GUERRA ISRAELE – IRAN: LE BOMBE DELL’IMPERIALISMO E IL FALLOUT RADIOATTIVO DEL FALSO INTERNAZIONALISMO

Quattro giorni dall’inizio delle operazioni di guerra di Israele contro l’Iran. Quattro giorni di bombardamenti reciproci, con risultati estremamente sbilanciati: in Iran oltre 200 morti e più di un migliaio di feriti nei bombardamenti, basi militari distrutte, siti nucleari danneggiati, eliminazione di numerosi esponenti dei vertici politico-militari e di scienziati atomici; in Israele, per ora, qualche danno ad edifici preventivamente evacuati, 24 morti e 592 feriti, e, da quanto è noto, nessun quadro di comando politico o militare – nemmeno operativo – è stato colpito.

Tel Aviv ad oggi può valutare i risultati militari delle sue prime operazioni belliche ed incassa anche quelli politici dei colpi mandati a segno dal suo nemico: dei pochi missili che hanno eluso l’Iron Dome è stata testimone la popolazione israeliana che, considerando gli attualmente limitati danni reali messi a paragone con gli effetti psicologici del subire un bombardamento, si stringerà presumibilmente con maggior convinzione dietro al proprio governo in guerra, in un momento in cui le disgustose atrocità della borghesia israeliana contro il proletariato palestinese a Gaza cominciavano a trovare minoranze critiche sempre meno timide nella stessa Israele. Ne è stata testimone anche l’opinione pubblica mondiale, alla quale, per contro, non vengono somministrate in maniera equivalente le immagini delle ben maggiori distruzioni patite dalla popolazione di Teheran.

È troppo presto per sbilanciarsi con pronostici, soprattutto per chi non accampa la ridicola pretesa di troppi “geopolitici” da poltrona televisiva di conoscere alla perfezione gli obiettivi politici che sostanziano le dichiarazioni pubbliche rilasciate dai gabinetti di guerra borghesi.

Alcuni elementi di fatto sono tuttavia riassumibili.

Ad oggi, dopo quasi due anni di riacutizzazione delle tensioni sulla linea di faglia mediorientale, le operazioni della borghesia israeliana confermano e registrano i reciproci rapporti di forza tra le potenze dell’imperialismo nell’area.

Anche di fronte al pesantissimo attacco sferrato contro quello che appariva come uno dei principali attori regionali, nessuna delle potenze mondiali che potrebbero aspirare a ritagliarsi un ruolo di maggior rilievo in Medio Oriente ha finora espresso la chiara volontà di sfidare direttamente l’egemonia statunitense nella regione.

Per quanto riguarda le altre medie e piccole potenze regionali, Arabia Saudita, Egitto, Turchia, dietro il biasimo di rito nei confronti dell’offensiva aerea israeliana, è fin troppo evidente la volontà di rimanere alla finestra in attesa che si delinei con più chiarezza il quadro, scontando la preoccupazione che l’indebolimento di un avversario si risolva nell’eccessivo rafforzamento di un altro.

La Russia, che fino a ieri appariva un ferreo alleato di Teheran, gravosamente impegnata sul fronte ucraino, sensibilmente ridimensionata nella sua presenza in Medio Oriente in seguito alla caduta della Siria degli Assad (per impedire la quale è stata in grado di fare meno di niente e alla quale si è rassegnata con pronta sollecitudine), sembra volersi assumere il ruolo di mediatrice tra USA-Israele e Iran, magari nella speranza di vedersi riconosciute alcune delle sue pretese su Kiev.

Gli USA sostengono diplomaticamente (e con ogni probabilità militarmente) le iniziative relativamente autonome del loro storico alleato nell’area, pur rimanendo con ogni verosimiglianza interessati a che l’equilibrio di forze tra gli attori regionali non ne risulti eccessivamente sbilanciato.

Israele arriva forse alla fase decisiva di un’operazione a lungo pianificata per eliminare in tempo utile ogni possibilità che un suo contendente possa disporre del deterrente nucleare, limitando in tal modo le sue possibilità d’azione militare garantite da una irrinunciabile posizione di vantaggio.

