DISFATTISMO RIVOLUZIONARIO E DISERZIONE

I marinai ammutinati di Kiel, novembre 1918

Articolo pubblicato nel n. 121 di Prospettiva Marxista, gennaio 2025.


Comprendetemi – dichiarò il compagno Smith; – comprendetemi: io non sono un pacifista; io non sono contrario alla guerra; semplicemente ritengo di aver diritto di scegliere la guerra in cui portare il mio contributo. Se vogliono porre un fucile nelle mie mani, non io mi rifiuterò di prenderlo, no, perché io, come i miei compagni in schiavitù del salario, da tanto tempo desideriamo d’aver dei fucili, ma userò del mio criterio nello scegliere il mio bersaglio; se puntare ai nemici di fronte a me o a quelli dietro di me; se ai miei fratelli, gli operai tedeschi, o ai miei oppressori, gli sfruttatori di Wall Street, i lacchè giornalisti o le marionette militari! Upton Sinclair, Jimmie Higgins, 1919

Secondo le direttive tattiche che oggi reggono l’azione del Partito comunista e sono dettate dal comunismo internazionale, la valutazione rivoluzionaria dei doveri di un comunista chiamato alle armi può anche essere quella di rimanervi e non disertare. Ma questa questione di carattere teorico, ci rifiutiamo di discuterla in questo momento, perché potrebbe sembrare a qualcuno di voi che la si chiarisca per sfuggire alla piena solidarietà con un compagno dinanzi ad una sopraffazione, tanto più che siamo certi che non meno furore patriottico colpirebbe il compagno Misiano se fosse rimasto nelle file dell’esercito per perseguirvi con altra tattica gli stessi fini che mossero la sua diserzione a sabotare la guerra e il militarismo borghese. Dichiarazione del Gruppo Parlamentare comunista, Il Soviet, anno IV, n. 39, Napoli, 10 dicembre 1921.


Dopo oltre un secolo dal solido e lucido pronunciamento da parte di una pattuglia di militanti del Pcd’I nel parlamento borghese italiano in difesa di Francesco Misiano, il Disertore della Prima guerra mondiale cacciato per “indegnità” dai banchi di Montecitorio dal canagliume liberale, nazionalista e fascista, in presenza oggi di numerosi fenomeni di diserzione, di renitenza alla leva, di disobbedienza agli ordini sui fronti della guerra imperialistica che si combatte in Ucraina[1] e dinanzi alle “risposte” politiche che tali fenomeni stanno producendo presso gran parte di una sinistra che si percepisce comunista e rivoluzionaria, è forse giunto a maturazione il tempo di discutere di questa importante «questione di carattere teorico», nel tentativo di contribuire a chiarirla senza incorrere nel pericolo di mancare al dovere della solidarietà comunista con il Disertore Misiano, nonché a quello di una piena e consapevole rivendicazione del suo gesto.

Il tema della diserzione – di recente trattato ampiamente e senza livore nelle cronache belliche di una stampa borghese che fino a due anni fa compilava liste di proscrizione ideologica per chi non marciava al ritmo dell’inno nazionale ucraino, e che ora inizia a stilare bilanci di dare ed avere – sta tornando sensibilmente alla ribalta nelle riflessioni dei più o meno consapevoli “luogotenenti operai della classe capitalista” e anche in quelle di soggettività politiche che ancora si riconoscono stancamente nel marxismo ma la cui corda teorica sotto tensione mostra con sempre maggiore evidenza un intreccio dalla consistenza semi-anarchica[2]. Sempre più, per molte di queste soggettività, a fronte di una condizione di inedita e protratta stagnazione della lotta di classe, il rigore teorico perde qualsiasi valore per fare posto al chino raccattare quel che passa il “mercato delle idee”, al prono adeguarsi al sentore diffuso in certi ambiti[3], all’ansia di lanciarsi in una corsa frenetica alle declamazioni dal tono “eversivo” più appariscente – ancorché inconsistente – in un gioco delle parti che non richiede impegno costante o serietà di studio. È in tal modo che “disertare la guerra” (o “disertare l’urna”) diventano di per sé atti rivoluzionari, e chi li compie “uno dei nostri”.

Per quanto riguarda gli opportunisti è invece spesso riscontrabile nella loro posizione nei confronti del fenomeno della diserzione un’apparente congruenza con gli insegnamenti dell’esperienza bolscevica nel corso del primo conflitto interimperialistico mondiale.

Nelle pagine online di quello che si candida a diventare uno dei poli dell’opportunismo in questo Paese – un opportunismo dai connotati terzomondisti, mascherati dietro un internazionalismo tanto sbandierato verbalmente quanto rinnegato nella sostanza e che prendiamo ad esempio rappresentativo di tutto un orientamento politico – leggiamo:

Sulla diserzione comunisti ed anarchici hanno posizioni storicamente diverse. Entrambi vedono con favore la guerra civile rivoluzionaria, ma i libertari – con eccezioni anche importanti che non tocchiamo qui – essendo in linea di principio nemici di tutte le guerre, promuovono e appoggiano incondizionatamente la diserzione. I comunisti fanno un ragionamento più complesso: innzitutto appoggiano le guerre antimperialiste dei popoli oppressi; in secondo luogo, a certe condizioni, vedono con favore la possibilità che i proletari acquisiscano sotto le armi capacità combattenti, affinché possano rivolgerle contro i mandanti della guerra se ciò è possibile, e comunque prepararsi in vista della propria rivoluzione. Lenin, com’è noto, sosteneva, nel corso della prima guerra mondiale, che i proletari non dovessero disertare. Ciò avveniva però in un contesto completamente diverso dall’attuale per quanto riguarda i rapporti di forza tra le classi: vi erano allora, internazionalmente, potenti organizzazioni operaie e concrete possibilità rivoluzionarie. Oggi queste condizioni non ci sono, e possiamo perciò dire – per farla breve – che non esistono alternative immediate alla diserzione per chi rifiuta la guerra o semplicemente non ne può più di combatterla. È incoraggiante, perciò, che su entrambi i fronti della guerra russo-ucraina (come documenta l’articolo che riproduciamo) le diserzioni vadano crescendo e stiano prendendo aspetti nuovi, con l’abbandono collettivo del fronte oppure con forme collettive di resistenza all’arruolamento o, addirittura, con l’invito a rivolgere le armi contro i comandi o le forze di polizia preposte alla repressione di renitenti e disertori.[4]

Non è possibile fare a meno di sottolineare quanto l’opportunismo rappresenti la tossina più nociva che possa essere inoculata nel movimento operaio. Se l’opportunismo si manifestasse esprimendo tesi apertamente reazionarie e completamente estranee al marxismo non assolverebbe al suo ruolo, non sarebbe opportunismo. La sua nocività consiste precisamente nella scaltrezza dei suoi rappresentanti nel veicolare presso settori della classe operaia contenuti ideologici borghesi all’interno di un quadro concettuale a prima vista formalmente corretto dal punto di vista marxista. 

