LA QUESTIONE NAZIONALE E COLONIALE NEI PRIMI ANNI DELL’INTERNAZIONALE COMUNISTA

LA MATURAZIONE IMPERIALISTICA DEL CAPITALISMO E I COMPITI DELL’INTERNAZIONALISMO PROLETARIO – III

Manifestazione operaia a Shanghai, 1920

Seconda parte di un articolo pubblicato nel n. 121 di Prospettiva Marxista, gennaio 2025.


Nel primo decennio del ‘900, Lenin, riallacciandosi alle prime previsioni di Marx sul futuro della Cina[1], conservava ancora un notevole ottimismo circa le tendenze “giacobine” della borghesia asiatica ed in particolare cinese:

Putrefatta è la borghesia occidentale che ha già dinanzi a sé il proprio becchino, il proletariato. Ma in Asia c’è ancora una borghesia capace di esprimere una democrazia sincera, combattiva, conseguente, degna compagna dei grandi predicatori e dei grandi uomini della fine del secolo XVIII in Francia.

Il rappresentante principale o il principale appoggio sociale di questa borghesia asiatica, ancora capace di un’opera storicamente progressiva, è il contadino.[2]

Soffermarsi su quell’“ancora”, ripetutamente utilizzato per definire la “progressività” della borghesia asiatica, significa evidenziare il carattere in via di definizione, temporaneo e soggetto a verifiche storiche, della valutazione di Lenin, così come di ogni valutazione realmente materialistica.

Senza aver mai cessato di denunciare il tentativo dei rappresentanti politici della borghesia cinese di dare una mano di vernice “socialista” ad un programma radicale democratico, con il deflagrare del primo conflitto imperialistico mondiale e nell’immediato dopoguerra rivoluzionario, l’iniziale ottimismo di Lenin cominciò a venir meno, consentendogli di riconoscere la debolezza strutturale delle borghesie coloniali e semicoloniali e di intravedere come ormai anche nelle aree arretrate del mondo tali borghesie trovassero «già dinanzi a sé il proprio becchino» proletario. Un becchino che avrebbe potuto trovare nel vasto e vessato strato contadino delle campagne dei paesi arretrati il proprio «principale appoggio sociale».

Un momento di riflessione in tal senso è costituito dal II Congresso dell’Internazionale comunista del 1920, nel corso del quale vennero elaborate le note Tesi sulla questione nazionale e coloniale. In queste Tesi, si affermava esplicitamente che

Il partito comunista, in quanto espressione consapevole della lotta proletaria di classe per scuotere il giogo della borghesia, in conformità al suo compito principale – lottare contro la democrazia borghese e smascherarne le menzogne e le ipocrisie – anche nella questione delle nazionalità non deve portare avanti princìpi astratti e formali; al contrario deve dare, in primo luogo, una giusta valutazione degli ambienti storicamente dati e soprattutto di quelli economici; in secondo luogo separare esplicitamente gli interessi delle classi oppresse, dei lavoratori, degli sfruttati dal concetto generico dei cosiddetti interessi popolari, che significano in realtà interessi della classe dominante; in terzo luogo, distinguere altrettanto nettamente le nazioni oppresse, dipendenti e prive dei loro diritti da quelle oppressive, sfruttatrici e pienamente sovrane […].[3]

In questo brano risaltano diversi passaggi: la caratterizzazione della lotta contro la democrazia borghese come «compito principale» del partito comunista; la necessità di un’analisi materialistica delle questioni nazionali del tutto svincolata dal perseguimento di «princìpi astratti e formali»; la demistificazione dei «cosiddetti interessi popolari» che occultano gli inconciliabili contrasti tra le opposte classi sociali e la necessità del riconoscimento da parte dei comunisti dell’esistenza di eventuali condizioni di oppressione nazionale.