Non siamo in grado di confermare se tra gli obiettivi della borghesia di Tel Aviv ci sia realmente un “regime change” a Teheran. Le pelose dichiarazioni di “simpatia” e di “solidarietà” di Netanyahu al popolo iraniano oppresso dagli Ayatollah potrebbero lasciar pensare alla presenza di una qualche opposizione politica iraniana con cui Israele sia in grado di interloquire, un “cavallo” su cui puntare, piuttosto che ad un appello ad un’insurrezione di massa i cui risultati sarebbero imprevedibili e forse indesiderabili, ma allo stato attuale delle informazioni non è possibile accertarlo, e lo stesso Netanyahu sembra essere parzialmente ritornato sulle sue parole. Certo è che molte delle personalità politiche e militari iraniane finora falcidiate dai razzi israeliani si connotano per il protagonismo mostrato negli ultimi decenni nel progetto di espansione regionale iraniana e non è da escludersi la possibilità che esistano dissidi interni nella leadership politico-religiosa di Teheran che potrebbero risultare difficilmente ricomponibili nel caso in cui le cariche apicali dovessero essere eliminate repentinamente. Si delineerebbe un auspicabile (per Israele) quadro di empasse del regime nella continuità del regime stesso. Un quadro che potrebbe però, nel caso in cui non si pervenisse ad un non escludibile accordo (che lascerebbe prevedibilmente le masse operaie iraniane sole di fronte alla repressione di eventuali moti insurrezionali), degenerare nella destabilizzazione ed in aspri conflitti civili trainati da fazioni borghesi, tali da giustificare un successivo e risolutore intervento “boots on the ground” dell’IDF che, allo stato attuale, considerata la stazza israeliana e le reazioni che un simile intervento potrebbe suscitare anche nell’Iran più ostile al regime, non sembra plausibile.

È presumibile che l’attacco iniziato il 13 giugno scorso sia stato sferrato con l’intento di approfittare di una finestra di opportunità che lo Stato della borghesia israeliana è stato parzialmente in grado di aprirsi da sé, eliminando, neutralizzando o contenendo le propaggini politico-militari di Teheran a Gaza, in Libano, in Siria e nello Yemen, prima di rivolgersi con sufficiente sicurezza contro il bersaglio principale. Parzialmente, perché il casus belli, le possibilità di una poderosa accelerazione, sono state fornite ad Israele dall’operazione politico-militare di Hamas del 7 ottobre 2023. Il tentativo, da parte di una forza politica borghese messa all’angolo dagli avversari e dall’impotenza dei suoi padrini, di rimettere la questione palestinese al centro dell’attenzione della diplomazia internazionale, approfittando di questo proscenio per ritirarsi da una situazione sempre meno gestibile e sempre più compromettente. Una “exit strategy” che – data l’incolmabile sproporzione di forze con l’apparato militare israeliano – apparisse quanto più “onorevole” possibile per accumulare il “capitale politico” necessario a continuare a svolgere un ruolo, in esilio o comunque all’opposizione, nel dopoguerra. Il tutto al costo calcolato – molto probabilmente in difetto – del sacrificio della popolazione civile di Gaza.

È il consueto banchetto dei briganti, grandi e piccoli, dell’imperialismo. Un banchetto che gronda sangue proletario.

Ai margini estremi di questa tragedia, c’è il pulviscolo radioattivo di risulta delle esplosioni imperialistiche, la “pioggia sporca” sulla classe operaia mondiale: il falso internazionalismo degli opportunisti di ogni risma. 

Diverse ore dopo lo scoppio del conflitto, il tempo di coordinarsi con i propri schemi precostituiti e di piegare la realtà ad essi, sono arrivate le prime “prese di posizione”.

