LOTTA ANTIMPERIALISTA E RIVOLUZIONE PROLETARIA NELLE METROPOLI

LA MATURAZIONE IMPERIALISTICA DEL CAPITALISMO E I COMPITI DELL’INTERNAZIONALISMO PROLETARIO – IV

Saigon 1945. Alcuni dei tranvieri del deposito di Gò Vấp che organizzarono una milizia operaia

Articolo pubblicato nel n. 122 di Prospettiva Marxista, marzo 2025.


Se nel corso della crisi rivoluzionaria apertasi con la prima guerra imperialistica mondiale si palesò come anche nei paesi dominati delle aree arretrate la borghesia avesse perso qualsiasi ruolo progressivo, e come il proletariato potesse ormai assumere un ruolo dirigente nei processi rivoluzionari di questi paesi, alcune delle lotte sviluppatesi nelle aree coloniali nel secondo dopoguerra mostrarono di poter fornire ulteriore ossigeno all’accumulazione capitalistica mondiale, prolungando considerevolmente l’esistenza dell’imperialismo. Una constatazione che non poteva essere priva di conseguenze nell’elaborazione della strategia e della tattica del movimento rivoluzionario internazionale.

Sul lungo periodo, l’industrializzazione delle aree arretrate, creando nuovi sbocchi per merci e capitali e aumentando le fonti di plusvalore addizionale, allontanava il manifestarsi della – inevitabile – crisi generale del modo di produzione capitalistico.

Da questo punto di vista, le Tesi sullo sviluppo capitalistico mondiale, durata della fase controrivoluzionaria e sviluppo del partito di classe elaborate alla fine degli anni ’50 da Arrigo Cervetto, nonostante presentino numerose valide riflessioni e notevoli intuizioni – soprattutto tenendo conto dell’attitudine generalizzata del milieu internazionalista a considerare “imminente” una nuova catastrofica guerra mondiale –, nel ritenere che con il «superamento del primo stadio dell’industrializzazione» da parte del «settore arretrato» del mercato mondiale si sarebbero esaurite le possibilità per il capitalismo maturo di esportare le proprie contraddizioni, oltre a riecheggiare il luxemburghiano “crollo per esaurimento dei mercati precapitalistici”[1] commettevano paradossalmente l’errore di sottostimare la durata della “fase controrivoluzionaria”, dal momento che, con l’industrializzazione delle aree precapitalistiche liberatesi dal dominio coloniale, le possibilità di esportazione di capitale nel mondo da parte dei paesi più sviluppati sarebbero in realtà aumentate enormemente[2].

È precisamente con il superamento del primo stadio dell’industrializzazione che il capitalismo imperialisticamente maturo avrebbe accresciuto enormemente le possibilità di «esportare le proprie contraddizioni» (o – per meglio dire – di dislocarle), in verità importando gigantesche quantità di plusvalore in virtù dell’allargamento del mercato capitalistico. Un’importazione di plusvalore che ha prolungato considerevolmente, in maniera inedita, l’esistenza del capitalismo mondiale. Esattamente quanto avvenuto dal secondo dopoguerra ad oggi. Il superamento del primo stadio dell’industrializzazione nelle aree precapitalistiche non soltanto non ha costituito un “limite” all’esportazione «di merci e di capitali provenienti dalle potenze imperialistiche» che abbia consentito di presentare all’ordine del giorno «praticamente il problema della rivoluzione socialista su scala internazionale», ma addirittura da quelle aree sono emerse nuove potenze dell’imperialismo che hanno iniziato a loro volta ad esportare “contraddizioni” senza peraltro cessare di importarne.

D’altro canto, se in generale le lotte di liberazione nazionale nelle colonie e semicolonie hanno indubbiamente aumentato le «sostanze infiammabili della rivoluzione», lo hanno fatto nel contesto di un capitalismo mondiale non più ascendente, un capitalismo che aveva perso da tempo qualsiasi funzione progressiva.

In tale contesto, quale posizione politica avrebbero dovuto assumere le minoranze internazionaliste nei confronti dei movimenti di liberazione nazionale sviluppatisi in Cina, India, Egitto, Indocina, Algeria, ecc., a partire dagli anni Venti del Ventesimo secolo, passando per il secondo dopoguerra e fino agli anni ’60 inoltrati?

