ZHENG CHAOLIN E LA TEORIA DEL CAPITALISMO DI STATO – VII
Dalla postfazione al testo di Zheng Chaolin Il capitalismo di Stato, Movimento Reale, Roma, gennaio 2023
Zheng Chaolin nel suo saggio rifiuta di chiamare “socialismo” il fenomeno che descrive come capitalismo di Stato, in quanto, rispetto al capitalismo, il socialismo costituisce un livello di società superiore, che, sebbene non ancora maturata nel pieno comunismo è comunque in grado di garantire un grado di benessere materiale e culturale maggiore della società capitalista. Le argomentazioni di Zheng, rivolte contro lo stalinismo che qualificava la società sovietica come “socialista”, si dimostrano ancora più pertinenti quando rilevano che in Russia la produzione di beni ha ancora il carattere di produzione di merci e che, ammesso e non concesso che la circolazione interna non debba essere considerata mercantile – come affermato da stalinisti e antistalinisti inconseguenti –, certamente non può non esserlo quella tra la Russia “sovietica” e il resto del mercato mondiale[1].
Ma anche all’interno della Russia “socialista” di Stalin i prodotti sono merci che vengono scambiate per mezzo del denaro, e la stessa forza lavoro operaia è una merce che viene scambiata con un salario corrisposto in denaro. La tesi dei teorici del “collettivismo burocratico” secondo i quali in URSS i beni – ad esempio materie prime e macchinari – non sarebbero merci perché non verrebbero “scambiati” ma solamente trasferiti da un settore all’altro di una produzione gestita da un unico proprietario – lo Stato – cozza con il fatto che questo passaggio avviene contro denaro o comunque sulla base di una registrazione di valori e di prezzi; e non tiene conto del fatto che, benché il proprietario del capitale sia giuridicamente e formalmente rappresentato da una sola entità, il capitale è in realtà molteplicità di capitali, gestiti da singole aziende dotate di una contabilità indipendente.
Proseguendo nella critica della teoria del “collettivismo burocratico” Zheng respinge la tesi secondo la quale quella sovietica possa essere definita una forma “stabile” di società tra il capitalismo e il socialismo. Effettivamente, per il marxismo, nel passaggio tra il capitalismo e il socialismo non si realizza un nuovo modo di produzione ma solamente una transizione tra un modo di produzione e l’altro, un periodo di trasformazione che consiste nella distruzione degli ostacoli che impediscono alla classe operaia di «liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese»[2].
In sintesi, Zheng individua correttamente l’elemento di alterità del socialismo rispetto al capitalismo nell’assenza di produzione di merci, dunque nella scomparsa della legge del valore. Indubbiamente, in alcuni passaggi del suo scritto ricorre il tema della “costruzione” del socialismo – che, come scrive Bordiga sulla scorta di Marx non si costruisce –, tuttavia, generalmente il rivoluzionario cinese riconosce quello di transizione come un periodo di incessante «eliminazione dei rapporti capitalistici» e soprattutto non commette, a nostro avviso, l’errore di identificare il socialismo o, per usare le parole di Marx, la prima fase della società comunista, con il periodo di trasformazione.
L’identificazione del periodo di transizione con la prima fase del comunismo prende le mosse da due direttrici opposte: la prima – che per comodità attribuiamo a Lenin ma che in realtà è assai frequente nell’elaborazione teorica della II Internazionale – assegna a questa fase, “comunemente” o “abitualmente” definita socialismo, alcune caratteristiche che, semmai, attengono ai primissimi momenti del periodo di transizione, immediatamente dopo la presa del potere rivoluzionaria:
Registrazione e controllo: ecco l’essenziale, ciò che è necessario per l’«avviamento» e il funzionamento regolare della società comunista nella sua prima fase. Tutti i cittadini si trasformano qui in impiegati salariati dello Stato, costituito dagli operai armati[3]
la seconda direttrice è quella che viceversa attribuisce al periodo di transizione caratteristiche attinenti alla prima fase del comunismo. A nostro parere, e sulla base della lettura di Marx, entrambe le direttrici sono erronee, e se la prima può essere – e lo è stata – mistificata e strumentalizzata dalla controrivoluzione stalinista nella misura in cui sembrava identificare il socialismo con misure prettamente capital-statali, la seconda pecca forse di un’eccessiva astrattezza che non trova riscontro nelle esperienze che si sono storicamente concretizzate nonché di un ottimismo molto lontano da una ragionevole previsione delle dinamiche rivoluzionarie future.