A conferma della probabilmente irreversibile deriva di una parte considerevole del mondo trotskista, intenta a trascinare inesausta il nome di un grande rivoluzionario marxista nel fango di un tatticismo senza princìpi e ormai – considerate le dimensioni e l’influenza residua delle sue organizzazioni – spesso persino privo di scopo, c’è chi ha scritto:

Ma è la classe operaia iraniana, sono le masse oppresse e sfruttate dell’Iran, che hanno il diritto di combattere e rovesciare il regime iraniano, coi metodi della lotta rivoluzionaria, e per una propria alternativa. Non certo lo stato coloniale e genocida di Israele, non le potenze imperialiste che lo armano e lo sostengono, in funzione del proprio controllo dispotico del Medio Oriente e della nazione araba.[1]

A prima vista sembrerebbe trattarsi della riaffermazione della strategia della trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile come conseguenza di una tattica disfattista rivoluzionaria e di una successiva “guerra rivoluzionaria” del proletariato iraniano contro l’esercito della borghesia israeliana una volta abbattuto il regime borghese iraniano e conquistato il potere. Si tranquillizzi il lettore, per quanto eccessivamente ottimistica, questa strategia rientrerebbe nel novero delle prese di posizione marxiste, internazionaliste. Nulla di tutto ciò:

Per questo nella guerra scatenata da Israele contro l’Iran ci schieriamo dalla parte dell’Iran contro Israele. L’Iran ha tutto il diritto di difendersi da Israele e di replicare alla sua aggressione. Come lo hanno gli houthi.[2]

Ergo, per questi campioni di “marxismo”, la difesa dall’aggressione militare israeliana, la replica contro Israele da parte dell’Iran, la guerra tra due Stati borghesi – capitalisticamente sviluppati, nella fase della maturazione imperialistica del capitalismo – e, dal momento che ci si schiera con uno dei due Stati in guerra, la vittoria di questo Stato in guerra, consentirà alle masse oppresse e sfruttate dell’Iran di rovesciare il regime iraniano coi metodi della lotta rivoluzionaria. Basta fare finta che lo Stato iraniano e la borghesia iraniana che conduce questa guerra (nota bene: anche chi è “aggredito” conduce una guerra) non esistano, e tutto magicamente si risolve. Diventa possibile schierarsi con una borghesia contro l’altra affermando però di schierarsi con quelle stesse masse che da questa borghesia – in assenza di qualsiasi forza organizzata e indipendente della classe operaia – sono trascinate al macello della guerra imperialistica per mezzo dell’ideologia nazionalista e degli apparati poliziesco-militari dello Stato borghese.

Questo è, né più né meno, socialsciovinismo. Aggravato, non attenuato, dalla circostanza che la patria borghese non sia la propria (per quanto non sia da escludere che frazioni borghesi nostrane non trovino, oggi o domani, questo schema confacente ai propri interessi).

A riconoscimento della coerenza di questi “difensori del marxismo” da cui il marxismo non si difenderà mai abbastanza, c’è da dire che si tratta dello stesso schema “tattico” adottato in occasione dello scoppio del conflitto imperialistico russo-ucraino, fatta eccezione per quella parte del trotskismo che si è schierata, con altrettanto socialsciovinistica simmetria, con la Russia “antimperialista” che si difende dall’allargamento di una NATO che racchiuderebbe in sé l’essenza dell’imperialismo.

Meno coerente potrebbe sembrare l’identica “presa di posizione” di quello che abbiamo definito, per l’influenza esercitata per ora su un piccolo settore della classe operaia in Italia, uno dei poli tendenziali dell’opportunismo in questo Paese:

…giù le mani dall’Iran, dalla Palestina, dal Medio Oriente, gangster democratici di Israele, Stati Uniti, Italia, Unione europea! Noi siamo schierati incondizionatamente dalla parte delle masse sfruttate e dei popoli aggrediti di Iran, Palestina e dell’intero Medio Oriente. Saremo solidali con la risposta di lotta anti-imperialista che da essi verrà, e faremo qui il possibile per moltiplicarne l’impatto.[3]

Ma, in realtà, nessun marxista rivoluzionario può sorprendersi per l’apparente contraddittorietà della difesa dell’Iran aggredito rispetto all’equidistanza manifestata nel caso dell’aggressione dell’Ucraina e spacciata per internazionalismo (con qualche timido richiamo alla “diserzione” confusa con il disfattismo rivoluzionario). Come è stato rilevato per tempo, per queste forze politiche, suonare la fanfara internazionalista è un sofisticato ed accattivante ripiego per le rare occasioni in cui tra i contendenti non è presente il “campo” che sentono proprio, che fa vibrare in profondità le loro corde, e in cui non c’è una borghesia per cui ritengano opportuno “tifare”.