Con maggiore chiarezza, il documento prosegue affermando che

…tutta la politica dell’Internazionale comunista nella questione nazionale e coloniale deve assumere come base principalmente l’unione dei proletari e di tutte le masse lavoratrici di ogni nazione e paese in una comune lotta rivoluzionaria per abbattere i proprietari fondiari e la borghesia. Soltanto una tale unione, infatti, assicurerà la vittoria sul capitalismo, senza la quale non è possibile eliminare la oppressione e la disuguaglianza nazionale.[4]

L’ultimo passaggio evidenzia chiaramente come la definitiva risoluzione delle questioni nazionali e coloniali non potesse prescindere dalla «vittoria sul capitalismo», ottenibile esclusivamente con «l’unione dei proletari e delle masse lavoratrici di ogni nazione e paese».

Le Tesi proseguono elencando una serie di punti riguardanti le nazioni e gli Stati «che conservano un carattere più arretrato» e che assumono particolare rilievo in considerazione degli attuali “campismi” terzomondisti:

– […] Le forme che deve assumere [l’appoggio dei partiti comunisti ai movimenti rivoluzionari di liberazione] debbono essere discusse con il partito comunista [della nazione dipendente], se esso esiste. L’obbligo di fornire un aiuto tangibile e vigoroso spetta in primo luogo agli operai del paese da cui la nazione arretrata dipende, sia sul piano coloniale che su quello finanziario.

– Se è necessario, la lotta deve essere condotta contro le influenze reazionarie e medioevali del clero, delle missioni cristiane e di elementi analoghi.

– È necessario lottare contro il panislamismo e il movimento panasiatico e contro correnti analoghe miranti a legare le lotte per la libertà contro l’imperialismo europeo ed americano con il rafforzamento dell’imperialismo turco e giapponese e del potere della nobiltà, dei grandi proprietari fondiari, del clero e così via. […]

– È necessario lottare con energia contro il tentativo di applicare nei paesi arretrati un’etichetta comunista ai movimenti rivoluzionari di liberazione che tali effettivamente non sono. L’internazionale comunista ha il dovere di appoggiare il movimento rivoluzionario nelle colonie e nei paesi arretrati soltanto allo scopo di raccogliere tutti i componenti dei futuri partiti proletari – quelli effettivamente comunisti e tali non soltanto di nome – in tutti i paesi arretrati e suscitare in loro la consapevolezza dei loro compiti particolari, che consistono nella lotta contro la tendenza democratico-borghese nella propria nazione. L’Internazionale comunista deve favorire un incontro temporaneo o addirittura un’alleanza con il movimento rivoluzionario delle colonie e dei paesi arretrati, ma non può fondersi con esso; al contrario, deve conservare assolutamente il carattere autonomo del movimento proletario, anche se esiste soltanto in forma embrionale.

– È necessario svelare e illustrare incessantemente alle grandi masse dei lavoratori di tutti i paesi, e in particolare di quelli arretrati, l’inganno perpetrato dalle potenze imperialiste, con l’aiuto delle classi privilegiate degli stessi paesi oppressi, che consiste nel creare, sotto l’etichetta di Stati politicamente indipendenti, formazioni statali che di fatto dipendono interamente da loro sul piano economico, finanziario e militare.[5]

Completamente estranea all’Internazionale comunista degli esordi era la sottovalutazione del possibile uso strumentale delle lotte di liberazione nazionale da parte delle potenze mondiali o regionali dell’imperialismo, così come le era estranea qualsiasi apertura di credito o, peggio ancora, l’attribuzione di un qualsivoglia ruolo rivoluzionario a formazioni clericali e confessionali – in quanto tali reazionarie su tutta la linea – operanti nei paesi oppressi. Al contrario, la limpida consegna comunista era quella della lotta contro il panislamismo et similia, e contro la sua influenza sulle masse lavoratrici. Masse tra le quali occorreva raccogliere gli elementi dei futuri partiti proletari in grado di assolvere al compito specifico della lotta contro la democrazia borghese nella propria nazione.

