
Dalla postfazione all’antologia Bagliori nella notte. La Seconda guerra mondiale e gli internazionalisti del «Terzo Fronte», Movimento Reale, luglio 2023.
II
Proprietà. Proprietà. Tutto per la proprietà. Perché era questo, tutto qui. La proprietà di un uomo, o di un altro. Di una nazione, o di un’altra. Tutto si era fatto e si stava facendo per la proprietà. Una nazione voleva nuove proprietà, sentiva di averne bisogno, probabilmente ne aveva bisogno sul serio; e l’unico sistema per ottenerle era di portarle via a quelle altre nazioni che già le avevano rivendicate. Non c’era più un angolo del pianeta che non fosse reclamato da qualcuno, ecco tutto. Welsh lo trovava immensamente divertente. Proprietà, borbottava tra sé troppo piano perché qualcuno potesse udirlo; tutto per la proprietà.
James Jones, La sottile linea rossa, 1962
Storicamente, il marxismo non ha mai sostenuto rivendicazioni di carattere nazionale in nome di un principio astratto e metastorico ma solo ed esclusivamente in virtù del contenuto concreto che queste rivendicazioni rivestivano. A seconda delle circostanze, il marxismo ha ritenuto necessario sostenere sia la rivendicazione del diritto all’autodeterminazione che l’affermazione della sovranità nazionale.[1]
In entrambi i casi, il solo criterio che guidava e che guida ancora la scelta da parte dei marxisti non risiede nell’assunzione dei princìpi giuridico-politici borghesi ma nella valutazione del concreto e storico interesse della classe operaia internazionale alla rimozione di tutti quegli ostacoli, materiali ed ideologici, che le impediscono la presa di coscienza del fondamentale conflitto che nella società capitalistica la vede inconciliabilmente contrapposta al capitale internazionale e ai suoi Stati.
Nel caso specifico della rivendicazione del diritto all’autodeterminazione, i motivi del suo riconoscimento da parte del marxismo sono essenzialmente due:
- il suo eventuale carattere storicamente progressivo, ovvero la creazione delle condizioni necessarie allo sviluppo dell’industria capitalistica e alla formazione delle classi moderne che questo sviluppo reca con sé;
- la denuncia di qualsiasi forma di oppressione e la lotta contro i pregiudizi nazionalistici all’interno della classe operaia.
Il primo di questi motivi di riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, del quale ci occuperemo in questa sezione, si accompagnava all’indicazione marxista della partecipazione del proletariato alle lotte rivoluzionarie delle borghesie nazionali.
Con il procedere della maturazione imperialistica del capitalismo e dell’allargamento del mercato mondiale, nei paesi arretrati sono andate generandosi in misura crescente le medesime contraddizioni dei paesi industrialmente più progrediti.
Laddove in passato la borghesia dei paesi coloniali o delle nazionalità oppresse si è rivelata abbastanza forte da intraprendere una lotta conseguente contro gli oppressori imperialisti, questa forza le derivava dallo stesso sviluppo capitalistico che aveva prodotto anche la sua nemesi storica: il proletariato. Il rapido emergere del proletariato come soggetto sociale e politico, da un lato ha spinto sempre più le borghesie nazionali di questi paesi al sostanziale abbandono di qualsiasi coerente obiettivo nazional-rivoluzionario nonché al compromesso con gli oppressori imperialisti e, dall’altro, ha posto lo stesso proletariato di fronte alla possibilità di assumere un ruolo non più da comprimario ma da protagonista in un processo di rivoluzione in permanenza che trascendesse i limiti nazionalistici della rivoluzione democratico-borghese.
Per le borghesie la prosecuzione della lotta di liberazione nazionale diveniva subordinata alla condizione che l’indispensabile partecipazione delle masse proletarie a questa lotta avvenisse nella sostanziale assenza di qualsiasi indipendenza di classe.
Non è un caso se nel XX secolo, quando nel corso delle lotte di liberazione nazionale tale condizione è venuta meno, laddove il proletariato non era tanto debole da farsi collocare in posizione subordinata dalla propria borghesia – come, ad esempio, nella spesso citata Cina del 1925-‘27 –, le sue avanguardie siano state massacrate da quest’ultima non appena hanno avanzato autonome rivendicazioni di classe e piattaforme politiche proprie. Le conseguenze di questa dinamica si sono riflesse in processi di indipendenza contraddittori che hanno richiesto tempi assai più lunghi per realizzarsi, non sempre in forme compiute e con pesanti ipoteche sullo sviluppo politico ed economico. Tuttavia, per quanto l’obiettivo della rivoluzione proletaria in permanenza fosse storicamente all’ordine del giorno in queste aree, il proletariato internazionale, nonostante la sconfitta di questi suoi reparti locali nella lotta contro le proprie borghesie nazionali corrotte e titubanti, poteva comunque oggettivamente avvantaggiarsi, come ricaduta, anche dei risultati “monchi” di lotte di liberazione che, quantomeno, si muovevano nella direzione dell’unificazione di mercati nazionali e che in qualche misura acceleravano lo sviluppo delle forze produttive in queste aree.