Nella sua Critica al programma di Gotha Marx non fa distinzioni tra socialismo e comunismo ma si riferisce a due fasi di una stessa società comunista: una prima fase[4] e una sua fase più avanzata[5]. È evidente che quando Marx si intrattiene sulla «prima fase della società comunista, quale essa è uscita dopo lunghe doglie dalla società capitalistica», intende chiaramente che questa prima fase è già «uscita» dalla società capitalista, per quanto essa porti ancora «sotto ogni aspetto, economico, morale, spirituale, […] le impronte materne della vecchia società dal cui grembo essa è uscita[6]» [notiamo ancora una volta l’uso della parola «uscita»].
In questa prima fase, infatti, nonostante quelli che Marx chiama inconvenienti e impronte materne, ovvero il fatto che nella
… distribuzione [dei beni di consumo] tra i singoli produttori, domina lo stesso principio che domina nello scambio di equivalenti di merci: si scambia una certa quantità di lavoro in una forma contro una uguale quantità in un’altra[7]
e nonostante questo significhi che permane ancora un «diritto uguale» che però «è diritto disuguale per lavoro disuguale […] un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto»[8], purtuttavia «contenuto e forma sono mutati, perché nelle mutate circostanze nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perché d’altra parte niente può diventare proprietà del singolo all’infuori dei mezzi di consumo individuali»[9] e soprattutto, «all’interno della società collettivistica, basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro trasformato in prodotti appare qui come valore di questi prodotti, come una proprietà reale da essi posseduta, poiché adesso, in contrapposizione alla società capitalistica, i lavori individuali esistono come parti costitutive del lavoro complessivo in modo immediato e non più in modo indiretto»[10] [corsivi redazionali], si è perciò usciti dalla produzione di valore, dalla società fondata sulla legge del valore[11].
Dunque se per Marx, nonostante le impronte materne della prima fase, la società comunista (che comprende sia la prima fase che quella più avanzata) è già uscita dalla società capitalista, non può essere corretto identificare la prima fase della società comunista con «il periodo della trasformazione rivoluzionaria» della società capitalista nella società comunista, periodo che, come precisa Marx, si colloca tra queste due società, dal momento che una società in trasformazione non può essere già uscita dal capitalismo.
Per Marx la società comunista esce dalla società capitalistica dopo lunghe doglie che a nostro avviso indicano precisamente il periodo della trasformazione.
Quando poi Marx si riferisce alla «dittatura rivoluzionaria del proletariato», in quanto «periodo politico di transizione» corrispondente al «periodo della trasformazione», scrive:
…il programma non si occupa né di quest’ultima né del futuro Stato della società comunista.[12]
Se la dittatura rivoluzionaria del proletariato corrispondesse politicamente alla prima fase del comunismo, che per Marx si colloca comunque all’interno della società comunista, non avrebbe senso l’implicita distinzione operata tra la dittatura rivoluzionaria e il «futuro Stato della società comunista» (senza distinguere tra prima fase e fase più avanzata di quest’ultima). Verrebbe meno inoltre un caposaldo della teoria marxista che vede nella società comunista una società senza classi e dunque senza Stato, sia nella sua prima fase come in quella avanzata, perché Marx in queste righe non intende avallare l’idea che nella società comunista permanga lo Stato, che nella sua concezione è un non-Stato che si estingue con il concludersi del periodo di trasformazione. Il passaggio è chiarito poco sopra quando Marx domanda: «quali funzioni sociali persisteranno [nella società comunista], che siano analoghe alle odierne funzioni dello Stato?» riferendosi evidentemente all’amministrazione delle cose, priva di qualsiasi carattere politico, ovvero estranea ad ogni dominio sulle persone.