In cosa consisterebbe, per i presunti internazionalisti di cui sopra, la maggiore “complessità” del ragionamento comunista rispetto a quello anarchico riguardo la diserzione? “Innanzitutto”, nell’appoggio dei comunisti alle «guerre antimperialiste dei popoli oppressi».

Qual è il contenuto opportunista di questa affermazione formalmente corretta?

Innanzitutto, nella niente affatto casuale omissione della permanente condizionalità di tale appoggio (che dunque non può mai essere incondizionato) alle esigenze della lotta di classe del proletariato internazionale; in secondo luogo, nella necessità di costruire un alibi “teorico” che giustifichi da un lato il riconoscimento della “legittimità” del fenomeno della diserzione in atto sul fronte russo-ucraino e, dall’altro, la preventiva negazione di tale legittimità nel caso in cui qualche soggettività politica vi faccia riferimento o lo trasformi in parola d’ordine nel conflitto in Medio Oriente. Ciò a fronte dell’innegabile atteggiamento complessivo della popolazione civile palestinese di Gaza, che, a dispetto di una minoritaria milizia borghese – prodotto e strumento della dinamica imperialistica nella regione – si ostina a non adeguarsi alla retorica del “popolo in armi” contro l’invasore tanto gradita ai “sinistri” nostrani. Una popolazione che, di fatto, cerca disperatamente di disertare uno scontro impari scatenato da una borghesia stracciona, priva di scrupoli nel sacrificare 45.000 civili sull’altare della sopravvivenza politica, contro una borghesia altrettanto ributtante ma meglio attrezzata per vedere il gioco e trarne il massimo profitto, al prezzo della regressione secolare di un’intera regione.

Gaza oggi

L’intera costruzione degli opportunisti si regge sul postulato che, se la guerra in Ucraina è imperialista, quella a Gaza (e ora persino in Libano, uno Stato indipendente almeno quanto l’Ucraina e altrettanto governato da una borghesia) sarebbe invece una “guerra antimperialista dei popoli oppressi”. Si pone, cioè, come presupposto del proprio posizionamento politico esattamente ciò che andrebbe dimostrato, ovvero che in Medio Oriente sia in corso una lotta di liberazione nazionale e non un conflitto interno alla dinamica imperialistica di cui sta pagando le peggiori conseguenze un proletariato in condizioni di oppressione nazionale. L’opportunismo fa di questi giochetti. Non ci facciamo ingannare dalle sue professioni di fede internazionaliste, anzi diamole per scontate mentre lo combattiamo senza pietà per estirparlo dal movimento operaio.

Ad ogni modo, quello che in rapporto alla guerra russo-ucraina appariva ancora come un internazionalismo stentato, grazie alla crisi mediorientale e all’allargamento del conflitto al Libano è stato definitivamente smascherato come falso internazionalismo. Ciò che in merito alla guerra in Ucraina appariva un posizionamento politico quantomeno accettabile, legato alla caratterizzazione imperialistica del conflitto, al rifiuto del criterio borghese dell’aggredito e dell’aggressore, al riconoscimento – seppure parziale e deformato – del ruolo preponderante delle potenze dell’imperialismo, ha rivelato la sua vera natura opportunistica al banco di prova della guerra in Medio Oriente: qui, l’imperialismo non arriva, se non da una direzione sola, tornano di moda gli aggrediti e gli aggressori, il ruolo delle potenze imperialistiche grandi, medie e piccole diventa del tutto secondario in riferimento ad una “resistenza” dai tratti sempre più mitizzati e sempre meno collegati a qualsiasi principio di realtà.

Qual è allora il contenuto reale dell’apparente posizionamento “internazionalista” di certi opportunisti nei confronti della guerra in Ucraina?

È il sopravvissuto retaggio ideologico della proiezione internazionale degli interessi dell’imperialismo “sovietico” e delle frazioni borghesi di tutto il mondo ad esso collegate, è il vecchio campismo stalinista, una mala pianta infestante dalle radici tanto profonde da non poter essere estirpate in quei terreni diserbati con un “antistalinismo” posticcio.

Quando, dal punto di vista di questo atavismo semicosciente, i “popoli” oppressi o aggrediti non risultano sufficientemente “simpatici”, quando i loro potenti alleati risultano decisamente “odiosi”, oppure quando, inconfessabilmente, i loro avversari non risultano troppo “antipatici” diventa possibile esibire una misera equidistanza spacciandola per internazionalismo; è persino possibile fingere di dichiararsi contro “il nemico in casa propria” quando in realtà ci si schiera contro il collocamento del proprio Stato all’interno di una particolare alleanza, quando in realtà si utilizza come specchietto per le allodole una particolare alleanza, della quale fa parte il proprio Stato, per occultare la propria predominante avversione nei confronti della particolare potenza egemone di questa alleanza: la “guerra della NATO contro Putin” per non dire la guerra degli “amerikani” contro la Russia; per poter dire “siamo già in guerra” e camuffare l’antiamerikanismo per lotta contro la propria borghesia. Ma quando invece il campismo, da tempo orfano in semicosciente ricerca di padri padroni, si imbatte in quelli che ritiene i suoi tradizionali “beniamini”, i “popoli oppressi” ideologicamente funzionali ad una passata proiezione imperialistica, salta ogni pudore, ogni remora, scatta il richiamo della foresta. Un richiamo che può eventualmente rivelarsi perfettamente funzionale agli interessi di nuove potenze emergenti nell’agone imperialistico e a particolari frazioni borghesi in casa propria.

Per questi disertori della guerra di classe la diserzione nella “guerra di liberazione nazionale” è ingiustificabile. Il proletariato palestinese che diserta la “lotta al sionismo” è un traditore della patria, che, per rendere più digeribile il concetto, assurge a “patria di tutti gli oppressi”.


Per rimanere in tema di diserzione, se si dovesse prestare fede alle professioni di “leninismo” dell’opportunismo terzomondista, il fenomeno in corso in Ucraina ed in Russia dovrebbe essere valutato con una maggiore attitudine critica dei suoi oggettivi limiti. Ma ecco che si presenta l’altra faccia della falsa moneta dell’opportunismo: la necessità di attestarsi sull’attuale livello di consapevolezza politica della classe senza provare ad elevarlo – quantomeno presso le sue avanguardie –, di gratificare l’esistente nel tentativo di cattivarsi un senso comune d’area per esigenze dimensionali ed egemoniche. E allora i limiti della diserzione individuati da Lenin – ribaditi con tono dottrinario per creare l’impressione di una continuità di pensiero – vengono accantonati per fare luogo al «contesto completamente diverso» rispetto ai tempi di Lenin, ai diversi «rapporti di forza tra le classi» e alle «potenti organizzazioni operaie» dell’epoca – che invero tanta misera prova di sé diedero dinanzi al test della guerra mondiale.

