«RIFLETTERE SULLE COSE COSÌ COME STANNO»

PER IL «LETTORE PERSPICACE» – «Genesi e struttura» della tattica leniniana del disfattismo rivoluzionarioXII

Conclusioni della postfazione al testo di Roman Rosdolsky – STUDI SULLA TATTICA RIVOLUZIONARIA, Movimento Reale, Roma, giugno 2025, pubblicata anche in opuscolo.


Troppo spesso, di fronte ad un orizzonte storico come quello attuale, che vede progressivamente accumularsi le nubi di una non lontana tempesta mondiale dell’ordine imperialista, presso ambienti che si definiscono internazionalisti è d’uso invocare la formula del disfattismo rivoluzionario con estrema superficialità, senza averne approfondito la genesi e la struttura, per riprendere il lessico di Roman Rosdolsky, e per amore del suono più o meno eversivo o sulfureo di certe parole.

D’altro canto, non mancheranno di tornare a spuntare come funghi, nell’umidità delle tempeste imperialistiche che si avvicinano, tesi «rrrivoluzionarissime» che, al contrario – in nome di un tatticismo che si compiace della propria presunta “abilità” ma che rivela l’esigenza opportunista di escogitare parole d’ordine che preservino dal temutissimo “isolamento” – rifiuteranno il disfattismo rivoluzionario, derubricandolo a mito privo di contenuto e d’utilità.

Crediamo di aver contribuito a dimostrare che il mito non è il disfattismo rivoluzionario in sé ma la sua ipostatizzazione.

È Amadeo Bordiga, nel 1923, a sciogliere in maniera illuminante qualsiasi perplessità a questo riguardo:

…il disfattismo dei bolscevichi russi, impeccabile dal punto di vista teoretico, una volta spazzato via dal pensiero socialista il principio della difesa della patria ed anche quello (sua parodia) del «dovere di non sabotare la guerra», è giustificato nella pratica dagli sviluppi reali che, dalla disfatta dell’esercito zarista, fecero uscire il trionfo della Rivoluzione in Russia.

Negato il principio della «difesa nazionale» il pensiero e il metodo rivoluzionario comunista vi contrappongono non il principio del disfattismo, ma quello dell’impiego delle forze reali politiche a determinare la guerra di classe e la rivoluzione proletaria.

Il disfattismo dunque non è un principio, ma un mezzo, uno dei mezzi, coi quali si può far svolgere rivoluzionariamente la situazione creata dalla guerra. Mezzo che può non essere sempre utilmente applicabile, poniamo per la poca forza del partito proletario del dato paese, o perché ve ne sia uno migliore.[1]

Oltre a non rappresentare un principio, aggiungiamo, la tattica del disfattismo rivoluzionario non può diventare un mero slogan che rimpiazzi l’analisi della natura imperialistica delle guerre e non può essere confuso con la consegna strategica della trasformazione di queste guerre in guerre civili per il socialismo, in rivoluzioni proletarie.

In presenza di una guerra imperialista – e quanto poco sia scontato saperne riconoscere i tratti lo ha dimostrato la débâcle di molteplici organizzazioni “internazionaliste” di fronte alla guerra russo-ucraina – appare particolarmente “radicale” replicare con un riposante automatismo: «disfattismo!», quando una corretta impostazione marxista dovrebbe portare a domandarsi: per mezzo di quale tattica questa specifica guerra imperialista (non sono tutte uguali) può essere trasformata in guerra civile rivoluzionaria? Esistono le condizioni per il disfattismo? Siamo in presenza di una guerra localizzata o generalizzata? È in corso una mobilitazione di massa o si combatte con eserciti professionali? La guerra è di posizione o di movimento? Si sono verificate “vittorie napoleoniche”? Si stanno realizzando occupazioni imperialistiche di medio-lungo periodo? Esiste un movimento operaio organizzato dietro almeno uno dei fronti belligeranti? ecc., ecc.

Si tratta generalmente di domande che presuppongono la volontà di compiere uno sforzo di analisi del reale, senza deviare verso la facile ma cieca scorciatoia dello schema come unica risposta al tradimento di coloro i quali, nel caso in cui risultino assenti le condizioni per il disfattismo rivoluzionario, si ritengono legittimati nella loro adesione camuffata ad un campo imperialistico.

Se nel corso di una battaglia, in base alla dislocazione attuale o presunta del nemico, può risultare vantaggioso raggiungere una determinata posizione, nella misura in cui il nemico si sposta, raggiungere quella determinata posizione in ossequio ai dettami di un “manuale di tattica”, che non può e non potrà mai prevedere ogni singola eventualità, può rivelarsi inutile, se non addirittura controproducente e dannoso. La sola utilità dello schema, sia dal punto di vista militare come di quello della lotta rivoluzionaria, è di consentire a chi lo adotta di non assumersi il rischio di incorrere nell’errore con la conseguenza di incorrervi immancabilmente.

Non è possibile evitare gli errori, ma il solo modo per diminuirli, ridurne la portata ed essere in grado di comprenderli e correggerli rapidamente è nella formazione marxista di quadri rivoluzionari abituati a ragionare dialetticamente, ad impiegare costantemente il metodo materialista nell’analisi della realtà sociale.

Un impegno che assai di frequente difetta presso quei «lettori perspicaci» che, come scrive Lenin «hanno imparato a memoria una parolina, hanno in mano una bandierina rivoluzionaria», ma non sanno «riflettere sulle cose così come stanno».

