DISFATTISMO RIVOLUZIONARIO, RENITENZA E DISERZIONE

PER IL «LETTORE PERSPICACE» – «Genesi e struttura» della tattica leniniana del disfattismo rivoluzionarioVI

Dalla postfazione al testo di Roman Rosdolsky – STUDI SULLA TATTICA RIVOLUZIONARIA, Movimento Reale, Roma, giugno 2025, pubblicata anche in opuscolo.


Per Lenin l’utilizzo rivoluzionario della crisi prodotta dalla guerra imperialista non può risolversi né nell’obiezione di coscienza, né nella renitenza alla leva, né nella diserzione.

A pochi mesi dallo scoppio del conflitto Lenin scrive:

Il rifiuto di prestare servizio militare, lo sciopero contro la guerra, ecc., sono una pura sciocchezza, un sogno misero e vile di una lotta disarmata contro la borghesia armata, l’illusione di distruggere il capitalismo senza un’accanita guerra civile, o una serie di tali guerre. La propaganda della lotta di classe è un dovere del socialista anche nell’esercito; il lavoro volto a trasformare la guerra tra i popoli in guerra civile è l’unico lavoro socialista nell’epoca del conflitto imperialista armato delle borghesie di tutti i paesi.[1] [grassetti redazionali]

Alla fine del 1916 ribadisce:

Le azioni rivoluzionarie devono comprendere le manifestazioni e gli scioperi di massa, ma in nessun caso il rifiuto di prestare servizio militare. Infatti, non il rifiuto di imbracciare le armi, ma solo il loro impiego contro la propria borghesia può rientrare nei compiti del proletariato e corrispondere alle parole d’ordine dei migliori esponenti dell’internazionalismo, come, ad esempio, K. Liebknecht.[2] [grassetti redazionali]

E all’inizio del 1917 ripete:

Non basta tuonare contro il militarismo, maledirlo, «condannarlo», criticarlo e mostrarne la dannosità; è stolto rifiutarsi pacificamente di servire nell’esercito; bisogna invece tener desta la coscienza rivoluzionaria del proletariato, e non solo genericamente, ma anche preparando concretamente i suoi migliori elementi a mettersi alla testa dell’esercito rivoluzionario nel momento in cui il fermento fra il popolo ha raggiunto la massima profondità.[3] [grassetti redazionali]

I rivoluzionari internazionalisti mobilitati devono «servire nell’esercito» per «tener desta la coscienza rivoluzionaria del proletariato» sotto le armi, per preparare i suoi «migliori elementi» a mettersi alla testa di quella parte dell’esercito che, una volta sottratta al controllo borghese sia diventata «rivoluzionaria», che invece di combattere nella guerra imperialista, abbia iniziato a “imbracciare le armi” nella guerra civile «contro la propria borghesia», contro la classe dominante del proprio paese.

Rifiutarsi di entrare nell’esercito borghese, conferma Lenin nel 1922, non è funzionale al raggiungimento di questo obiettivo:

Bisogna perciò spiegare in primo luogo la questione della «difesa della patria»; in secondo luogo, e in relazione con essa, la questione del «disfattismo», e, infine, esporre il solo mezzo possibile di combattere la guerra, cioè la formazione e il mantenimento, per una campagna prolungata contro la guerra, di un’organizzazione illegale comprendente tutti i rivoluzionari chiamati sotto le armi. Tutto ciò deve essere posto in primo piano.

Il boicottaggio della guerra è una frase stupida. I comunisti devono partire per qualunque guerra reazionaria.[4] [grassetti redazionali]

Pur respingendo la connotazione infamante che alla diserzione attribuisce la borghesia, non per questo i marxisti la trasformano in un feticcio operando come un certo massimalismo di matrice anarchica una simmetrica e meccanica inversione di valore.

I marxisti, pur non potendo certamente condannare coloro che rifiutano di farsi uccidere, ferire, mutilare in una guerra imperialista per mero istinto di conservazione, non possono considerare il sottrarsi al combattimento – individualmente o in gruppo – come un valore in sé, né possono promuoverlo politicamente come strumento per porre fine alla guerra imperialistica[*].

