
Dalla postfazione all’antologia Bagliori nella notte. La Seconda guerra mondiale e gli internazionalisti del «Terzo Fronte», Movimento Reale, luglio 2023.
VII
Lasciando Val-de-Villé prendiamo una strada secondaria che aggira Sélestat a nord. Sta piovendo di nuovo. Un soldato tedesco, che per caso stava camminando accanto a me, mi ha passato un pezzo di cerata. Mentre lo ringrazio nella sua stessa lingua, lui, a bassa voce: ‘Siamo tutti fratelli; e voi francesi siete fortunati: per voi la guerra è finita…’. È un uomo sulla trentina, il viso pieno di rughe, gli occhi scuri e febbricitanti, le spalle cadenti. Ah, avrei voluto stringergli la mano, per dire: parla, racconta come hai vissuto, come ti sei fatto questo cuore d’uomo! Jean Malaquais, Diario di guerra, 1939-1940
L’occupazione di gran parte dell’Europa da parte delle truppe della potenza imperialistica tedesca, la piena assunzione delle leve statali dei paesi sconfitti da parte dell’amministrazione tedesca o l’istituzione di governi nazionali collaborazionisti, ebbero un forte impatto sia sulle borghesie nazionali che sulla classe operaia europea, della quale uniformò in una certa misura le condizioni, generando al contempo una relativa uniformità anche nelle sue reazioni a queste stesse condizioni.
Data per scontata la comune natura capitalistica dei belligeranti, lo Stato messo in piedi dall’occupante diventava il quadro istituzionale entro il quale anche la borghesia nazionale sconfitta trovava comunque una propria rappresentanza e una sintesi dei propri interessi di classe. Le frazioni della borghesia i cui interessi erano maggiormente legati, se non interdipendenti, a quelli dell’economia dell’occupante e la cui produzione poteva continuare a realizzare profitti, conservavano il proprio ruolo, seppure come partner di minoranza (e pagando un tributo economico e politico alla potenza dominante) nell’impresa condivisa di sfruttamento della classe operaia locale.
In queste circostanze, una forma politica particolarmente autoritaria della potenza occupante si rivela però fonte di contrasti di difficile gestione. Le frazioni borghesi sottorappresentate o mal rappresentate dal nuovo Stato imposto dall’esterno, quelle i cui interessi sono compromessi dalle esigenze economiche della potenza occupante, non trovano all’interno del quadro del regime altra forma di confronto politico e di possibilità di avvicendamento nella gestione del potere che la lotta armata. A tale lotta, la borghesia “non-collaborazionista” può predisporsi grazie all’appoggio di altre potenze straniere, delle quali si fa strumento nel corso della guerra, costruendo nel frattempo quel consenso ideologico indispensabile per la partecipazione materiale alla lotta di una base di massa.
Per quanto riguardava il proletariato, le necessità dell’economia bellica dell’occupante e il piano di integrazione economica continentale a guida tedesca si trasformavano nella mobilitazione coatta della forza lavoro in organizzazioni specifiche (TODT), nell’imposizione di ritmi di lavoro insostenibili e nella compressione salariale da parte di un regime che reprimeva con rapidità ed efficacia qualsiasi forma di aggregazione operaia – anche soltanto nel campo economico – che non fosse irreggimentata. In una seconda fase dell’occupazione, ai ritmi estenuanti, agli obiettivi di produzione proibitivi e al razionamento dei generi alimentari e di consumo si aggiunse la deportazione di quote di lavoratori in Germania – in condizioni persino peggiori – e l’arruolamento negli eserciti dei “governi fantoccio” di alcuni dei paesi occupati per supportare lo sforzo militare della potenza imperialistica tedesca.
In queste condizioni, la classe operaia cercò di reagire allo sfruttamento intensivo e al massacro impiegando gli strumenti specifici della lotta di classe: la coalizione e lo sciopero.
Significativo a questo riguardo, per natura ed estensione, è lo sciopero generale scoppiato in Olanda nel febbraio 1941, quando la macchina da guerra del Terzo Reich si trova al suo apogeo e massima è la sua forza. Lo sciopero coinvolge circa 300.000 lavoratori e vede la coraggiosa presa di posizione della classe operaia olandese in difesa della sua componente ebraica perseguitata.
Nel maggio 1941 è la volta del Belgio, dove uno sciopero di circa 70.000 minatori riesce a ottenere dai nazisti un aumento dell’8% dei salari. Nel settembre dell’anno successivo le autorità tedesche arresteranno 400 lavoratori sospettati di organizzare un nuovo sciopero. Altri importanti scioperi si verificheranno comunque nel novembre 1942 e nel febbraio 1943.
Tra l’aprile e il dicembre del 1942 nella Grecia occupata scoppiano diversi scioperi e manifestazioni che coinvolgono migliaia di operai e impiegati pubblici per aumentare le soglie del razionamento.
Nel marzo 1943 gli scioperi del nord Italia, contro il caroviveri, per la cessazione della guerra e la fine della repressione antioperaia, scuotono profondamente il regime di Mussolini e ne accelerano la caduta.
Nel maggio-giugno dello stesso anno, in Francia, nel dipartimento del Pas-de-Calais, si verifica uno sciopero di 17.000 minatori (circa l’80% dei minatori della regione) contro la mancanza di cibo e per salari decenti.
