
Intorno alla tregua, siglata da Israele e Hamas il 15 gennaio, si è levato, immediatamente e prevedibilmente, un altisonante per quanto discordante coro da parte di Governi, forze politiche, formazioni più o meno direttamente coinvolti nel conflitto. C’è chi ha cantato vittoria, chi è passato all’incasso dell’esito delle trattative in termini di consenso e prestigio, chi ha preso le distanze in base alla propria agenda e con lo sguardo volto ad altri versanti della competizione politica in cui è inserito.
Si sono moltiplicati bilanci, che, attraverso un lavoro di interpretazione delle loro mistificanti enunciazioni, si rivelano sintetici profili di autobiografia politica dei soggetti che li stilano, dei loro interessi, della loro natura di classe.
Da parte nostra, da marxisti, internazionalisti e militanti per la rivoluzione proletaria, non possiamo che formulare una valutazione sui due piani in cui questo drammatico sviluppo storico si è svolto e si sta svolgendo.
Sul piano delle relazioni borghesi, dei rapporti tra Stati e potenze nel tessuto ormai globale dell’imperialismo, i fatti parlano chiaro: il raid del 7 ottobre 2023, sferrato da una formazione politica della borghesia palestinese, una borghesia talmente debole da risultare incapace di condurre la lotta per la propria causa nazionale e di emanciparsi dalla totale subalternità al gioco delle potenze dell’imperialismo, è stato colto come occasione da parte della potenza regionale israeliana, in strategica sinergia con quella mondiale statunitense, non soltanto per intensificare spaventosamente la condizione di oppressione e vulnerabilità della popolazione palestinese, ma anche per dispiegare un forte intervento, lungo più direttrici, orientato ad un ridisegno degli equilibri che registrasse, aggiornandoli, i rapporti di forza nella regione.
Mentre veniva verificata la prevedibile indisponibilità degli Stati arabi a scendere sul terreno dell’aperta contrapposizione ad Israele, il sistema regionale di alleanze dell’Iran, la sua capacità di influenza e di costituire una minaccia militare per lo Stato ebraico sono stati messi alla prova, mostrando una forza e una consistenza assai minori di quanto da più parti si era da tempo stimato. Hamas ed Hezbollah sono state duramente colpite – la formazione sciita addirittura con un’offensiva che ha potuto dispiegarsi, senza autentici ostacoli politici a livello internazionale, in pieno territorio libanese – decapitate ai suoi vertici (mentre le operazioni militari di queste formazioni non hanno causato finora alcuna perdita presso gli alti comandi, politici e militari, dello Stato israeliano). Colpita la dimensione regionale dell’influenza e della presenza iraniane, il regime di Assad in Siria si è dissolto, con le forze israeliane pronte ad occupare territori precedentemente sotto la sovranità di Damasco.
Che le varie componenti ed espressioni della borghesia israeliana possano oggi divergere sulla valutazione specifica di questi risultati, che alcune di esse possano aver stabilito obiettivi che vanno oltre gli esiti finora prodottisi e che, quindi, considerino criticamente l’attuale interruzione delle operazioni militari nella Striscia di Gaza (mentre proseguono in Cisgiordania), non deve stupire. Rimane invece inspiegabile – se non riconoscendo la presenza di una profonda deriva ideologica nonché la pesante strumentalità dell’analisi della dinamica reale rispetto a contingenti obiettivi politici – come si possa negare che, ad oggi, l’intensificazione della conflittualità regionale a seguito del 7 ottobre abbia rafforzato nell’area la presenza e gli spazi di intervento dell’asse statunitense-israeliano e allontanato la realizzazione dei già velleitari obiettivi dichiarati dell’“asse della resistenza”.
Sul piano della condizione della nostra classe, il bilancio provvisorio che ci è consentito dal raggiungimento della tregua non è purtroppo meno chiaro. La Striscia di Gaza è ormai una vasta distesa di macerie, i morti sono stimati oltre i 45mila, in gran parte proletari e sottoproletari. Famiglie intere soffrono la fame e il freddo. Ferite che avranno effetti per un lungo periodo: innumerevoli sono i mutilati e gli invalidi permanenti, mentre il sistema sanitario è al collasso. La popolazione di Gaza si trova nella sua quasi totalità nella condizione di sfollati. Le generazioni più giovani sconteranno i problemi legati alle distruzioni che hanno colpito anche il sistema scolastico ed è drammaticamente probabile che il futuro del mercato del lavoro per i palestinesi di Gaza si riconfiguri in senso ancora più sbilanciato a favore del regime di oppressione dello Stato israeliano e della sua borghesia. In estrema sintesi, questi sono gli esiti, per quanto attiene alle condizioni di vita del proletariato palestinese, della mossa politica delle frazioni borghesi palestinesi che si riconoscono nella sfera politica egemonizzata da Hamas. A questo si deve aggiungere l’ulteriore, terribile approfondirsi dell’odio nazionale, della divisione etnica e religiosa tra il proletariato palestinese, e in generale di ampi settori di quello arabo, e il proletariato israeliano. Il rivoltante rafforzarsi della presa delle ideologie nazionaliste e borghesi sulla nostra classe.
Dopo la guerra in Ucraina, anche il conflitto mediorientale ci mostra come il riattivarsi o il riacutizzarsi della criticità delle linee di faglia del tessuto imperialistico mondiale trovino un proletariato tragicamente privo di radicate e riconosciute organizzazioni in grado di impostare una autonoma politica di classe. Come il radicamento di una coscienza internazionalista nello scenario globale in cui vanno maturando le tensioni dell’imperialismo abbia raggiunto un drammatico minimo storico. La grave condizione di vulnerabilità politica della classe lavoratrice, la devastante facilità del suo utilizzo negli scontri tra borghesie e loro Stati, ci impone di proseguire, negli spazi in cui possiamo agire, in uno sforzo per la formazione di una soggettività rivoluzionaria e internazionalista che sia sempre più consapevole della portata storica del compito. Il sangue proletario che sgorga oggi dalle linee di faglia dell’assetto imperialistico, dalle sue dinamiche, ci mostra come il nostro lavoro sia anche e soprattutto una corsa contro il tempo: i tempi che ci separano da una più vasta e generale deflagrazione della guerra imperialistica, da un confronto diretto tra centrali imperialistiche, sono i tempi di una tregua armata del capitalismo sempre più prossima alla sua catastrofica conclusione. Una tregua che deve rappresentare lo spazio storico per insediare e sviluppare una presenza politica di classe che possa costituire il punto di appoggio per rovesciare la crisi bellica dell’imperialismo in un processo rivoluzionario in grado di emancipare l’umanità dagli orrori di questo sistema.
Prospettiva Marxista – Circolo internazionalista «coalizione operaia»