Nel periodo di trasformazione, la dittatura del proletariato esiste allo scopo di reprimere le resistenze della classe borghese, interna e internazionale, a meno che non si dia per scontata una improbabile rivoluzione che risulti vittoriosa simultaneamente a livello mondiale. Queste resistenze, politiche ed economiche, ideologicamente e militarmente organizzate, sono tutt’altra cosa rispetto agli inconvenienti e alle impronte materne di cui parla Marx nella prima fase della società comunista e che svaniscono gradualmente con il procedere dello sviluppo del comunismo «sulla sua propria base»[13].
Dal punto di vista economico l’abolizione della merce, del denaro, l’introduzione del famoso “scontrino”[14] di Marx, è possibile solo una volta che il potere rivoluzionario sia riuscito ad ottenere stabilmente il controllo della totalità o quasi dei settori produttivi fondamentali di un area sufficientemente estesa, cosa che difficilmente può avvenire “per decreto” il giorno dopo la rivoluzione, nel bel mezzo di una lotta feroce e senza esclusione di colpi per l’espropriazione degli espropriatori, di una guerra civile tra il proletariato e la borghesia interna ed internazionale che, tra l’altro, può ridurre il livello quantitativo e qualitativo delle forze produttive disponibili.
L’adozione dello “scontrino” presuppone un grado di stabilità sociale che a nostro avviso stride con le esigenze per le quali si rende necessaria la dittatura del proletariato, per questo ci sembra difficilmente plausibile una sua introduzione immediata. Occorre poi tenere conto del fatto che la classe operaia – nella sua totalità e non solo nella sua parte maggiormente consapevole – dovrebbe accettarne immediatamente le implicazioni, rinunciando dall’oggi al domani a pretendere il pagamento in denaro del lavoro svolto. Il proletariato dovrebbe quindi ritenere fin da subito le fondamenta economiche del potere rivoluzionario tanto stabili da garantire la presenza costante di beni di consumo sufficienti nei magazzini, di prodotti da ritirare con lo scontrino prima che esso giunga alla sua prevista scadenza. Cosa che invero solo con molto astratto ottimismo è possibile garantire fin da subito.
Lo “scontrino” è il contrassegno del consolidarsi di determinati rapporti sociali, è più un primo traguardo che un punto di partenza. Solo in seguito a questo consolidamento – del quale non si può prevedere la data dell’avvento ma che occorre perseguire fin da subito con una serie di misure anticapitalistiche immediate – la classe operaia potrà riconoscere nello “scontrino” qualcosa di diverso dal “pezzo di carta” elargito da un potere traballante, che, il giorno dopo la rivoluzione, non è nemmeno in grado di corrispondere con denaro sonante il suo salario. È evidente che, al di là della sua natura economica, il pagamento dei salari da parte di un potere rivoluzionario nei suoi primi momenti è anche un atto politico di primaria importanza per rafforzare la fiducia della classe operaia verso il proprio governo.
Da un punto di vista marxista, il problema non è se immediatamente dopo l’instaurazione della dittatura del proletariato esistono ancora forme mercantili e salariali, ma altresì se questa dittatura è in grado di adottare le misure necessarie a eliminare progressivamente queste forme.
Bordiga ci fornisce un lucido esempio dei provvedimenti che si muoverebbero in questa direzione:
a) “Disinvestimento dei capitali”, ossia destinazione di una parte assai minore del prodotto a beni strumentali e non di consumo.
b) “Elevamento dei costi di produzione” per poter dare, fino a che vi è salario, mercato e moneta, più alte paghe per meno tempo di lavoro.
c) “Drastica riduzione della giornata di lavoro” almeno alla metà delle ore attuali, assorbendo disoccupazione e attività antisociali.
d) Ridotto il volume della produzione con un piano “di sottoproduzione” che la concentri sui campi più necessari, “controllo autoritario dei consumi” combattendo la moda pubblicitaria di quelli inutili, dannosi e voluttuari, e abolendo di forza le attività volte alla propaganda di una psicologia reazionaria.