Nelle integrazioni alle precedenti Tesi, redatte su sollecitazione dell’allora comunista indiano Manabendra Nath Roy – a dimostrazione di quanto l’Internazionale comunista fosse un consesso almeno in origine aperto al contributo ed all’elaborazione dei rivoluzionari di ogni paese – veniva sottolineato che

…appoggiare la lotta per abbattere il dominio straniero nelle colonie non significa affatto sostenere le aspirazioni nazionali della borghesia indigena, ma piuttosto spianare al proletariato delle colonie la via per liberare sé stesso.[6]

La lotta nelle colonie iniziava a venir rappresentata come un continuum. Sempre meno si poneva nei termini di una prima tappa in cui le «aspirazioni nazionali della borghesia indigena» potessero essere “sostenute”, e sempre più in quelli di un processo rivoluzionario nel quale la lotta diretta dal proletariato per abbattere il dominio della borghesia straniera si fondeva con la lotta di quello stesso proletariato per «liberare sé stesso» dal dominio della borghesia indigena. Spianare la via significava al tempo stesso percorrerla. Naturalmente, prescindendo da quell’indipendenza politica di classe continuamente invocata dall’Internazionale comunista nei primi anni Venti non avrebbe potuto sussistere alcuna direzione proletaria della lotta, ma soltanto la subordinazione del proletariato agli interessi borghesi, nazionali ed imperialistici.

A due anni dal II Congresso, le Tesi del IV Congresso sulla questione orientale, registrano un

…mutamento della base sociale del movimento rivoluzionario nelle colonie: tale mutamento determina un acutizzarsi della lotta antimperialista, la cui direzione non rimane dunque più esclusivamente nelle mani di elementi feudali e della borghesia nazionale pronti a compromessi con l’imperialismo.[7]

Ciò implicava l’ormai esplicito riconoscimento che nella fase imperialistica del capitalismo

…le classi dominanti dei popoli coloniali e semicoloniali si rivelano inadatte e restie a condurre la lotta contro l’imperialismo in quanto tale lotta assume l’aspetto di movimento rivoluzionario di massa.[8]

E che, al contrario,

…il movimento operaio ha compiuto nel corso di questi ultimi anni, nei paesi arretrati, progressi considerevoli, tanto nel campo sindacale che politico. La formazione di partiti di classe indipendenti in quasi tutti i paesi orientali è un dato di fatto significativo…[9]

La domanda che giocoforza si pone è se, sulla base di questa valutazione e di quello che era allora considerato il contesto internazionale, la direzione proletaria della lotta nelle colonie avrebbe potuto limitarsi a favorire l’insediamento al potere di una borghesia indigena inadatta e restia a condurre la lotta per ottenerlo.

Secondo le Tesi del 1922

I compiti oggettivi della rivoluzione coloniale già infrangono quindi la struttura della democrazia borghese, dato che una decisiva vittoria di questa rivoluzione è inconciliabile col predominio dell’imperialismo nel mondo. Se in un primo tempo l’intellighentsia indigena e l’intellighentsia borghese sono le paladine dei movimenti rivoluzionari coloniali, con l’inserirsi delle masse contadine proletarie e semiproletarie in tali movimenti comincia la defezione degli esponenti della grossa e media borghesia agraria man mano che avanzano in primo piano gli interessi sociali degli strati inferiori della popolazione. Al giovane proletariato coloniale sta dunque ancora di fronte una lunga battaglia nel corso di tutta un’era storica: la battaglia contro lo sfruttamento imperialistico e contro le sue proprie classi dominanti, che tendono a monopolizzare tutti i vantaggi dello sviluppo industriale e culturale, mantenendo le grandi masse lavoratrici nella loro primitiva condizione «preistorica».[10]

Gli stretti legami esistenti tra la borghesia indigena nazionalista e le ibride forme preborghesi di sfruttamento delle masse contadine – generate dalla penetrazione del capitalismo nei precedenti rapporti di produzione e conservate dal dominio politico delle potenze dell’imperialismo – le impedivano di portare avanti con decisione le sole riforme che le avrebbero consentito di radunare una potente base di massa nella lotta contro quelle stesse potenze. D’altra parte, più il proletariato urbano organizzato si fosse mosso in direzione dell’egemonizzazione delle masse contadine povere, con l’inserimento nei propri programmi della rivendicazione dell’abolizione degli oneri che gravano su queste ultime, più avrebbe leso minacciosamente gli interessi della borghesia nazionalista, aumentando la sua renitenza e la sua ostilità[11].