Il marxismo rivoluzionario attribuisce alla diserzione nella guerra imperialista, specie se rappresenta un fenomeno consistente e prolungato[5], il carattere di sintomo di un importante processo in atto: il relativo indebolimento della capacità di controllo dello Stato e degli apparati militari borghesi, lo sgretolamento del conformismo sociale che costringe gli individui a rassegnarsi ad una condizione al di fuori del proprio controllo e ad uniformare il proprio agire al sentimento collettivo prevalente, il vacillare della presa ideologica nazionalista e bellicista, necessaria alla mobilitazione del proletariato ed alla tenuta dei fronti.

In questo senso, la diserzione rappresenta un indice rilevante che segnala indirettamente il presentarsi di condizioni operative favorevoli per l’intervento politico rivoluzionario. È spesso proprio in un periodo in cui le diserzioni si moltiplicano che i rivoluzionari hanno maggiori spazi di manovra al fronte.

Per Lenin non è possibile porre fine alla guerra disertandola:

Noi non siamo anarchici. Non crediamo che la guerra possa concludersi con un semplice «rifiuto», con il rifiuto di singoli individui, di gruppi o di «folle» occasionali. Noi riteniamo che la guerra deve finire e finirà con la rivoluzione in una serie di paesi, cioè con la conquista del potere dello Stato da parte di una classe nuova…[6]

I rivoluzionari internazionalisti non possono gridare “tutti a casa!” mentre le autorità militari e civili dello Stato borghese rispondono con il carcere o con i plotoni d’esecuzione, con la speranza che, se si è in molti a disertare, qualcuno la scamperà. Sarebbe sciocco ed irresponsabile. Tornarsene a casa, in pochi, in molti o persino – assai inverosimilmente – “tutti”, lasciando inalterate le cause della catastrofe bellica? Fingendo poi che nulla sia successo nell’intervallo tra un carnaio imperialistico e quello successivo? Ammesso che una “casa” esista ancora… ammesso che una “casa” sia ancora possibile

I militanti internazionalisti non possono fare leva sulla paura di morire, perché anche la lotta rivoluzionaria comporta tale rischio, e, se non lo si affronta quando è necessario, nulla mai potrà cambiare, mai si potrà costruire un mondo nel quale si dissolva tra le “anticaglie della storia” il rischio di essere uccisi in conflitti tra esseri della stessa specie. Piuttosto, devono fare leva sul rifiuto di morire di una morte priva di senso, sul rifiuto di mettere a rischio la propria esistenza per interessi estranei a quelli della propria classe, finalmente riconosciuti come i propri.

Il militante rivoluzionario non può essere quindi colui che diserta la condizione complessiva della propria classe «ingannata» ma colui che la condivide anche sotto le armi, anche nella divisa che gli affibbia la classe dominante, imparando a maneggiare con efficienza le armi e nello stesso tempo lavorando quotidianamente, prudentemente e tenacemente per assumere, quando le condizioni siano mature, il ruolo di catalizzatore politico e organizzativo dell’inevitabile conflitto tra gli interessi di classe del proletariato mobilitato e la disciplina legata agli obiettivi reazionari dell’esercito borghese; per suscitare nella classe operaia intrappolata nella guerra imperialista non il coraggio di “spezzare i fucili” ma quello di usarli contro altri obiettivi, di combattere per non dover combattere più:

Bisogna far cambiar parere ai piccoli borghesi ingannati, spiegar loro l’inganno; talvolta andando con loro alla guerra, bisogna saper aspettare che l’esperienza della guerra cambi loro la testa. […] Che il «popolo», cioè la massa dei piccoli borghesi e una parte degli operai ingannati creda alla favola borghese della «perfidia» del nemico, è fuor di dubbio. Ma il compito della socialdemocrazia è di lottare contro l’inganno, e non di alimentarlo.[7] [grassetti redazionali]

La lotta internazionalista contro la guerra ma nella guerra non ha nulla a che spartire con l’interventismo democratico pseudo-rivoluzionario, che attribuisce arbitrariamente un carattere “progressivo” alla guerra imperialista e che pretende di dare al proprio appoggio politico alla guerra ed alla propria piena e convinta subordinazione agli Stati maggiori borghesi – ed ai loro obiettivi politici, economici e militari – una verniciatura “sovversiva”.