e) Rapida “rottura dei limiti di azienda” con trasferimento di autorità non del personale ma delle materie di lavoro, andando verso il nuovo piano di consumo.
f) “Rapida abolizione della previdenza” a tipo mercantile per sostituirla con l’alimentazione sociale dei non lavoratori fino ad un minimo iniziale.
g) “Arresto delle costruzioni” di case e luoghi di lavoro intorno alle grandi città e anche alle piccole, come avvio alla distribuzione uniforme della popolazione sulla campagna. Riduzione dell’ingorgo velocità e volume del traffico vietando quello inutile.
h) “Decisa lotta” con l’abolizione delle carriere e titoli “contro la specializzazione” professionale e la divisione sociale del lavoro.
i) Ovvie misure immediate, più vicine a quelle politiche, per sottoporre allo Stato comunista la scuola, la stampa, tutti i mezzi di diffusione, di informazione, e la rete dello spettacolo e del divertimento.[15]
Si tratta, evidentemente, di misure “economiche” che pur collocandosi inevitabilmente ancora all’interno delle categorie capitalistiche – e marciando in parallelo con le misure strettamente politiche della dittatura proletaria – possono essere adottate immediatamente dal potere rivoluzionario, e che sabotano lo stesso meccanismo dell’accumulazione, le stesse leggi di funzionamento del capitalismo, sottraendogli progressivamente alimento.
Ad ogni modo, la questione fondamentale del periodo di trasformazione non risiede nell’apparente somiglianza dei suoi provvedimenti immediati, come la statizzazione e un certo grado di pianificazione, con il capitalismo di Stato, ma nella direzione verso la quale tali provvedimenti si muoveranno; direzione che è determinata sostanzialmente da due fattori: il grado di sviluppo delle forze produttive dell’area sottoposta al potere rivoluzionario e la dinamica della rivoluzione internazionale.
I limiti dell’esperienza rivoluzionaria russa furono definiti esattamente da questi due fattori.
Nella Russia rivoluzionaria del 1917-1920, un Paese capitalisticamente arretrato, la statizzazione o nazionalizzazione da parte della dittatura del proletariato non poteva costituire il primo atto di un’espropriazione e di una centralizzazione dei mezzi di produzione in direzione della socializzazione, a meno che il processo non si integrasse con la rivoluzione in altri Paesi economicamente sviluppati. Nel ritardo di questa integrazione con la rivoluzione mondiale, la nazionalizzazione non poteva far altro che centralizzare e concentrare le risorse economiche necessarie a sviluppare le forze produttive nell’ambito dei rapporti di produzione capitalistici. Come la storia della controrivoluzione stalinista russa ha ampiamente dimostrato, un ritardo prolungato anche solo per pochissimi anni della rivoluzione internazionale ha permesso ai rapporti capitalistici di filtrare all’interno del potere rivoluzionario e di trasformarlo e pervertirlo nella propria feroce espressione politica.
Se la statizzazione operata dal potere rivoluzionario in un Paese capitalisticamente maturo corrisponde alle prime misure di espropriazione e di centralizzazione dei mezzi di produzione (sviluppati) in direzione della socializzazione, la statizzazione messa in opera dalla dittatura del proletariato in un Paese arretrato e isolato dalla rivoluzione internazionale e in un contesto di strettissima interdipendenza del mercato mondiale è obbligata a sviluppare forze che non può controllare, non solo a lungo ma con ogni probabilità neanche a medio termine.
Si potrebbe pensare che, dato il livello di sviluppo raggiunto dal capitalismo mondiale, simili difficoltà e problematiche siano da ritenersi del tutto superate; tuttavia, la lezione della rivoluzione proletaria russa mantiene tutta la sua pregnanza se si tengono in conto le potenzialità distruttive che oggi ancor più di ieri il capitalismo è in grado di dispiegare nel corso delle conflagrazioni imperialistiche a cui è regolarmente soggetto. La concreta possibilità di un consistente abbassamento del livello delle forze produttive, prima o nel corso di una crisi rivoluzionaria, è una ragione in più per perseguire con ogni mezzo e con tutte le energie l’allargamento internazionale della rivoluzione e per respingere come reazionaria la tesi del “socialismo in un solo Paese”. Si tratterebbe in questo caso di evitare che la ricostruzione delle distrutte forze produttive da parte di una rivoluzione proletaria – la quale, se isolata dall’assenza o dal ritardo di altre rivoluzioni in Paesi più sviluppati o comunque meno danneggiati nel loro apparato produttivo, non potrebbe fare a meno di passare attraverso le forche caudine della gestione di rapporti capitalistici – faccia in tempo a distruggere dall’interno, come in passato, l’isolato avamposto del potere rivoluzionario.
