottando come parola d’ordine la proposta di un’imposta patrimoniale. Proposta peraltro indirizzata non ad un governo rivoluzionario piccolo-borghese ma alla mastodontica macchina statale del capitale imputridito nella maturazione imperialistica.
In un processo rivoluzionario nella Germania del 1850, la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, di trasporto, della terra e l’imposta progressiva per espropriare i capitalisti erano misure che, se proposte ad un governo democratico piccolo-borghese dal contro-governo operaio armato, avrebbero avuto la funzione di incalzare il primo fino al raggiungimento dei suoi limiti di classe, innescando un cortocircuito che avrebbe permesso l’assunzione diretta e completa del potere politico da parte del proletariato. Il dominio politico diretto del proletariato, stante il livello di sviluppo delle forze produttive dell’epoca, avrebbe dovuto comunque assumersi il compito di assolvere a quelle misure economiche borghesi ancora storicamente progressive (nazionalizzazioni, imposta progressiva) prima di passare a quelle “direttamente comuniste”. D’altro canto, bisogna aggiungere che per Marx ed Engels quello della “rivoluzione in permanenza” non era nemmeno allora uno schema operativo valido a priori, in ogni circostanza di tempo e di luogo, come sostengono ancora oggi alcuni teorici dell’eternità della rivoluzione “in due tempi”. Che già all’epoca si configurasse la possibilità per il proletariato di condurre un processo rivoluzionario direttamente, senza passare per l’assunzione da parte del potere rivoluzionario di compiti borghesi, adottando invece misure “direttamente comuniste” è chiarito nell’Indirizzo in un passaggio che assesta anche una poderosa pedata internazionalista ai sacerdoti del “socialismo in un solo Paese” – oggi redivivi e per i quali le pedate non saranno mai troppe –:
Sebbene gli operai tedeschi non possano giungere al potere e soddisfare i loro interessi di classe senza attraversare un lungo sviluppo rivoluzionario, essi hanno però questa volta per lo meno la coscienza che il primo atto dell’incombente dramma rivoluzionario coinciderà con la vittoria diretta della loro classe in Francia e perciò il processo sarà affrettato.
È una sublime ironia della storia quella che vuole che gli strati intermedi odierni, le mezze classi di oggi, col procedere dello sviluppo capitalistico, con il suo maturare sino alla sua attuale fase di putrefazione imperialista, abbiano addirittura rovesciato i termini delle proprie rivendicazioni.
Mentre nel 1850 gli strati sociali intermedi reclamavano la “diminuzione delle spese dello Stato”, la “limitazione della burocrazia” e il riversamento del “peso delle imposte sui grossi proprietari fondiari e sui grossi borghesi”, oggi, parte di quegli strati, profondamente trasformati e ricollocati dalla maturazione imperialista del capitalismo, reclamano ancora una pesante tassazione della grande borghesia, ma questa volta per aumentare le spese dello Stato e conseguentemente per aumentare la burocrazia, nei ranghi elefantiaci della quale hanno trovato in parte la propria ricollocazione sociale.
Il tutto ovviamente spacciando i propri interessi come interessi di una generica “classe lavoratrice” che troppo spesso rende indistinti i confini tra chi produce la ricchezza sociale e chi assorbe parte di questa ricchezza senza produrne, consumando quote di plusvalore estorto al proletariato elargite in cambio di tutta una serie di servizi forniti alla classe dominante.
La maturazione capitalistica porta al ridimensionamento della piccola borghesia produttiva, artigianale, urbana e rurale, lo sviluppo del capitalismo distrugge continuamente tutte quelle forme di piccola proprietà che si sono formate storicamente in precedenti modi di produzione, ma al tempo stesso aumenta le funzioni improduttive legate al commercio, ai servizi, alla gestione complessiva della società, e, contemporaneamente, generalizza la forma del salario. Tutte le funzioni, persino quella del capitalista, tendono ad essere sussunte dalla forma salariale e in questa generalizzazione tutti, anche il salariato improduttivo la cui esistenza dipende dall’estorsione di plusvalore, diventano lavoratori.