La tattica bolscevica si distanzia però anche dal tatticismo codista, il quale, regolarmente sopraffatto dal timore dell’inaggirabile isolamento iniziale, opera più o meno consapevolmente un adeguamento politico al momentaneo umore preponderante tra le masse – o, peggio ancora, alla predominante narrazione mediatica borghese – e, invece di «lottare contro l’inganno» lo “alimenta” elaborando presunte “condizioni” che giustifichino un’adesione illusoriamente “indipendente” alla guerra borghese da parte del proletariato.

Paradossalmente fu proprio il trotskista Alfred Rosmer a delineare nitidamente l’attitudine – ormai moneta corrente presso gli attuali epigoni del trotskismo – a sostenere “criticamente” determinate guerre borghesi, magari attribuendo loro un inesistente carattere democratico-nazionale:

I fatti hanno mostrato che è un’illusione assoluta credere di potere, entrando nella guerra con fini diversi da quelli dei rapaci imperialisti – con l’idea di lottare contro il militarismo, per la difesa della democrazia – purificarla, eliminare la sua tara originaria, imprimerle un altro carattere…[8]

“Entrare” nella guerra imperialista indicando come nemico immediato della classe operaia del proprio paese lo stesso nemico nazionale della borghesia del proprio paese, anche se per «fini diversi», “criticamente” o “condizionatamente”, significa di fatto aderire esattamente al carattere ed ai fini della mobilitazione bellica condotta dallo Stato. Quel carattere e quei fini che la classe dominante, finché rimane tale, è la sola a poter determinare.

Non è un caso se, ad esempio, il trotskismo americano tenne un atteggiamento ambiguo durante la Seconda guerra mondiale, motivando il proprio «non appoggio» (invece che la propria opposizione) alla “guerra contro l’hitlerismo” esclusivamente con la sfiducia nella sincerità delle intenzioni e nella capacità della borghesia americana di condurre e vincere quella stessa guerra. Più di recente abbiamo assistito al tracollo politico del trotskismo di fronte alla guerra imperialista russo-ucraina scoppiata nel 2022. Le organizzazioni ed i gruppi trotskisti si sono desolantemente divisi tra sostenitori della lotta di liberazione ucraina «senza appoggiare lo Stato ucraino» (ovvero l’adesione pratica alla guerra voluta e condotta dallo Stato borghese ucraino unita alla dissociazione platonica da quello stesso Stato) e sostenitori della «lotta antimperialista della Russia contro la NATO».

Siamo evidentemente in presenza di quelle «frasi rrrivoluzionarissime» ma prive di contenuto e di quei “piani” per «giocare d’astuzia con la storia» severamente cassati da Lenin, che, al contrario, risultano sempre immancabilmente «giocati» dalla storia e che non possono fare altro che confondere il proletariato a tutto beneficio della classe dominante.

Lenin insiste sul fatto che sottomettersi materialmente a rapporti di forza sfavorevoli o al momentaneo umore prevalente tra le masse, condizionato dall’ideologia borghese, non significa escogitare “tatticamente” un modo per poterli accettare anche politicamente. La chiarezza non è merce di scambio, è un elemento fondamentale del rapporto tra lotta di classe e partito rivoluzionario:

Che cosa dovevano dunque fare i socialisti belgi? Se non potevano compiere la rivoluzione sociale insieme coi socialisti francesi, ecc., dovevano in quel momento sottomettersi alla maggioranza della nazione, e andare in guerra. Ma, pur sottomettendosi alla volontà della classe degli schiavisti, dovevano far ricadere su di essa la responsabilità, non votare i crediti, non mandare Vandervelde in viaggi ministeriali dagli sfruttatori, ma mandarlo (con i socialdemocratici rivoluzionari di tutti i paesi) fra gli organizzatori della propaganda rivoluzionaria illegale della «rivoluzione socialista» e della guerra civile; bisognava portare avanti questo lavoro anche nell’esercito (l’esperienza ha dimostrato che la «fraternizzazione» degli operai-soldati è possibile perfino nelle trincee degli eserciti belligeranti!). Chiacchierare di dialettica e di marxismo ed essere incapaci di abbinare l’indispensabile subordinazione (se è temporaneamente indispensabile) alla maggioranza col lavoro rivoluzionario in tutte le circostanze, vuol dire deridere gli operai, farsi beffe del socialismo.[9] [grassetti redazionali]