Non poteva mancare nemmeno il solito, frusto, basso trucchetto. Nella guerra tra Israele e Iran:

Naturalmente ci sono anche gli aerei militari italiani, di quell’Italia che dice di volere la pace, ma ha messo le sue zampe insanguinate in tutte, proprio tutte, le guerre della NATO e del fronte imperialista occidentale degli ultimi 80 anni.[4]

La consueta scappatoia che, sovrastimando artatamente l’importanza dell’attuale coinvolgimento militare dell’Italia, consente agli internazionalisti fasulli di mascherare il loro posizionamento campista dietro la doverosa consegna che impone ad ogni autentico internazionalista di schierarsi contro il “nemico in casa nostra”…

Poi arriva l’indicazione politica:

La sola possibilità che questa liberazione [delle masse oppresse iraniane] avvenga è in un nuovo protagonismo di massa che sappia legare l’indispensabile risposta immediata a questa nuova inaudita aggressione, alla liberazione dalle catene del capitalismo, che è prosperato in Iran prima all’ombra dello Scià, e poi a quella degli ayatollah, sempre imponendo terribili sacrifici e spietata repressione a quanti/e vivono del proprio lavoro.[5]

La «liberazione dalle catene del capitalismo» (dunque siamo in presenza della consapevolezza del carattere capitalista dello Stato iraniano!), la rivoluzione, deve legarsi all’«indispensabile risposta immediata» all’aggressione israeliana, quindi alla guerra tra Stati capitalistici, quindi, anche in questo caso, alla vittoria di uno degli Stati capitalistici contrapposti in una guerra imperialistica: quello che si è scelto di sostenere.

Nella loro esaltazione socialsciovinista hanno identificato in maniera esclusiva – come ogni opportunista che si rispetti – la sconfitta di una borghesia nella guerra imperialista con la vittoria della borghesia nemica, estirpando completamente dal loro orizzonte politico le possibilità che storicamente le sconfitte hanno dimostrato di poter aprire ad un «nuovo protagonismo di massa», alla rivoluzione del proletariato.

Naturalmente, per questi “internazionalisti”, la guerra può essere “imperialista” da un solo lato, quello della maligna “entità sionista” (definita in questi termini per marcarne la presunta alterità, la natura peggiorativa, rispetto ad un nazionalismo borghese imperialistico oggi reazionario ovunque e su tutta la linea). Per questo la loro “opposizione” alla guerra imperialista non avrà altro senso che quello di un’opposizione “contro gli imperialisti che fomentano ed estendono la guerra”, ovvero non contro la guerra ma contro uno soltanto dei “campi” che la guerra vede contrapposti.

Potevano le minoranze marxiste rivoluzionarie, gli internazionalisti autentici, aspettarsi qualcosa di diverso da parte di questi imbastitori di “calde e partecipate” Zimmerwald da burletta, che, all’indomani del 7 ottobre 2023, confidavano in maniera malcelata in una conflagrazione regionale contro Israele e che vedono oggi i loro segreti desideri avverarsi in una forma ben diversa da quella che si auguravano?

Potevano le minoranze internazionaliste aspettarsi una diversa postura da parte di chi si è compromesso in vergognose alleanze con forze politiche borghesi della diaspora palestinese che potrebbero chiedergli conto di eventuali “tentennamenti”?

No. Tutte le loro precedenti lacrime di circostanza per la barbara repressione antioperaia (così come quelle per la repressione di genere) da parte di un regime di preti reazionari sono state lestamente asciugate dalla sudicia foglia di fico della “risposta all’aggressione sionista”. Possiamo immaginarceli nel lanciare la parola d’ordine della fraternizzazione tra il proletariato iraniano e un proletariato israeliano di cui, quando non ne condannano moralisticamente la subordinazione ideologica alla propria borghesia, negano persino l’esistenza?