È vero, oggi il contesto e i rapporti di forza tra le classi sono diversi e non esistono organizzazioni di classe – né potenti né deboli –, così come è vero che attualmente in Ucraina ed in Russia «non esistono alternative immediate alla diserzione per chi rifiuta la guerra o semplicemente non ne può più di combatterla», ma ciò comporta la necessità per una soggettività politica che si definisca internazionalista e rivoluzionaria di fornire ad eventuali, ultraminoritarie avanguardie di classe – qui come in Ucraina, in Russia e nel resto del mondo – quel chiarimento teorico dell’insufficienza e della condizionalità della diserzione senza il quale la possibilità di una sua “alternativa” non si presenterà né ora né mai.

I marxisti respingono la connotazione infamante che alla diserzione attribuisce la borghesia; tuttavia, nemmeno la trasformano in un feticcio operando una simmetrica e meccanica inversione di valore come certo massimalismo di matrice anarchica.

I marxisti non possono condannare coloro che in una guerra imperialista rifiutano di farsi uccidere, ferire, mutilare, anche quando questo rifiuto sia dettato dal mero istinto di conservazione e non sia immediatamente accompagnato dalla consapevolezza che la propria esistenza è messa a rischio per interessi estranei. Tuttavia, non possono considerare il sottrarsi al combattimento – individuale o di gruppo – come un valore in sé, né possono promuoverlo politicamente come strumento per porre fine alla guerra imperialistica.

Il marxismo rivoluzionario attribuisce alla diserzione nella guerra imperialista, specie se rappresenta un fenomeno consistente, il carattere di sintomo di un importante processo in atto: il relativo indebolimento della capacità di controllo degli apparati militari e il vacillare della presa ideologica nazionalista e bellicista, necessaria alla mobilitazione del proletariato ed alla tenuta dei fronti. La lunghezza del conflitto, i rovesci militari, le sofferenze e le privazioni al fronte, la gestione più o meno efficiente dei congedi e delle turnazioni, dei rifornimenti e della salute psico-fisica dei combattenti possono minare il morale delle truppe e l’istinto di conservazione può iniziare a prevalere sulla convinzione dei soldati e sulla loro determinazione a combattere contro il “nemico esterno”.

In questo senso, la diserzione rappresenta un indice rilevante che segnala indirettamente il presentarsi di condizioni operative favorevoli per l’intervento politico rivoluzionario. Non è infatti meccanicamente implicito che quello dei disertori sia un terreno propizio alla lotta rivoluzionaria per porre fine alla guerra, che è poi l’unico modo per porvi fine realmente, ma è quando le diserzioni si moltiplicano che i rivoluzionari hanno maggiori spazi di manovra al fronte.

La diserzione è un fenomeno composito che può assumere forme diverse. Esiste la diserzione individuale, che può essere dettata dall’istinto di conservazione, da convinzioni religiose o da motivazioni contingenti, personali. E c’è la diserzione collettiva, che può colpire interi reparti, reggimenti, divisioni fino ad un limite che non è possibile determinare preventivamente ma oltre il quale questa disgregazione dell’esercito, incontrando inevitabilmente delle resistenze, deve assumere forme diverse.

Esiste la diserzione disarmata, che si manifesta con l’abbandono delle armi e della divisa in dotazione, e quella armata.

La diserzione disarmata, collettiva o individuale, è perlopiù destinata a incorrere nelle sanzioni dell’apparato repressivo militare dello Stato borghese, più o meno severe a seconda del generale andamento del conflitto. Con il procedere della repressione e nella misura in cui l’apparato militare ed ideologico borghese non riesce a far recedere il fenomeno, la diserzione può assumere maggiormente i tratti di fenomeno collettivo che si pone il problema dell’autodifesa. A questo punto si presenta inevitabilmente la necessità di combattere una guerra per non doverne combattere un’altra. La necessità di difendere la propria esistenza fisica, una delle sirene ideologiche della mobilitazione borghese per la “patria in pericolo” – che quell’esistenza mette invece direttamente a rischio –, diventa il motivo reale della lotta.

Un esempio di questo processo è stata l’iniziale formazione dei raggruppamenti partigiani in Italia e in altre aree d’Europa durante la Seconda guerra mondiale. Un fenomeno che, occorre precisarlo, ha rappresentato un livello di forme di lotta della classe operaia decisamente inferiore rispetto a quello espresso in Russia ed in Germania nel corso della Prima guerra mondiale, in un contesto di complessiva assenza di organizzazioni rivoluzionarie del proletariato e di forte radicamento dello stalinismo, una forza controrivoluzionaria che in definitiva fu in grado di imbrigliare queste prime forme di lotta e di incanalarle nelle operazioni militari del conflitto imperialistico mondiale.

Se il fenomeno della diserzione in Ucraina ed in Russia dovesse raggiungere il livello della diserzione collettiva armata, con formazione di raggruppamenti guerriglieri su una base quantomeno oggettivamente classista, il dovere di eventuali minoranze rivoluzionarie internazionaliste locali sarebbe senza dubbio quello di tentare il collegamento con questi organismi di lotta per un difficile lavoro di crescita politica su obiettivi rivoluzionari e di contrasto alle influenze ideologiche borghesi permanentemente tendenti al riassorbimento di questi organismi.

Obiettivamente, questo non sembra essere ancora il caso in Ucraina e Russia e, d’altro canto, le minoranze anarchiche esistenti localmente si dividono perlopiù tra il volontario arruolamento in brigate sotto il controllo dello Stato Maggiore borghese ucraino e il lancio di parole d’ordine insufficienti come “disertare la guerra” o prive di qualsiasi terreno organizzativo come «puntate i fucili contro coloro che ve li hanno messi in mano».

Lo slogan “disertare la guerra”, troppo spesso declamato anche alle nostre latitudini da chi si definisce comunista e internazionalista, non fornisce alcuna indicazione di lotta. Al massimo si limita a registrare l’esistente senza introdurre elementi di superamento. 

Disertare come? Abbandonando i fucili? Per farsi riacchiappare e rispedire al fronte, oppure condannare al carcere o alla fucilazione? Disertare con i fucili? Per rintanarsi come animali braccati in qualche terra di nessuno, nella speranza che la tempesta passi, oppure difendendosi, ma senza strappare il cuore all’idra, lo scatenatore e prosecutore della guerra e della repressione, lo Stato borghese? Disertare tutti? Nella romantica illusione che ciò sia possibile e che si possa porre fine alla guerra “piantando le baionette al suolo”?