Continua…
NOTE
[1] Le probabili ascendenze “buchariniane” di questa formulazione di Zheng Chaolin vengono affrontate nel capitolo successivo di questo scritto.
[2] K. Marx, La guerra civile in Francia, Lotta comunista, Milano, 2007, pp. 75-76.
[3] Lenin, Stato e rivoluzione, Lotta comunista, Milano, 2003, p. 113. D’altro canto, nello stesso testo Lenin scrive anche che «uno degli errori più diffusi è l’affermazione riformista borghese, secondo la quale il capitalismo monopolistico o monopolistico di Stato non è già più capitalismo e può essere chiamato “socialismo di Stato”», Ibidem, p. 83. Crediamo probabile che il difetto dell’elaborazione di Lenin sia più terminologico che sostanziale e che anche il rivoluzionario e teorico marxista russo ritenga che le caratteristiche della prima fase della società comunista di Marx e quelle della fase avanzata si pongano entrambe all’interno di una stessa forma sociale totalmente al di fuori del rapporto di produzione capitalistico, sebbene definisca imprecisamente, in un testo concepito e steso nel pieno di una stringente battaglia politica, le misure economiche del periodo di trasformazione – peraltro nel contesto di un paese capitalisticamente arretrato – come socialismo.
[4] K. Marx, Critica al programma di Gotha, Massari, Bolsena (VT), 2008, pp. 51-53.
[5] Ibidem, p. 53.
[6] Ibidem, p. 47.
[7] Ibidem, p. 49.
[8] Ibidem, p. 51.
[9] Ibidem, p. 49.
[10] Ibidem, p. 47.
[11] «Ma neppure in una tale società può esservi spazio per una legge del valore, sia perché qui vige una forma di produzione completamente differente dalla produzione di merci, sia perché qui la regolamentazione della produzione e della distribuzione non è abbandonata al cieco gioco del mercato, ma soggiace al controllo cosciente della società stessa». R. Rosdolsky, Genesi e struttura del capitale di Marx, Laterza, Bari, 1975, p. 501.
[12] Ibidem, p. 75.
[13] Ibidem, p. 47.
[14] «Ogni membro della società, eseguendo una certa parte del lavoro socialmente necessario, riceve dalla società uno scontrino da cui risulta ch’egli ha prestato tanto lavoro. Con questo scontrino egli ritira dai magazzini pubblici di oggetti di consumo una corrispondente quantità di prodotti. Detratta la quantità di lavoro versata ai fondi sociali, ogni operaio riceve quindi dalla società tanto quanto le ha dato». Lenin, Op. cit., p. 105. Come puntualizza Bordiga, le caratteristiche di questo scontrino o “buono” lo differenziano «nettamente dal salario in denaro che il lavoratore riceve nella società capitalistica. Esso non è un “equivalente generale come la moneta”: quindi in primo luogo “è solo consumabile, non è accumulabile e nemmeno tesaurizzabile”, “sicché ad ogni conato di accumulazione risponde la perdita di una quota di lavoro senza equivalente”; in secondo luogo non è convertibile con qualsiasi tipo di prodotto di consumo». Cfr. L. Grilli, Amadeo Bordiga, capitalismo sovietico e comunismo, La Pietra, Milano, 1982, p. 242.
[15] Testo della riunione del Partito Comunista Internazionalista tenutasi a Forlì il 28 dicembre 1952 sul tema Teoria ed azione – Il programma rivoluzionario immediato, pubblicato nell’opuscolo Sul Filo del Tempo, maggio 1953.