Se non fosse un quesito ormai manifestamente ozioso, verrebbe voglia di chiedersi quando, nel corso delle guerre imperialistiche degli ultimi anni, questi pretesi internazionalisti abbiano mai chiamato con sincera determinazione all’unione dei proletari sui due opposti fronti della guerra. Un “internazionalismo” estremo, non c’è che dire, che però si scrive con le stesse lettere delle parole “terzomondismo” e “campismo”. Un terzomondismo ed un campismo da cui i falsi internazionalisti credono di schermirsi efficacemente quando accampano il volgare escamotage del vigoroso “rimprovero” rivolto alle potenze imperialistiche “emergenti”, colpevoli di non sostenere come “dovrebbero” le loro “nazioni oppresse” preferite.

Servi di tutte quelle bandiere nazionali il cui culto hanno ereditato dalle simpatie diplomatiche della loro inconfessata ed inconfessabile patria ideologica del tempo che fu, l’unica bandiera che non sventolano mai è quella rossa del proletariato internazionale, che però continuano a insudiciare.

A differenza degli opportunisti di tutte le risme, le minoranze autenticamente internazionaliste delle nostre longitudini non possono baloccarsi a lanciare parole d’ordine che non tengano conto della presenza o meno, nel quadro politico-militare considerato, di organizzazioni rivoluzionarie indipendenti del proletariato, anche minoritarie, che le possano raccogliere e trasformare in prassi politica. Mai però, queste stesse minoranze internazionaliste, possono derivare dall’assenza di organizzazioni analoghe nei paesi coinvolti da un conflitto imperialistico l’alibi per il campismo.

A maggior ragione se consideriamo il contesto iraniano, che, proprio in virtù del recente risveglio di un’accentuata conflittualità di classe, e per l’esistenza di storiche tradizioni comuniste internazionaliste (a suo tempo ferocemente represse) a cui il proletariato iraniano potrebbe riallacciarsi, più di altri Paesi si presta a prospettive politiche rivoluzionarie nell’area mediorientale.

Senza pretendere di rappresentare noi soli l’internazionalismo proletario in questo Paese, a differenza di coloro che lo pretendono senza rappresentarlo in alcun modo e in nessun luogo, ribadiamo con lucida ostinazione la posizione internazionalista che – forse in virtù delle nostre ridotte dimensioni – siamo stati in grado di esprimere con grande rapidità di fronte allo scoppio del conflitto israelo-iraniano.

Solo gli internazionalisti, che non provano imbarazzi, che non devono barcamenarsi tra interessi opportunistici di bottega, tra alleanze con forze politiche borghesi, tra agglomerati raccogliticci il cui unico comun denominatore è la mistificazione del marxismo, possono permettersi di prendere immediatamente una posizione inequivoca.

Gli altri sono costretti a scendere a compromessi, a mediare, equilibrare, mitigare, calibrare, smussare, a creare a tavolino formule in cui ogni parola sia al “posto giusto”, pesata con il bilancino dell’opportunità politicante, per ottenere il desiderato effetto cerchiobottista che riesca ad accontentare tutte le anime dell’area politica che mirano ad egemonizzare.

OPPOSIZIONE PROLETARIA ALLA GUERRA IMPERIALISTICA TRA ISRAELE E IRAN!

UNIONE INTERNAZIONALISTA DEL PROLETARIATO IRANIANO E ISRAELIANO CONTRO LE RISPETTIVE BORGHESIE!

مخالفت پرولتاریایی با جنگ امپریالیستی بین اسرائیل و ایران!

اتحاد انترناسیونالیستی پرولتاریای ایران و اسرائیل علیه بورژوازی مربوطه!

התנגדות הפרולטריון למלחמה האימפריאליסטית בין ישראל לאיראן!

אחדות בינלאומית של הפרולטריון האיראני והישראלי נגד הבורגנות בשתי המדינות!

Circolo internazionalista «coalizione operaia» – Prospettiva Marxista


NOTE

[1] Denunciamo l’aggressione dello stato sionista contro l’Iran, https://www.pclavoratori.it, 13 giugno 2025.

[2] Ibidem.

[3] Giù le mani dall’Iran, dalla Palestina, dal Medio Oriente, gangster di Israele, Stati Uniti, Europa – TIR, https://pungolorosso.com, 13 giugno 2013.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

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