L’attuale situazione del capitalismo mondiale, accelerata dalle passate lotte anticoloniali per l’indipendenza nazionale, vede le specifiche caratteristiche dell’imperialismo permeare ancor più che in precedenza l’intero tessuto economico e sociale del pianeta; vede l’imperialismo trascinare prepotentemente nella propria dinamica, oltre alle potenze mature – declinanti o emergenti – e alle medie potenze regionali, anche i paesi capitalistici più deboli e le residuali aree capitalisticamente arretrate[2], indipendenti o meno che siano.
Oggi, le sacche di oppressione nazionale diretta ancora esistenti nel mondo sono perlopiù confinate nelle zone di faglia dell’imperialismo, dove le sfere di influenza delle varie potenze imperialistiche entrano in attrito. Questo pluridecennale – se non secolare – attrito tra opposti contendenti, senza il netto prevalere dell’uno sull’altro, ha mantenuto queste aree nell’arretratezza capitalistica trasformandole in “zone morte” dell’imperialismo, con un’economia ancora prevalentemente agricola e mercantile strettamente dipendente dalle esigenze dei paesi oppressori. La piccola e media borghesia delle nazionalità oppresse di queste aree ha poche possibilità e ancor meno interesse a reinvestire nell’economia della regione il capitale accumulato con i suoi traffici e la sua estrema debolezza la porta generalmente a vendersi al migliore offerente, che si tratti del paese direttamente oppressore, delle potenze regionali avversarie di quest’ultimo o delle potenze mondiali interessate all’area. Molto difficilmente in circostanze simili può svilupparsi una borghesia rivoluzionaria forte abbastanza da condurre una lotta di liberazione nazionale autonomamente dal gioco delle potenze che hanno interessi nella regione o quantomeno con la forza necessaria a destreggiarsi fra i contrasti tra le potenze contendenti, utilizzandoli a proprio vantaggio.
La strumentalizzazione imperialistica delle lotte di indipendenza esiste da quando esiste l’imperialismo, tuttavia, finché le borghesie nazionali dei paesi oppressi hanno conservato una sufficiente vitalità storica, quello delle potenze contrapposte rappresentava un eventuale appoggio esterno, che poteva solo accelerare o ritardare autonomi processi interni, mentre attualmente è l’imperialismo stesso a suscitare movimenti “nazionali” che non possiedono nessuna forza autonoma, a farli sorgere e perire o a lasciarli “vegetare” esclusivamente in base ai propri interessi e calcoli di potenza.
Oggi, nelle nazionalità oppresse delle aree capitalisticamente arretrate, il proletariato, l’unica classe potenzialmente capace di assumere la direzione di un’autentica rivoluzione contro l’oppressione nazionale imperialistica, è purtroppo una realtà dispersa e marginale all’interno di un tessuto economico composto prevalentemente di piccolissime e piccole proprietà agricole, aziende commerciali atomizzate o attività terziarie strettamente correlate alla dominazione imperialistica. Questa marginalità rende la classe operaia preda di una borghesia nazionale corrotta, che mantiene il proprio dominio sugli altri strati sociali nella misura in cui è in grado di mobilitarli strumentalmente sul terreno di un fanatismo nazionalista inconcludente, e grazie ai favori delle potenze a cui di volta in volta vende l’usufrutto di questa sua capacità di mobilitazione.
Questa constatazione rappresenta l’esatto contrario di un’apologia dell’imperialismo ed in nessun modo nega il passato ruolo svolto dalle lotte anticoloniali, si limita piuttosto a spiegare questo stesso ruolo. Tali lotte hanno avuto luogo nella misura in cui, all’interno delle precedenti forme coloniali, l’imperialismo aveva loro fornito delle basi materiali: lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici nelle aree arretrate, l’industrializzazione. Le lotte anticoloniali hanno dunque trasformato le forme di una medesima sostanza. Pur colpendo e indebolendo singole potenze dell’imperialismo, esse alimentavano e tendevano ad “arricchire” di nuovi attori e risorse l’imperialismo nel suo complesso, creando nuovi spazi e iniettando nuova linfa al capitalismo. Erano la manifestazione di un pieno dispiegarsi dell’imperialismo e quindi, oggettivamente, non potevano rappresentare alcunché di antimperialistico, se non nella misura in cui potevano essere inserite in un quadro di lotte a livello internazionale che vedesse tra i propri soggetti una rivoluzione comunista vittoriosa in uno o più paesi capitalisticamente maturi[3].