Parlando di «sottomissione alla maggioranza della nazione» Lenin non assume una posizione democraticista sottendendo ad una qualche “libera decisione” di entrare in guerra presa dalla maggioranza della popolazione dello Stato. Che si tratti di un colpo di mano governativo o di un plebiscito di massa, che si esplichi per mezzo della coercizione oppure del “consenso”, quella che si impone con una dichiarazione di guerra è sempre la violenza della società borghese che si esprime nell’incapacità della classe operaia nel suo complesso di resistere ed opporsi alla «volontà della classe degli schiavisti». Così come i militanti rivoluzionari devono sottomettersi alle condizioni imposte dal padrone di una fabbrica in seguito alla sconfitta di uno sciopero, se vogliono ricostruire e preservare le forze per l’offensiva successiva, così devono sottomettersi al fatto compiuto, al dato materiale della guerra, imposto dai rapporti di forza sfavorevoli, senza accettarli come definitivi, senza rassegnarvisi, senza recedere di un millimetro dall’opposizione inconciliabile alla guerra stessa, nelle forme imposte dalle circostanze e dalle necessità del momento, indicando alla classe di cui condividono esperienze e sofferenze la via d’uscita rivoluzionaria e affermando: «La guerra è imperialista, reazionaria, non potevamo impedirla ma continuiamo a lottare contro di essa, insieme alla nostra classe nelle fabbriche come al fronte, senza fermarci di fronte all’eventualità della sconfitta militare, anzi contribuendovi di fatto ed approfittandone per trasformare la guerra in guerra civile contro la borghesia del nostro paese, e per scatenare una rivoluzione internazionale che possa farla cessare su tutti i fronti».

Continua…


NOTE

[1] Lenin, La situazione e i compiti dell’Internazionale socialista, 1° novembre 1914, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 21, p. 31.

[2] Lenin, I compiti degli zimmerwaldiani di sinistra nel partito socialdemocratico svizzero, novembre 1916, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 23, p. 136.

[3] Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, 22 gennaio 1917, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 23, pp. 246-247.

[4] Lenin, Appunti sui compiti della nostra delegazione alla Conferenza Internazionale dell’Aja, 4 dicembre 1922, in L’Internazionale Comunista, Editori Riuniti, Roma, 1972, pp. 365-367.

[*] Nota aggiuntiva a cura dei redattori del sito per i “lettori perspicaci” che dovessero contestare questa affermazione citando il tragico caso di Gaza: quando si è in presenza di popolazioni civili che cercano di fuggire ad un massacro indiscriminato non siamo tecnicamente in presenza di una “diserzione”, dunque impiegare questo termine ha il solo scopo di soddisfare la discutibile esigenza personale di lanciare parole d’ordine altisonanti quanto prive di significato.

[5] La diserzione è in effetti spesso soltanto “provvisoria”, il prolungamento arbitrario di un permesso o il prendere permesso senza autorizzazione. Un fenomeno che in una certa misura può essere tollerato dai comandi e che può anzi costituire un meccanismo di compensazione non ufficiale per allentare la pressione sui soldati e mantenere la truppa in grado di combattere. Cfr. A. Loez, 14-18. Les refus de la guerre. Une histoire des mutins, Gallimard, 2010, pp. 211-214.

[6] Lenin, Il significato della fraternizzazione, maggio 1917, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 24, p. 329.

[7] Lenin, I sofismi dei socialsciovinisti, 1° maggio 1915, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 21, pp. 163-164.

[8] A. Rosmer, Il movimento operaio alle porte della Prima guerra mondiale, Jaca Book, Milano, 1979, p. 481.

[9] Lenin, I Südekum russi, 1° febbraio 1915, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 21, pp. 107-108.

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