È riflettendo sulle “cose così come stavano”, nel 1914, agli esordi dell’epoca imperialista, che Lenin, con in mente gli esempi della guerra franco-prussiana del 1870-71 e di quella russo-giapponese del 1904-05, elabora quel concetto di “disfatta” che sottende alla sua proposta tattica: un “indebolimento” della nazione che sta perdendo la guerra che non coincide con la distruzione delle sue istituzioni statali, con l’occupazione[2]. Ciò non invalida, ma rende più difficoltosa l’applicazione della tattica del disfattismo rivoluzionario in guerre che non abbiano le peculiari caratteristiche del conflitto del 1914-18, limitando la sua operatività ad una ristretta finestra temporale che le minoranze rivoluzionarie organizzate – se esistenti e in grado di agire – devono saper valutare con estrema attenzione. Se la disfatta si verifica prima della rivoluzione, e con essa l’occupazione, la tattica disfattista è di fatto superata dagli eventi. Permane il compito di trasformare la guerra e l’occupazione imperialista in rivoluzione socialista, contro lo Stato edificato dalla borghesia occupante e contro la borghesia nazionale.

È riflettendo sulle “cose così come stavano”, tenendo conto delle differenze di contesto tra la Russia arretrata e l’Europa matura per il socialismo, che Lenin cerca di unificare la tattica rivoluzionaria del proletariato russo con quella del proletariato internazionale durante una guerra imperialistica mondiale. Proprio in questo risiedeva gran parte della difficoltà che egli dovette affrontare ed il merito di averla risolta a beneficio del proletariato di tutti i paesi belligeranti.

È riflettendo sulle “cose così come stavano” che Lenin giunge alla conclusione che la scissione dai socialsciovinisti, in Russia come in ogni altro paese, è condizione imprescindibile per il movimento rivoluzionario internazionalista. L’ammissibilità della sconfitta della “patria” rappresenta infatti la prova del nove, la linea di demarcazione tra i parolai, i timidi e i rivoluzionari. Dove c’è tentennamento su questo punto c’è un conciliatorismo che fa il gioco del socialimperialismo e che deve essere combattuto senza esitazioni.

Alla radice della riflessione politica di Lenin c’è la sua concezione dell’imperialismo, una concezione che, per dirla con Lukàcs, ha

…il carattere apparentemente paradossale di essere una importante operazione teorica, senza per altro contenere molto di realmente nuovo se considerata come teoria puramente economica.

L’opportunismo di “sinistra”, che dopo più di un secolo di senescenza imperialistica non possiede più nulla di innocentemente “infantile”, può continuare a storcere sprezzantemente il naso e a bofonchiare rabbiosamente contro la presunta “povertà teorica” della concezione leniniana dell’imperialismo, ostinandosi a presentarla – con un miscuglio di incomprensione e di dolo – esclusivamente dal punto di vista puramente, unilateralmente, feticisticamente, “economico”.

La superiorità di Lenin sta nel fatto di essere riuscito – e questa è un’impresa teorica senza paragone – a collegare concretamente e organicamente la teoria economica dell’imperialismo con tutte le questioni politiche contemporanee; a fare della struttura economica della nuova fase un filo conduttore per l’insieme delle azioni pratiche in un orizzonte così decisivo.[3]

Come aggiunge Rosdolsky, parafrasando l’undicesima Tesi su Feuerbach di Marx:

Ciò che è peculiare di Lenin – e di lui soltanto – è l’incessante accuratezza con la quale ha trasposto le lezioni risultanti dall’analisi delle forze motrici della Prima guerra mondiale nella politica pratica, al fine non solo di “criticare” il mondo borghese sprofondato nel terribile massacro della guerra, ma anche per “trasformarlo”. E in questo ambito egli non ebbe certamente eguali.[4]

Non possiamo che convenire con Rosdolsky. In questo senso, la ricostruzione del processo di elaborazione della tattica del disfattismo rivoluzionario da parte di Lenin può rappresentare un valido insegnamento, una lezione di metodo, un esempio del non facile lavoro di studio della realtà capitalistica, di analisi della dinamica dell’imperialismo e delle sue contraddizioni, della loro traduzione in prassi politica di cui le minoranze coscienti della classe rivoluzionaria dovranno sempre assumersi l’onere se vogliono assolvere al proprio ruolo. Victor Serge ci ricorda che la «ragione di vivere» dei rivoluzionari è «vincere». Vincere insieme alla classe al cui obiettivo storico si è scelto consapevolmente di legare la propria esistenza individuale, vincere nella condivisione di un vincolo militante in cui si fonde e si confonde la propria individualità, realizzare il programma rivoluzionario del proletariato. La tattica è uno strumento per vincere. Nel riconoscimento di questo assunto sta la differenza tra chi si prefigge di raggiungere un obiettivo e chi invece persegue il proprio individualistico compiacimento nel solo ostentare di volerlo raggiungere, senza credere fino in fondo nella sua possibilità, e forse persino temendo in qualche misura questa stessa possibilità.


NOTE

[1] A. Bordiga, Comunismo e guerra, gennaio 1923, A. Bordiga, Scritti 1911-1926, Fondazione Amadeo Bordiga, Formia, 2019, vol. VIII, p. 62.

[2] Non affrontiamo in questa sede la specifica e complessa tematica della guerra atomica e delle sue possibili implicazioni.

[3] G. Lukàcs, Lenin, 1924, Einaudi, Torino, 1970, p. 50.

[4] R. Rosdolsky, La politica di pace dei bolscevichi prima della rivoluzione del novembre 1917, in R. Rosdolsky, Studi sulla tattica rivoluzionaria, Movimento Reale, Roma, maggio 2025, p. 35.

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