I marxisti non hanno mai ritenuto che la maturazione imperialistica del capitalismo avesse un contenuto progressivo, dal momento che non faceva che moltiplicare le distruttive contraddizioni del capitalismo senza aggiungere qualitativamente elementi decisivi per il suo superamento: la rivoluzione proletaria nei paesi capitalisticamente avanzati sarebbe stata sufficiente a liberare in questi ultimi i rapporti sociali comunistici e a permettere di impiantare le più moderne forze produttive socializzate nelle aree arretrate del resto del mondo, integrando rapidamente queste ultime in un’economia socialista mondiale.
Man mano che, con il procedere della fase avanzata dell’accumulazione capitalistica, l’imperialismo è andato affermandosi, i marxisti hanno accettato il dato oggettivo dello sviluppo quantitativo delle forze produttive a livello mondiale, dell’aumento su scala mondiale delle “sostanze infiammabili” della rivoluzione proletaria, appoggiando quelle lotte che, sorgendo da questo stesso processo, mentre lo acceleravano liberandolo dagli ostacoli locali – rappresentati dai residui feudali – e da quelli generali – rappresentati dalle vecchie forme coloniali –, schiudevano per il proletariato emergente delle aree in sviluppo la possibilità di rafforzarsi e di porsi in diretto collegamento con i movimenti rivoluzionari della classe operaia nelle metropoli dell’imperialismo, in una dinamica di rivoluzione in permanenza.
Attualmente, per i marxisti, nelle residuali aree arretrate del mondo non sussistono forze borghesi capaci di svolgere un ruolo progressivo in tal senso e che il proletariato di queste regioni possa appoggiare. Nell’ambito dell’avvenuta spartizione del mondo, i paesi capitalistici meno sviluppati non possono ambire a passare da una condizione di dominio ad una di “libertà”: né dominati né dominanti. Possono tuttalpiù cadere da una posizione dominante ad una dominata; oppure possono passare dalla condizione di dominio sotto un padrone a quella di un eguale dominio sotto un padrone diverso, cambiando sfera d’influenza; o diventare medie e grandi potenze libere soltanto di dominarne altre. Traguardi reazionari dal sostegno dei quali la classe operaia non ha nulla da guadagnare.
Per quanto assurdo, accusare i marxisti di fare l’apologia dell’imperialismo avrebbe avuto più senso quando appoggiavano le lotte anticoloniali di quanto non lo abbia farlo quando si rimprovera loro di non riconoscerne l’esistenza oggi. Ieri l’appoggio a quelle lotte era nell’interesse della classe operaia mondiale, per quanto potesse costituire in ultima istanza un vantaggio anche per l’imperialismo come totalità, e malgrado le singole potenze, nell’immediato, vi si opponessero; oggi, chi vuole spingere il proletariato a schierarsi sotto le insegne delle lotte anticoloniali, delle lotte di liberazione, delle resistenze nazionali, vuole subordinarlo a borghesie che, impotenti, prive di qualsiasi margine di autonomia, completamente afferrate dallo scontro interimperialistico, non possono svolgere nessun ruolo progressivo e quindi, di fatto, si rende complice delle stesse potenze dell’imperialismo che strumentalizzano queste lotte.
Data l’attuale configurazione del mercato mondiale è estremamente difficile negare il fatto che ogni guerra sia oggi pienamente inserita nella dinamica dell’imperialismo, quale che sia il livello di sviluppo dei singoli contendenti in campo. Non è dunque plausibile che si profilino oggi guerre antimperialiste, anche perché, come abbiamo accennato in precedenza, a rigor di termini neanche le rivoluzioni nazionali democratico-borghesi che non trascendessero questa natura potevano essere oggettivamente guerre antimperialiste, se non in combinazione con le lotte di uno o più reparti vittoriosi del proletariato mondiale.
A rigor di termini, risulta altresì evidente che l’unica guerra essenzialmente, completamente, totalmente antimperialista è la rivoluzione proletaria.
NOTE
[1] Si vedano a questo proposito le analisi di Marx ed Engels sulla Germania, la Polonia o l’Ungheria del 1848-’49, nel loro rapporto con l’Austria e la Russia e con le piccole nazionalità storicamente subordinate a questi due imperi.
[2] Non ci riferiamo ai residui di modi di produzione precapitalistici o alla produzione per l’autoconsumo, realtà ormai marginali al punto da potersi ritenere del tutto trascurabili.
[3] Uno dei perni della strategia bolscevica fu il sostegno alle lotte dei popoli d’Oriente (rese possibili proprio dalle dinamiche dell’imperialismo in queste aree) come azione contraria e contrastante l’accerchiamento imperialista di una Russia ancora rivoluzionaria. Un esempio di esito antimperialista di lotte determinate e alimentate dall’imperialismo.