Molti altri furono gli episodi di questo tipo nel corso della guerra[1].
In ognuna di queste manifestazioni di lotta operaia contro le vessazioni messe in atto dalla borghesia occupante e da quella collaborazionista – manifestazioni di lotta che continuarono a verificarsi nonostante la feroce repressione nazista – vediamo una tendenza, molto spesso spontanea ma nettamente delineata, a rimanere sul terreno di classe, a muoversi sulla spinta di pressanti esigenze economiche e politiche strettamente attinenti alla condizione operaia: dagli scioperi, alle proteste contro i razionamenti e la penuria di generi alimentari e di prima necessità, alle manifestazioni di solidarietà con le minoranze perseguitate e di opposizione alla guerra; passando per le irruzioni nei magazzini alimentari per ridistribuire i viveri, per il rallentamento del lavoro e dei trasporti e il sabotaggio nelle industrie, militari e non.
A questo punto, l’occupazione e la brutale repressione delle lotte producono alcune importanti conseguenze per il proletariato europeo, dalle quali scaturiscono forme inedite di agglomerazione di classe: da un lato la formazione di un proletariato multinazionale tra gli operai deportati in Germania, un processo le cui dinamiche e implicazioni affronteremo in seguito, e, dall’altro, il sottrarsi al lavoro coatto, alla deportazione e alla coscrizione obbligatoria di una parte degli operai, spesso giovani, privi di legami familiari e dunque relativamente al riparo da ritorsioni trasversali, che si ritirano verso aree meno strettamente controllabili, come le campagne e le zone montuose – presso le quali hanno spesso già trovato rifugio gruppi di soldati degli eserciti sconfitti sottrattisi all’arresto e alla prigionia –, nonché il loro armamento per difendersi dai rastrellamenti. Vediamo dunque come l’esigenza elementare della propria difesa fisica da parte del proletariato, di fronte alle violenze della caratteristica forma nazifascista del dominio borghese, si esprima in forme peculiari, determinate dalle circostanze, che si affiancano a quelle consuete.
È in questo contesto, sfruttando questo malcontento e queste reazioni elementari del proletariato, che le esigenze delle frazioni borghesi sconfitte, sotto o male rappresentate dall’amministrazione occupante, e le esigenze delle centrali imperialiste avversarie dell’occupante riescono ad innestarsi su un’iniziale ripresa di classe, deviandola dal suo terreno verso obiettivi nazionali e imperialistici, complice lo smantellamento ideologico di qualsiasi punto di vista internazionalista – e quindi coerentemente classista – in seno al movimento operaio. Smantellamento realizzato in anni di politica opportunista condotta principalmente dai partiti della controrivoluzione stalinista.
Tale innesto, impedendo alla classe operaia di riconoscere le cause delle proprie sofferenze e privazioni nella guerra imperialista e nel capitalismo di tutti i paesi che ne era all’origine; permettendo alla borghesia di inquadrare gli scioperi e gli organismi di autodifesa di classe – organismi spontanei e appena abbozzati – all’interno di movimenti di “resistenza” interclassista indirizzati proprio alla continuazione della guerra imperialista, si rivelò fondamentale per preservare il capitalismo nel suo complesso dalla minaccia di un’ondata rivoluzionaria paragonabile a quella che aveva portato alla cessazione del primo conflitto mondiale.
Alla riuscita di quest’operazione contribuirono in misura determinante anche il ribaltamento delle fortune militari nella guerra, espressione sul medio periodo dei reali rapporti di forza economici tra le potenze in conflitto, e le conseguenti fibrillazioni e oscillazioni delle singole borghesie nazionali, alla ricerca di nuove sintesi politiche dei propri interessi complessivi e di nuove alleanze per garantirle.
L’inizio di una spontanea ripresa di classe e il ribaltamento della situazione militare accelerano dunque dei cambi di regime tra gli alleati della Germania – cambi più o meno violenti in base alla rigidità dell’involucro politico –, come ad esempio la caduta del fascismo in Italia nel luglio del 1943, avvenuta in seguito alle agitazioni operaie contro la guerra al Nord e allo sbarco degli Alleati al Sud, e il rafforzamento dei movimenti nazionali borghesi contro l’occupazione tedesca. In entrambi i casi, grazie alla preziosa collaborazione dello stalinismo, le borghesie nazionali poterono presentarsi come democratiche, progressiste, antifasciste, come rappresentanti di un popolo unito al di sopra di ogni divisione dal comune interesse alla “liberazione nazionale”. La feroce occupazione imperialistica nazista, le borghesie sconfitte, lo schieramento imperialista Alleato, e, dal punto di vista ideologico, l’opportunismo riformista e lo stalinismo hanno oggettivamente operato di concerto, seppur con tempi e modalità differenti, nel deviare la lotta di classe degli operai da qualsiasi sbocco rivoluzionario; orientandola da un lato verso il fanatismo nazionalista e dall’altro verso un generico antifascismo sciovinista, in entrambi i casi annullando nella coscienza proletaria ogni distinzione tra classi a livello nazionale e ogni solidarietà di classe a livello internazionale.
NOTE
[1] Episodi di lotta operaia durante la guerra si verificarono persino nelle roccaforti della “democrazia”, come gli scioperi nelle filature di Manchester e quelli degli operai dell’aeronautica bellica a Coventry, in Inghilterra.