I partiti comunisti dei paesi coloniali e semicoloniali si trovano di fronte a un duplice compito: da una parte combattere per una soluzione quanto più possibile radicale dei problemi di una rivoluzione democratico-borghese, volta alla conquista dell’indipendenza politica; dall’altra organizzare le masse operaie e contadine per la lotta a sostegno dei loro particolari interessi di classe, sfruttando tutti i contrasti in campo nazional-democratico-borghese.[12]

Ma in cosa si traduceva concretamente la lotta del proletariato a sostegno dei propri «particolari interessi di classe»? Esclusivamente nella lotta economica per il miglioramento delle proprie condizioni di vita, lasciando che la guida della lotta politica venisse assunta dalla borghesia nazionalista?

Già nelle Tesi integrative del 1920 veniva sottolineato come

…il compito più importante e urgente è la creazione di organizzazioni comuniste dei contadini e degli operai, per avviarli alla rivoluzione e alla costruzione della repubblica sovietica.[13]

Anche se i compiti che doveva porsi la rivoluzione nei paesi oppressi delle aree arretrate non potevano ovviamente essere quelli dell’immediata trasformazione socialista di un capitalismo non ancora pienamente sviluppato in loco, l’obiettivo era ormai la costruzione della «repubblica sovietica», ovvero la conquista del potere politico da parte del proletariato, analogamente a quanto avvenuto in Russia nell’ottobre 1917.

Le Tesi integrative infatti proseguono specificando che

In un primo tempo, la rivoluzione nelle colonie non sarà una rivoluzione comunista; ma se fin dal principio l’avanguardia comunista si porrà alla testa di essa, le masse rivoluzionarie verranno avviate sulla strada giusta, per la quale, accumulando gradualmente l’esperienza rivoluzionaria, raggiungeranno la meta che si sono prefisse.[14]

La rivoluzione nelle colonie non poteva essere “comunista” nel senso che non poteva immediatamente distruggere i rapporti economici capitalistici, ma alla sua testa doveva porsi fin dall’inizio «l’avanguardia comunista» conferendole dunque l’inequivocabile carattere di una rivoluzione in permanenza.

A conferma dell’assoluta mancanza di arbitrarietà della nostra interpretazione, le Tesi integrative specificavano che

Nel primo stadio del suo sviluppo, la rivoluzione nelle colonie deve essere attuata secondo il programma delle rivendicazioni riformiste di impronta piccolo-borghese che prevede la ripartizione della terra, ecc. Ciò non significa però che nelle colonie la guida possa esser lasciata nelle mani dei democratici borghesi. Al contrario, i partiti proletari debbono svolgere una intensa propaganda delle idee comuniste e, non appena se ne presenti la possibilità, creare consigli operai e contadini. Questi consigli devono operare, così come le repubbliche sovietiche dei paesi capitalistici avanzati, per provocare il crollo definitivo dell’ordine borghese in tutto il mondo.[15]

Dunque, soltanto saldandosi con la rivoluzione comunista nelle metropoli – con le «repubbliche sovietiche dei paesi capitalistici avanzati» –, provocando quindi il «crollo definitivo dell’ordine borghese in tutto il mondo», la rivoluzione in permanenza nelle colonie avrebbe raggiunto la propria meta.

In una congiuntura in cui gli anelli più forti della catena imperialistica mondiale risultavano allentati, uno strattone che avesse spezzato gli anelli più deboli avrebbe potuto rompere l’intera catena. È solamente in questo senso che la rivoluzione in permanenza nei paesi dominati delle aree arretrate poteva assumere un ruolo autenticamente antimperialista.