Malgrado il senso di sufficienza che da decenni circonda il suo nome presso piccolo-borghesi insofferenti a qualsivoglia rigore teorico e organizzativo, Lenin ha qualche insegnamento da offrirci a questo riguardo:

Noi non siamo anarchici. Non crediamo che la guerra possa concludersi con un semplice «rifiuto», con il rifiuto di singoli individui, di gruppi o di «folle» occasionali. Noi riteniamo che la guerra deve finire e finirà con la rivoluzione in una serie di paesi, cioè con la conquista del potere dello Stato da parte di una classe nuova…[5]

Nella direzione di questa rivoluzione e di questa conquista del potere dello Stato si pone un’altra parola d’ordine da indirizzare ai proletari gettati come carne da cannone sui campi di battaglia delle guerre imperialiste: non la diserzione ma la fraternizzazione organizzata[6], e questa parola d’ordine è uno dei compiti specifici del lavoro politico inerente alla tattica del disfattismo rivoluzionario: l’intensificazione della lotta di classe, nelle retrovie e nell’esercito, senza arretrare di fronte all’eventualità che questa lotta cooperi alla sconfitta militare della propria borghesia, ma anzi approfittando della sconfitta ai fini della rivoluzione.

… la fraternizzazione sviluppa, rafforza, consolida la fiducia fraterna tra gli operai dei diversi paesi. È chiaro che essa comincia a infrangere la maledetta disciplina della caserma-prigione, la disciplina della passiva subordinazione dei soldati ai «propri» ufficiali e generali, ai propri capitalisti […]. È chiaro che la fraternizzazione è un’iniziativa rivoluzionaria delle masse, è il risvegliarsi della coscienza, dell’intelligenza, dell’audacia delle classi oppresse, è in altri termini, uno degli anelli della catena di iniziative che conducono alla rivoluzione socialista proletaria.[7]

Con la diserzione la «fiducia fraterna» non può svilupparsi, rafforzarsi, consolidarsi nemmeno tra gli operai di un singolo paese dietro un singolo fronte: l’abbandono dei propri commilitoni che rimangono sulla linea del fuoco in certe condizioni può persino risultare un venir meno alla solidarietà di classe, l’“ognuno per sé” che in definitiva non salva nessuno. È la fraternizzazione che consente il collegamento del proletariato in armi dei diversi paesi in guerra su basi classiste, che sviluppa la solidarietà internazionalista e che delinea il vero fronte. E non si può fraternizzare se si va via.

Entro certi limiti i comandi borghesi possono persino tollerare la diserzione ma non potranno mai accettare la fraternizzazione, men che meno se organizzata. Un atto politico che deliberatamente mette in discussione la guerra mettendo in discussione la stessa definizione del “nemico”, un atto di indipendenza politica che è l’espressione della “politica estera” di un proletariato che si riconosce in quanto tale, annullando le divisioni fittizie impostegli dalla classe dominante di casa propria ed eleggendo quest’ultima a “straniero”, a “nemico” principale.

I comunisti internazionalisti fanno propria questa parola d’ordine e respingono in quanto tale quella della “diserzione” non perché condannino il fenomeno o per un rifiuto di prenderne atto ma perché il compito delle avanguardie rivoluzionarie non è quello di accontentarsi del livello di consapevolezza esistente come gli opportunisti, la cui forma organizzativa

… rappresenta il livellamento [delle] stratificazioni di coscienza [del proletariato] al grado più basso o nel caso migliore al grado medio[8]

rallentando il loro sviluppo o facendolo anzi regredire, ma di elevare questo livello sempre un gradino più in su, di spingerlo un passo più avanti

Un’accelerazione che precede di un solo passo il processo; che non vuole imporgli scopi estranei ed utopie confezionate alla buona, ma interviene soltanto per portare alla luce lo scopo che risiede in esso, nel momento in cui la rivoluzione, ritraendosi «di fronte all’indeterminata enormità dei propri scopi», minaccia di oscillare e di perdersi a mezza via.[9]

Se, con ogni probabilità, né l’Ucraina né la Russia si trovano oggi alla vigilia di un sommovimento rivoluzionario, ciò non può costituire un alibi per abdicare ad un ruolo che alcuni sedicenti marxisti pretendono di voler svolgere affermando che la diserzione rappresenti una reale alternativa immediata «per chi rifiuta la guerra o semplicemente non ne può più di combatterla» e che dunque ponga in qualche modo fine all’orrore. L’orrore non avrà fine perché l’alternativa immediata avrà salvato per una volta qualcuno senza insegnare a nessuno la via per scampare agli orrori che seguiranno[10]. E non viene meno il compito dei marxisti autentici di elevare ed organizzare la coscienza della classe operaia nelle sue avanguardie anche nel momento attuale, in previsione delle future conflagrazioni imperialistiche, di indicare una strada che vada nella giusta direzione, anche se non è ancora immediatamente percorribile, non accontentandosi di una strada qualunque che riconduca la nostra classe al punto di partenza senza che nel frattempo abbia acquisito alcun insegnamento.


In quale misura e a quali condizioni i comunisti possono rivendicare l’atto della diserzione, così come con fierezza fece il Pcd’I nel caso di Francesco Misiano?

Nel suo discorso – di accusa piuttosto che di difesa – pronunciato alla Camera dei Deputati il 10 luglio 1920 contro l’autorizzazione a procedere per diserzione richiesta dal procuratore del Re di Bari, Misiano non rivendica la diserzione tout court ma la diserzione politica dalla guerra borghese, dalla guerra imperialista, la diserzione dall’arruolamento ideologico, dagli scopi politici ed economici della guerra, il rifiuto di qualsiasi corresponsabilità con essa:

… la diserzione non è un atto esteriore, è un atto interiore. Il vostro codice può classificarla come un atto esteriore: ma può darsi che se anche il corpo manovra sotto la bandiera sull’Isonzo l’animo può essere assente. Ma può darsi che dalla trincea dell’Isonzo, tutta l’anima propria è protesa nella lotta ardente per la propria idea.[11]

Nel 1915 Misiano, fu

… tra coloro che disapprovarono questa formula [né aderire né sabotare]. Meglio il sabotaggio della guerra se la guerra è contro gli interessi del popolo; meglio incunearsi contro la guerra con atteggiamento fermo piuttosto che lasciarla passare, travolgente e massacrante le masse popolari.[12]

Nel 1916, dopo l’arresto e la prigionia per i moti torinesi dell’anno precedente, ci racconta Misiano:

Quando venne il mio turno di essere chiamato alle armi, ebbi un momento di incertezza. Se rifiutare di presentarmi alle armi, se accettare o no il consiglio che Costantino Lazzari pubblicava sull’Avanti! di “attendere i carabinieri a casa”. Ma, poi, dissi fra me: “No, mi sembra troppa debolezza attendere i carabinieri a casa”. Andai a fare il soldato, a Cuneo, insieme con gli altri.[13]

Misiano, seppure con ogni evidenza non si proponeva di condurre esattamente la tattica disfattista rivoluzionaria delineata dai bolscevichi, come Karl Liebknecht intendeva rispondere alla mobilitazione rimanendo nell’esercito ma rifiutando di impugnare le armi[14], e sicuramente intendeva proseguire la lotta socialista contro la guerra facendo propaganda tra i suoi commilitoni. A questo scopo fece domanda per passare sottufficiale e acquisire un grado che gli consentisse maggiore libertà d’azione in tal senso.