Già nelle sue Teorie sul plusvalore Marx aveva individuato il fenomeno e aveva anche previsto che gli strati intermedi sarebbero addirittura cresciuti in proporzione maggiore della stessa classe operaia:
La sua più grande speranza [di Malthus] – che egli stesso indica come più o meno utopistica –, è che si accresca in grandezza la classe media e che il proletariato costituisca una parte relativamente sempre più piccola della popolazione totale (anche se cresce in linea assoluta). Questo è in realtà il cammino della società borghese.[2]
Oggi come ieri, questi strati intermedi tra il proletariato e il capitale tendono ad egemonizzare il movimento operaio, a cercarvi un’ulteriore base di massa e a veicolare nelle sue lotte parole d’ordine e rivendicazioni che sono espressione dei propri interessi particolari e distinti:
Al dominio e al rapido accrescersi del capitale si deve inoltre ovviare, secondo loro, in parte con una limitazione del diritto di eredità, e in parte trasferendo allo Stato l’esecuzione della maggiore quantità possibile dei lavori. Per quanto riguarda gli operai resta anzitutto stabilito che essi debbono rimanere salariati come sinora; i piccoli borghesi democratici desiderano soltanto che gli operai abbiano un salario migliore e una esistenza sicura, e sperano di conseguire questo risultato con una parziale occupazione di operai da parte dello Stato e con misure di beneficenza; in breve, essi sperano di corrompere gli operai con elemosine più o meno larvate, e di spezzare la loro forza rivoluzionaria rendendo momentaneamente sopportabile la loro situazione.
A chi, pur nell’esiguità delle forze disponibili, si pone risolutamente nell’ottica di una difesa di classe del proletariato e in quella di favorire lo sviluppo e l’organizzazione della coscienza dei suoi interessi immediati e storici, questo passaggio dell’Indirizzo suonerà come un campanello d’allarme nei confronti di chi oggi tenta di
coinvolgere i lavoratori in una organizzazione di partito in cui dominino le frasi generiche socialdemocratiche dietro cui si nascondono gli interessi specifici dei piccoli borghesi […]. Una simile unione andrebbe solo a vantaggio loro, e completamente a svantaggio del proletariato. Il proletariato perderebbe completamente la sua posizione indipendente, che si è faticosamente conquistata, e si ridurrebbe un’altra volta ad essere l’appendice della democrazia borghese ufficiale.
Era vero ieri, lo è ancor più oggi nei confronti dell’influenza sul movimento operaio degli interessi degli strati intermedi improduttivi.
Come chiarito nell’Indirizzo:
La posizione del partito operaio rivoluzionario verso la democrazia piccolo-borghese è la seguente: esso procede d’accordo con quest’ultima contro la frazione di cui persegue la caduta; esso si oppone ai democratici piccolo-borghesi in tutte le cose pel cui mezzo essi vogliono – consolidarsi per conto proprio.
Oggi, i democratici piccolo-borghesi, che ne siano consapevoli o meno, perseguono ancora meno di ieri la caduta del grande capitale, chiedono solo che la mangiatoia cresca o che continui ad essere riempita, a spese di un proletariato che dovrebbe persino sentire come sua una battaglia per mezzo della quale “essi vogliono consolidarsi per conto proprio”.
Oggi come ieri gli operai
debbono fare l’essenziale per la loro vittoria finale chiarendo a se stessi i loro propri interessi di classe, assumendo il più presto possibile una posizione indipendente di partito, e non lasciando che le frasi ipocrite dei piccoli borghesi democratici li sviino nemmeno per un istante dalla organizzazione indipendente del partito del proletariato.
NOTE
[1] K. Marx – F. Engels, Princìpi del comunismo, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1973, vol. VI, p. 370.
[2] K. Marx, Storia delle teorie economiche, Einaudi, Torino, 1971, Vol. III, p. 64.