Ad ogni modo, non è possibile comprendere appieno la strategia dei rivoluzionari comunisti per il mondo coloniale e semicoloniale senza inserirla nel clima di quella che allora venne erroneamente percepita come una crisi irreversibile del capitalismo e senza tener conto, all’interno di questo quadro, del ruolo prospettato per quello che al momento conservava ancora i caratteri di uno Stato proletario. Il sistema capitalistico mondiale, indebolito dalla crisi – della quale si dovettero però in seguito postulare “stabilizzazioni relative” – era destinato in quell’ottica al “crollo” definitivo grazie alla breccia considerata non risanabile della Rivoluzione russa del 1917.

Prima della metà degli anni Venti, quella crisi si sarebbe però inesorabilmente conclusa, e lo Stato proletario, isolato dalla mancata estensione europea del processo rivoluzionario, e quindi costretto a gestire l’ingestibile (sul lungo e persino medio periodo) germogliare dei rapporti capitalistici in un’economia arretrata, avrebbe potuto sempre meno resistere ai condizionamenti del sistema borghese degli Stati, tendendo sempre più a subordinare i movimenti rivoluzionari esteri agli interessi di uno Stato “russo” la cui sopravvivenza in quanto sovrastruttura esigeva il suo inesorabile riallineamento ad una sottostante struttura economica che non era mai andata oltre il capitalismo e addirittura la sua trasformazione in un poderoso quanto feroce volano dello sviluppo capitalistico, sacrificando la propria originaria natura politica proletaria.

Tuttavia, è stato sulla base dello snaturamento delle Tesi dell’Internazionale comunista elaborate negli anni 1920-1922, e non in continuità con esse, che lo stalinismo ha disarmato il movimento rivoluzionario nelle aree arretrate subordinandolo alle borghesie nazionaliste locali.

Se in quelle Tesi la sempre maggiore diffidenza nei confronti della borghesia nazionalista delle aree arretrate non si trasformava ancora esplicitamente in una completa sfiducia, e permanevano ancora aperture alla possibilità del proletariato di stringere “alleanze” temporanee e circospette – secondo l’impostazione di Marx ed Engels del 1850 in Germania – la successiva impostazione stalinista della questione nazionale e coloniale prevedeva invece che il proletariato dovesse fare, senza discussioni, «il lavoro del coolie» per la borghesia nazionalista “rivoluzionaria”, il solo interlocutore possibile per un capitalismo di Stato russo alla ricerca di alleanze diplomatiche nel confronto con gli altri Stati borghesi, in primis la Gran Bretagna (potenza allora egemone in Asia). Nel caso dello stalinismo non si tratta quindi di “errori” o di “cattiva interpretazione”, quanto di una precisa linea politica con un altrettanto precisa determinazione materiale. Ed è da questa determinazione materiale che origina l’esigenza dello stalinismo di negare sistematicamente ogni autonomia al proletariato nei paesi arretrati, e di vincolare la classe operaia locale ed internazionale ad un «sostegno incondizionato» alle “resistenze” della borghesia reazionaria delle nazioni oppresse. Una formula perniciosa senza nessun diritto di cittadinanza all’interno del corpus teorico marxista e di cui ancora oggi è possibile osservare i venefici strascichi ideologici.

Quale che ne sia stata l’applicazione pratica da parte degli epigoni, nell’elaborazione leniniana non è mai presente l’indicazione della subordinazione (neanche temporanea) del proletariato a nessuna forza borghese, e men che meno della “fusione” dei partiti proletari all’interno di organizzazioni politiche borghesi. Una differenza sostanziale con lo stalinismo che solo l’ideologia borghese in tutte le sue declinazioni – anche quelle più “di sinistra” – può essere interessata a negare.