La risposta del prefetto di Torino alla richiesta di informazioni su Misiano da parte delle autorità militari è significativa:

Misiano professa apertamente princìpi rivoluzionari ed è ora fra i più irriducibili propagandisti contro la guerra, tanto che tuttora scrive ai suoi compagni lettere con le quali li incoraggia a perseverare nell’intransigenza contro la guerra promettendo di fare attiva propaganda sovversiva tra i militari […]. Antimonarchico e antimilitarista deve essere attentamente vigilato poiché è capace di organizzare e guidare qualsiasi forma di ribellione collettiva. Una eventuale nomina a sottotenente non solo produrrebbe pessima impressione ma potrebbe essere pericolosa alla disciplina.[15]

Francesco Misiano

Sotto il vigile controllo dei comandi militari, dichiarato abile al combattimento nonostante la forte miopia, vessato, isolato, trasferito in continuazione di compagnia in compagnia, internato per un giorno in manicomio e destinato a partire per il fronte senza addestramento e senza poter salutare la sua famiglia, Misiano, il giorno prima della prevista partenza si allontana dagli acquartieramenti insieme ad altri 36 commilitoni, per abbracciare un’ultima volta la moglie e due bambine, e lui solo, di tutti e 37, dopo due sole ore di assenza, prima che faccia in tempo a ripresentarsi, viene dichiarato passibile del massimo della pena prevista. Nel suo discorso del 1920 nell’aula parlamentare, Misiano non propugna dunque la diserzione come atto individuale, dal momento che il suo gesto era stato dettato dalle condizioni persecutorie e apertamente tendenti all’assassinio legale poste in essere nei suoi confronti dalle autorità militari, così come nei confronti di altri militanti socialisti ben noti per la loro militanza politica.

In questo caso, più che l’ingenuità di Misiano, sono perfettamente individuabili le carenze politiche del Partito socialista italiano – incerto tra la direttiva ufficiale del “non aderire né sabotare”, le spinte socialscioviniste e quelle più vicine al disfattismo rivoluzionario – e di conseguenza le sue carenze organizzative, che lo resero impreparato di fronte alla necessità di proteggere i propri dirigenti, propagandisti e agitatori più esposti, e di fronte all’esigenza di allestire un efficace apparato illegale che consentisse ai militanti socialisti mobilitati o mobilitabili di condurre con tutti i rigori della clandestinità e del lavoro cospirativo l’azione politica rivoluzionaria contro la guerra nell’esercito, senza renderla un’iniziativa pressoché individuale alla piena mercé alla repressione.

Per il suo ruolo pubblico nel partito e per la notorietà che accompagna la sua propaganda antibellicista, Misiano si trova dunque nell’impossibilità di disertare politicamente la guerra pur prestando servizio, ovvero nell’impossibilità di lottare contro la guerra al fronte, praticando il disfattismo rivoluzionario o quantomeno diffondendo la propaganda internazionalista. Impossibilitato a disertare politicamente, è costretto a disertare individualmente, per continuare a servire in altra forma la guerra alla guerra imperialista.

Dal punto di vista del partito rivoluzionario, mentre alcuni militanti devono sempre incaricarsi della direzione politica della battaglia internazionalista[16] ed altri della conduzione di questa battaglia tra le masse al fronte e nelle retrovie, con tutti i sacrifici e le scelte laceranti che questo comporta – come la partecipazione ai combattimenti –, altri ancora, in virtù del loro ruolo di rappresentanti pubblici della lotta proletaria contro la guerra imperialista e delle loro capacità di esprimerla presso le grandi masse, assurgono a simbolo vivente di questa lotta, che non hanno margini per condurre clandestinamente tra le truppe e che possono quindi esplicare più efficacemente con gesti e prese di posizione dal valore simbolico che abbiano la massima pubblicità: il rifiuto di Liebknecht, «solo contro centodieci», di votare in favore del bilancio di guerra, di imbracciare le armi per uccidere altri proletari in uniforme, la sua accettazione di servire al fronte come sterratore o come barelliere e la sua indicazione di rivolgere le armi contro il “nemico nel proprio Paese”; i comizi contro la guerra di Eugene Debs, che nel giugno 1918 gli valsero l’arresto per «intralcio al reclutamento» in base al “Sediction Act”, che estendeva la legge federale “contro lo spionaggio”, e la conseguente condanna a 10 anni di prigione, di cui 3 interamente scontati in penitenziario[17]; la diserzione di Francesco Misiano, che proseguì nella sua battaglia internazionalista in Svizzera e che partecipò da combattente ai moti spartachisti del gennaio 1919 a Berlino.

Karl Liebknecht in uniforme da richiamato alle armi

Atti simbolici comunque non privi di rischi per l’incolumità di chi li compie, ma con un bilancio politico nettamente superiore al presumibilmente vano tentativo di perseguire un lavoro cospirativo al fronte con un bersaglio disegnato sulla schiena.

Ad ogni modo, Misiano ci conferma che solo l’opposizione alla guerra – non presunti stratagemmi tattici quali l’”appoggio condizionato” alla guerra o la farsesca “attribuzione di obiettivi rivoluzionari” ad una guerra diretta dalla borghesia – rappresenta:

…un elemento stimolatore acuto, violento, acceleratore del moto rivoluzionario […] Ecco perché noi che fummo contro la guerra, crediamo che se la guerra porterà in Italia alla rivoluzione, il contegno del nostro Partito rimasto irriducibile oppositore alla guerra sarà stato appunto un principalissimo acceleratore della rivoluzione. Non potranno dire i Mussolini ed i Bissolati, che consigliano al popolo l’astinenza ed il sacrificio di fronte alla fame ed alla morte in nome della santità della guerra, di essere essi i provocatori volenterosi della rivoluzione, perché essi fecero di tutto per ritardarla ed impedirla.[18]

E Lenin ci insegna che il partito che più lotta contro la guerra è anche quello che quando essa deflagra lotta nella guerra, e che non vi si sottrae proprio per porvi fine col ferro e col fuoco:

Domani ti tolgono la scheda elettorale, ti danno in mano un fucile e un magnifico cannone a tiro rapido, costruito secondo l’ultima parola della tecnica: prendi queste armi di distruzione e di morte, non ascoltare i piagnucoloni sentimentali che hanno paura della guerra; al mondo sono rimaste ancora troppe cose che devono essere distrutte col ferro e col fuoco per la liberazione della classe operaia, e se nelle masse sale l’ira e la disperazione, se una situazione rivoluzionaria si presenta, preparati a creare nuove organizzazioni e metti in moto gli strumenti tanto utili di distruzione e di morte contro il tuo governo e la tua borghesia.[19]

La diserzione che rivendica Misiano – e noi con lui – non è quella individuale, dei poveri cristi, privi di coscienza e di indicazioni politiche, che vogliono comprensibilmente “salvare la pelle”, o quella degli umanitari e dei religiosi disgustati dall’ “inutile strage”, perché si tratta di una diserzione che nulla risolve e che in nulla si risolve[20].

I comunisti internazionalisti rivendicano la diserzione politica, ovvero l’incontro della polveriera del rifiuto della guerra imperialista che assume carattere di massa con la scintilla della lotta cosciente[21], al fronte, contro la guerra stessa. Un incontro che non si identifica con un’autoconclusiva “fuga generale”, di “interi eserciti”[22] – invocata per porre fine alla guerra da molti massimalisti e anarchici, sempre pronti ad infatuarsi e ad inghirlandarsi di tutte le parole (diserzione, tradimento, ecc.) che suscitano lo sdegno borghese, in un puerile gioco di specchi –, ma che prende le mosse dalla fraternizzazione al fronte, per arrivare all’insubordinazione collettiva, all’ammutinamento politico organizzato, alla marcia armata verso le proprie retrovie e i propri quartieri generali, all’insurrezione, alla rivoluzione, che non potrà mai risultare da una sommatoria di atti di salvaguardia individuale (per quanto umanamente comprensibili) ma esclusivamente da un atto di massa offensivo, qualitativamente differente.

Quando, nel 1916, Karl Liebknecht proclamava l’«onore di essere chiamato traditore»[23] al Parlamento prussiano e quando gridava in faccia ai suoi giudici militari: «Il vostro onore non è il mio onore», il rivoluzionario tedesco non esaltava il “disonore” o il “tradimento” in quanto tali e non rifiutava in sé il concetto di onore, ma lo riempiva di un contenuto di classe antitetico a quello borghese. Quando, nel 1917, Eugene Debs rivendicava il “tradimento” della legalità borghese degli Stati Uniti in guerra, riaffermava la “lealtà” ai principi rivoluzionari e alla causa dell’umanità[24]. Quando, nel 1920, Francesco Misiano dichiarava di fronte ai nazionalisti: «Sono stato sempre in prima linea nella mia trincea» e «Non sono disertore della mia guerra!» respingeva l’accusa di viltà e il concetto borghese di “diserzione” per rivendicare orgogliosamente il suo arruolamento volontario nella guerra di classe, la guerra che aveva scelto e che nessun altro gli aveva imposto.

Eugene Debs in carcere

Liebknecht, Debs, Misiano, sono leali ad una comunità, la classe operaia, una comunità di condizioni e d’interessi assai più di concreta di quella nazionale; mostrano altruismo, ovvero dedizione alla loro comunità; coraggio nel difenderne gli interessi, anche quando comportano il rischio dell’incolumità individuale (l’«audacia delle classi oppresse» di cui scrive Lenin); disciplina nella volontaria accettazione delle esigenze imposte dall’interesse reale della loro comunità; sincerità nei suoi confronti; orgoglio di appartenervi e sensibilità alla sua lode o al suo biasimo.

I rivoluzionari proletari hanno la loro lealtà, il loro altruismo, il loro coraggio, la loro disciplina, la loro onestà, il loro orgoglio. I comunisti hanno il loro onore. Un insieme di valori che in quanto tali non si identificano con il carattere ideologicamente deformato che attribuisce loro la società divisa in classi e che non devono pertanto essere negati insieme ad essa, ma che devono assumere un contenuto diverso ed antitetico se riferiti alla classe rivoluzionaria, l’unica classe la cui lotta schiude la prospettiva di quell’eliminazione delle classi sociali che trasformerà finalmente l’intera specie in un’unica comunità.

I comunisti non possono esortare al «coraggio di essere vili», perché per essi il coraggio non è un disvalore, così come non è un valore la viltà, ma di certo non indietreggiano di fronte all’eventualità di apparire vili secondo i codici giuridici e morali borghesi.

I comunisti non possono gridare “tutti a casa!” mentre le autorità militari e civili dello Stato borghese rispondono con il carcere o con i plotoni d’esecuzione, con la speranza che, se si è in molti a disertare, qualcuno la scamperà. Sarebbe sciocco ed irresponsabile[25]. Tornarsene a casa, in pochi, in molti o persino – assai inverosimilmente – “tutti”, lasciando inalterate le cause della catastrofe bellica? Fingendo poi che nulla sia successo nell’intervallo tra un carnaio imperialistico e quello successivo? Ammesso che una “casa” esista ancora… ammesso che una “casa” sia ancora possibile

I comunisti non possono fare leva sulla paura di morire, perché anche la lotta rivoluzionaria comporta tale rischio, e, se non lo si affronta quando è necessario, nulla mai potrà cambiare, mai si potrà costruire un mondo nel quale si dissolva tra le “anticaglie della storia” il rischio di morire in conflitti tra esseri della stessa specie. Piuttosto, i comunisti devono fare leva sul rifiuto di morire di una morte priva di senso, sul rifiuto di morire per interessi estranei a quelli della propria classe, finalmente riconosciuti come i propri.

I comunisti devono suscitare nella classe operaia intrappolata nella guerra imperialista il coraggio di combattere per non dover combattere più. Non quello di spezzare i fucili ma di usare le proprie armi contro la guerra. Di fraternizzare su linee di classe per abbattere i propri comandi e i governi dietro ad essi e per imporre la pace con il potere conquistato. Per raggiungere tale obiettivo è necessaria soprattutto quella diserzione politica che opera fisicamente sui fronti della guerra borghese, è necessario un lavoro politico organizzato, quotidiano, metodico, paziente, clandestino, mortalmente pericoloso, psicologicamente devastante, è necessario il disfattismo rivoluzionario. Può essere necessario non disertare fisicamente la guerra per disertarla politicamente, per essere “altrove” con il proprio ideale – inteso come finalità non immediata –, per sabotarla, per trasformare la guerra imperialista in guerra civile, per assolvere al proprio dovere nella guerra di classe: l’unica guerra che i comunisti internazionalisti, in nessuna circostanza, possono, devono e vogliono disertare.


NOTE

[1] «Secondo la procura generale del Paese [Ucraina], più di 100mila soldati sono stati incriminati in base alle leggi ucraine sulla diserzione da quando la Russia ha invaso il Paese nel febbraio 2022. Quasi la metà ha disertato solo nell’ultimo anno, dopo che Kiev ha lanciato un’aggressiva e controversa campagna di mobilitazione che, secondo i funzionari governativi e i comandanti militari, è in gran parte fallita. Si tratta di un numero impressionante per qualsiasi misura, dato che si stima che prima dell’inizio della mobilitazione ci fossero circa 300mila soldati ucraini impegnati in combattimento. E il numero effettivo di disertori potrebbe essere molto più alto. Un legislatore esperto di questioni militari ha stimato che potrebbe essere di 200mila unità. Molti disertori non tornano dopo aver ottenuto un congedo medico. Stremati dalla costanza della guerra, sono psicologicamente ed emotivamente segnati. Si sentono in colpa per non essere riusciti a trovare la volontà di combattere, provano rabbia per come viene condotto lo sforzo bellico e frustrazione per il fatto che non sembra possibile vincere». Tens of thousands of soldiers have deserted from Ukraine’s army, euronews.com, 30 novembre 2024. «A settembre 2022, la pena massima per la diserzione dalle forze armate [russe] ai sensi dell’articolo 338 del codice penale della Federazione Russa è di 15 anni di carcere. Da febbraio 2022, 11.700 casi di abbandono non autorizzato di un’unità sono arrivati ​​ai tribunali militari e il numero di casi che arrivano ai tribunali ogni mese ha iniziato ad aumentare a marzo dell’anno scorso, raggiungendo un nuovo massimo di quasi 1.000 casi al mese nel luglio 2024». Russian Army Division Hit by Desertions of ‘Whole Regiment’: Report, newsweek.com, 20 novembre 2024.

[2] Non vanno annoverati fra costoro i pifferai della “resistenza” ucraina all’aggressione russa, per i quali il sostegno politico alla guerra borghese da parte degli “operai in armi” avrebbe dovuto garantire loro – dopo la “vittoria”, ça va sans dire – il potere. Molto opportunamente, i fautori di questa “tesi” tacciono ormai da anni sulla guerra e con ogni probabilità vedono con molto imbarazzo le diserzioni dei soldati ucraini (a meno che non li ritengano tutti “borghesi”).

[3] Un discorso che vale anche per quelle soggettività politiche sedicentemente “leniniste” e in avanzato stato di rispettabile socialdemocratizzazione che si proclamano “contro tutte le guerre” (anche quelle di classe? Anche quelle civili? Anche quelle rivoluzionarie?).

[4] Ucraina: diserzioni su entrambi i fronti, Il Pungolo Rosso, 6 dicembre 2024, https://pungolorosso.com/2024/12/06/ucraina-diserzioni-su-entrambi-i-fronti.

[5] Lenin, Il significato della fraternizzazione, maggio 1917, Opere, vol. 24, Lotta comunista, Milano, 2002, p. 329.

[6] «Per fraternizzazione noi intendiamo: in primo luogo, la pubblicazione di appelli in lingua russa, con traduzione tedesca, da diffondere al fronte; in secondo luogo, l’organizzazione al fronte, con la partecipazione di interpreti, di comizi di soldati russi e tedeschi, senza che i capitalisti e i generali e gli ufficiali dei due paesi che appartengono in maggioranza alla classe dei capitalisti possano impedire i comizi e osino assistervi, non avendo ricevuto una particolare ed espressa autorizzazione da parte dei soldati». Lenin, Conferenza cittadina pietrogradese del POSDR, Progetto di risoluzione sulla guerra, maggio 1917, Opere, vol. 24, Lotta comunista, Milano, 2002, pp. 160-161.

[7] Lenin, Il significato della fraternizzazione, maggio 1917, Opere, vol. 24, Lotta comunista, Milano, 2002, p. 328.

[8] G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, 1923, Mondadori, Milano, 1973, p. 403.

[9] Ibidem, p. 311.

[10] «Se la guerra attuale provoca nei socialisti cristiani reazionari, nei piccoli borghesi piagnucoloni soltanto orrore e paura, soltanto avversione per l’impiego delle armi, per il sangue, la morte, ecc., noi dobbiamo dire che la società capitalistica è stata e sarà sempre un orrore senza fine. E, se oggi la guerra, la più reazionaria di tutte le guerre, prepara a questa società una fine piena d’orrore, non abbiamo alcun motivo di abbandonarci alla disperazione». Lenin, Il programma militare della rivoluzione proletaria, settembre 1916, Opere, vol. 23, Lotta comunista, Milano, 2002, p. 79.

[11] Il Soviet, anno IV, n. 15, Napoli, 12 giugno 1921.

[12] F. Misiano, Il Disertore, Cronopio, Napoli, 2024, p. 48.

[13] Ibidem, pp. 51-52.

[14] «Vestirsi! È probabile un attacco russo. Razzi luminosi tedeschi volano, noi ci appiattiamo, poi ci arrampichiamo fuori dal nostro tratto di fossato, che è separato per circa trenta o quaranta metri dal lungo fosso già terminato. Inciampiamo sulle tombe, fra la boscaglia: nessuno conosce la strada o la direzione verso il fossato principale. I miei occhiali, scalfiti da un ramoscello, cadono nell’erba; io li ritrovo per caso tastando per terra. Il sottufficiale è arrabbiato. Io litigo con lui, ma non in malo modo perché è un bravo ragazzo, benché molto corto di mente e pauroso. Gli spiego che io non tirerò, anche se mi fosse ordinato di tirare. Mi si potrebbe per questo fucilare. Altri sono del mio parere». K. Liebknecht, lettera alla moglie dal campo militare, 8 ottobre 1915, in Lettere 1915-1918, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 28.

[15] F. P. Bortolotti, Francesco Misiano, Vita di un internazionalista, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 48.

[16] Qualcuno potrebbe avanzare il sospetto che si tratti di una “scappatoia preventiva” per i “capi di partito” o per coloro che aspirino a diventarlo… li si può serenamente lasciar dire. Che il movimento rivoluzionario non abbia bisogno di dirigenti o che tutti i dirigenti in ogni circostanza e indipendentemente dal loro ruolo debbano esporsi al rischio estremo, rappresentano due tra le fresconerie preferite dalla classe dominante, che si guarda bene dall’agire in questo senso e pregusta di leccarsi i baffi nelle future lotte civili. I rivoluzionari che antepongono la vittoria della propria classe e di un nuovo sistema sociale alle pose romantiche da esibire nel corso di “eroici fallimenti” non fanno di questi doni al nemico di classe.