Le Tesi dell’Internazionale comunista del 1920-1922 non erano il prodotto accademico di un sereno lavoro di studi. Le urgenze del movimento rivoluzionario mondiale imponevano la pronta elaborazione di direttive pratiche che possono essersi rivelate talvolta affrettate e non eccessivamente approfondite. L’impostazione teorica marxista di quelle Tesi era però, a nostro avviso, fondamentalmente corretta. Alcune intuizioni, certe tendenze e determinate sopravvalutazioni, potevano trovare la loro verifica empirica solamente con il pieno manifestarsi di tutti i caratteri della maturazione imperialistica del capitalismo. Il proseguo degli anni Venti del XX secolo dimostrerà pienamente la validità di alcune intuizioni e la provvisorietà di certe soluzioni, ma nel frattempo in Russia aveva trionfato la controrivoluzione stalinista, interessata a neutralizzare i numerosi elementi validi delle Tesi suscettibili di essere valorizzati. Purtroppo, le minoranze rivoluzionarie comuniste di quella generazione, sotto i feroci colpi di una controrivoluzione che non seppero riconoscere chiaramente come tale, non furono in grado di svolgere questa verifica e di valorizzare quegli elementi che in misura parziale, ma, se vi furono errori, si tratta di errori della nostra storia politica, errori che abbiamo tutto il diritto e l’intenzione di considerare fecondi per la teoria marxista.


NOTE

[1] «Quando i nostri reazionari europei, nella loro imminente fuga attraverso l’Asia, giungeranno infine alla Grande Muraglia, alla porta della culla millenaria della arcireazione e dell’arciconservatorismo, chissà che non vi leggano sopra la scritta: Republique chinoise. Liberté, Ègalité, Fraternité!» K. Marx, Grande muraglia e cotonerie inglesi, 31 gennaio 1850, in K. Marx – F. Engels, India, Cina, Russia, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 42.

[2] Lenin, Democrazia e populismo in Cina, luglio 1912, in Lenin, Opere, Editori Riuniti, Roma, 1966, vol. 18, p. 154.

[3] Tesi e tesi integrative sulla questione nazionale e coloniale, 28 luglio 1920, in La Terza Internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, Roma, 1974, vol. 1, tomo I, p. 242.

[4] Ibidem, p. 243.

[5] Ibidem, pp. 246-247. Qui le Tesi si soffermano sull’«operazione Palestina dei sionisti» rilevando, già negli anni Venti, come la prospettiva della formazione di uno Stato israeliano nell’area dovesse considerarsi il prodotto dei contrastanti interessi delle potenze dell’imperialismo in Medio Oriente.

[6] Ibidem, p. 250.

[7] Tesi del IV Congresso sulla questione orientale, novembre 1922, in La Terza Internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, Roma, 1974, vol. 1, tomo II, p. 789.

[8] Ibidem, p. 791.

[9] Ibidem, p. 794.

[10] Ibidem, p. 795.

[11] «L’egemonia del proletariato su tutto il movimento rivoluzionario e più ancora la dittatura del proletariato sono impossibili a meno che il proletariato riesca a far schierare dalla sua parte le masse contadine che gemono sotto l’oppressione dei latifondisti, dei guerrafondai e dei burocrati, barbaramente sfruttate dal capitalismo. In paesi a economia rurale prevalentemente primitiva o a debole livello industriale – come è il caso della massima parte dell’Estremo Oriente – un vasto movimento rivoluzionario è pensabile soltanto con la premessa di una stretta alleanza fra operai e contadini, alleanza in cui la classe operaia sia chiamata a sostenere un ruolo di guida». Tesi sui compiti dei comunisti in Estremo Oriente, gennaio 1922, Ibidem, p. 780.

[12] Tesi del IV Congresso sulla questione orientale, novembre 1922, Ibidem, p. 796.

[13] Tesi e tesi integrative sulla questione nazionale e coloniale, 28 luglio 1920, in La Terza Internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, Roma, 1974, vol. 1, tomo I, p. 250.

[14] Ibidem, p. 251.

[15] Ibidem.

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