[17] «Ognuno di questi aristocratici cospiratori e aspiranti assassini sostiene di essere un arci-patriota; ognuno di loro insiste che la guerra viene condotta per rendere il mondo sicuro per la democrazia. Che idiozia! Che marciume! Che falsa pretesa! Questi autocrati, questi tiranni, questi ladri e assassini in flagranza di reato, sono “patrioti”, mentre gli uomini che hanno il coraggio di ergersi faccia a faccia contro di loro, di affermare la verità e di lottare per le loro vittime sfruttate, sono gli sleali e i traditori. Se questo è vero, voglio prendere il mio posto a fianco dei traditori in questa lotta». E. V. Debs, Discorso contro la guerra di Canton, Ohio, 16 giugno 1918, https://www.marxists.org/archive/debs.

[18] F. Misiano, Il colmo dell’impudenza, L’Avvenire del lavoratore, 21 aprile 1917.

[19] Lenin, Il fallimento della Seconda Internazionale, giugno 1915, in Il socialismo e la guerra, Lotta comunista, Milano, 2008, pp. 86-87.

[20] Recentemente si sta tentando di mitigare il significato comunista e internazionalista della battaglia di Misiano contro la guerra imperialista, apprezzando il suo comportamento come “più vicino all’anarchismo” e postulando uno “scarto” tra il suo atteggiamento e quello di Lenin in cui, “auspicabilmente” può inserirsi il “pacifismo”… Cfr. Francesco Misiano, “Il disertore”, in Qui comincia, trasmissione radiofonica di Radio3 del 30 ottobre 2024, a cura di Attilio Scarpellini.  Persino una riedizione del discorso alla Camera di Misiano diventa occasione per un tentativo di appropriazione politica indebita che tende a trasformarlo in poco più di un pacifico “obiettore di coscienza”: «Ecco, l’ostinazione disertante [sic] di Misiano dice che, dentro la guerra, è possibile pensare una guerra diversa, una guerra anche disarmata, una guerra anche non violenta e non perché la violenza sia solo e per forza il male ma perché il nuovo mondo che nasce da questa guerra (o meglio: da questa insurrezione contro la guerra) deve sospendere davvero, per sempre e da subito, la violenza: la rivoluzione è una forma radicale di diserzione o non è». Così sentenzia Luca Salza, in Francesco Misiano, promemoria per domani, prefazione a F. Misiano, Il disertore, Cronopio, Napoli, 2024, p. 41. Nei suoi volteggi lirici l’autore – che in un’intervista radiofonica a Il posto delle parole afferma che «Misiano ci dice che è più bello guardare attraverso la finestra il passare delle stagioni, è più bello innamorarsi che fare la guerra» – ritiene secondario che Misiano si caratterizzasse come un combattente della guerra di classe che di certo non credeva nella “guerra disarmata” quando imbracciò le armi a Berlino nel 1919, così come non vi credeva Karl Liebknecht, che di quei moti fu il simbolo e che si era sempre battuto per l’armamento del proletariato tedesco.

[21] Evocativo in questo senso Amadeo Bordiga, che ricorda la rotta di Caporetto dell’ottobre 1917: «In pratica i proletari soldati avevano applicato sia pure in modo insufficiente il disfattismo, disertando il fronte. Avevano gettato le armi invece di tenerle per azioni di classe, come nello stesso tempo avveniva sui fronti russi; se non avevano sparato sui loro ufficiali, era perché gli ufficiali erano scappati con loro anziché impugnare le storiche pistole dell’Amba Alagi 1897 (altra grande tappa italiana) nel tentativo di arrestare la fuga. Le masse avevano capito quanto possono capire, finché non fa maggior luce il partito rivoluzionario». Storia della sinistra comunista I, 1912-1919, edizioni il programma comunista, Milano, 1964, p. 114. Una “luce”, quella del partito rivoluzionario, che, indubbiamente, avrebbe potuto meglio rischiarare il cammino dei fanti se fosse stata al loro fianco sufficientemente luminosa.

[22] Come scrive Oddino Morgari, «… una cosa è certa, che l’atto del Misiano potrà col tempo moltiplicarsi e potrà aversi questo spettacolo di un intero esercito che non dirò diserta, perché non può adoperarsi questa parola per un caso collettivo, ma si rivolta contro la guerra…», in F. Misiano, Op. cit., pp. 75-76.

[23] «Signori, se questo è tradimento, se la difesa dell’idea di pace è tradimento, se la proclamazione della lotta di classe proletaria internazionale contro la guerra, se la rottura sistematica della pace civile è tradimento, sì, signori, allora ripeto ciò che è già stato detto altrove: allora è un onore essere chiamato traditore. Signori, noi che vediamo la nostra patria nell’Internazionale del proletariato non ci lasceremo mai e poi mai dissuadere da queste sfide alla Giustizia nella nostra doverosa lotta». K. Liebknecht, Discorso sul bilancio della Giustizia al Landtag prussiano, marzo 1916, in K. Liebknecht Reden und Aufsätze, Verlag der Kommunistichen Internationale, Hamburg, 1921, pp. 277-278.

[24] «Ci sono momenti in cui è “tradimento” essere rispettosi della legge e momenti in cui è “tradimento” essere fedeli ai principi rivoluzionari e alla causa dell’umanità. Siamo consapevoli, senza che ce lo ricordino i nostri stessi compagni, che l’accusa di tradimento può essere mossa contro di noi dai servi di Wall Street, che possono interpretare la legge in modo da attribuire l’accusa di tradimento a qualsiasi cittadino indesiderato e che, come Karl Liebknecht, potremmo essere messi in galera o dover affrontare un plotone d’esecuzione, ma preferiremmo mille volte andare incontro a un simile destino piuttosto che essere così vili e codardi da ricorrere a tattiche da salotto quando l’inferno rosso minaccia di inghiottirci, per paura di essere considerati “traditori” dai lupi di Wall Street». E. V. Debs, Il rapporto di maggioranza, 26 maggio 1917, https://www.marxists.org/archive/debs/works/1917.

[25] Così come è sciocco ed irresponsabile invitare i soldati ucraini e russi a rivolgere estemporaneamente le armi contro i comandi in assenza di qualsiasi forza organizzata di classe fra le truppe e nelle retrovie. D’altro canto, se è facile inneggiare alla diserzione dalle nostre parti, a distanza di sicurezza, è relativamente facile farlo anche localmente, fintanto che il rischio è ancora una pena carceraria tutto sommato non pesantissima. Meno facile sarebbe farlo nel caso in cui venga ripristinata la pena capitale, circostanza per la quale il fenomeno potrebbe persino rientrare, almeno parzialmente e temporaneamente.

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