Sulla base delle precedenti riflessioni, i due criteri cardine per una qualsiasi presa di posizione comunista in merito a queste lotte avrebbero auspicabilmente dovuto essere: 1) l’esistenza o meno di una qualche forma, anche embrionale, di indipendenza politica del proletariato in queste aree e 2) l’esistenza o meno di una crisi rivoluzionaria nelle metropoli dell’imperialismo. La lotta nelle colonie poteva assumere un carattere autenticamente “antimperialista” esclusivamente sotto la direzione del proletariato cosciente in un processo di rivoluzione in permanenza e in collegamento con la rivoluzione comunista nelle metropoli.

Con la sconfitta dello Stato proletario in Russia nei primi anni Venti e in una fase storica ormai distante dalla crisi mondiale della formazione economico-sociale capitalistica; in assenza – sia nelle colonie che nelle metropoli – di forme di coscienza rivoluzionaria organizzata di un proletariato ormai ostaggio dell’opportunismo socialdemocratico e stalinista, per i comunisti internazionalisti porre la questione delle lotte di liberazione dei paesi dominati nelle aree arretrate in termini di “sostegno” o di “appoggio” non poteva che costituire un falso problema.

Quando le lotte di liberazione nazionale nelle colonie si inserivano nel contesto di una crisi rivoluzionaria nelle metropoli oppure ne potevano accelerare l’innesco, ovvero quando potevano esprimere una natura antimperialista, il proletariato rivoluzionario delle potenze dell’imperialismo non doveva limitarsi ad “appoggiarle”, quanto piuttosto condurre la battaglia contro la propria borghesia collegandosi attivamente con il proletariato dei paesi dominati che, a sua volta, doveva sforzarsi di condurre direttamente tali lotte.

Quando invece le lotte di liberazione nazionale nelle colonie avevano luogo in un contesto internazionale che non consentiva loro di assumere un carattere autenticamente antimperialista, e il proletariato dei paesi dominati non costituiva un soggetto politico in grado di dirigerle, quale avrebbe dovuto essere l’atteggiamento del proletariato comunista delle potenze dell’imperialismo nei confronti dei movimenti nazionali rivolti direttamente contro queste ultime?

In ogni paese il proletariato si contrappone innanzitutto alla propria borghesia, è interessato in primo luogo al rovesciamento del proprio Stato borghese. Il proletariato comunista delle metropoli non poteva dunque in nessun modo sostenere o appoggiare l’oppressione nazionale o la guerra della propria borghesia contro il movimento di liberazione di una nazione dominata dal proprio paese, anche nel caso in cui tale movimento fosse stato guidato dalla borghesia coloniale; anche qualora la vittoria nella lotta avesse portato il paese dominato o la colonia a diventare un nuovo paese capitalista indipendente o una nuova potenza dell’imperialismo; anche nel caso in cui questo paese fosse invece caduto sotto il controllo o nella sfera d’influenza di altre potenze. Quale che fosse l’esito della lotta di liberazione nazionale nei paesi dominati dalla borghesia di casa propria, per il proletariato cosciente delle metropoli era – ed è – fondamentale indebolire il potere della propria borghesia.

Denunciando l’oppressione nazionale esercitata dalla propria borghesia, mantenendo nel proprio programma il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione nazionale e opponendosi all’intervento militare della propria borghesia contro un movimento di liberazione nazionale, il proletariato delle metropoli, pur non concedendo alcun “sostegno” politico e nessun “appoggio incondizionato” al movimento di liberazione stesso, avrebbe rifiutato nei fatti qualsiasi vincolo di “solidarietà nazionale” con la propria classe dominante e si sarebbe mosso risolutamente nella direzione della rimozione degli ostacoli ideologici alla solidarietà internazionalista tra il proletariato del paese oppresso e quello del paese oppressore.

Esattamente come in una guerra tra potenze dell’imperialismo, la lotta del proletariato metropolitano contro il «nemico in casa propria» nel corso di una guerra imperialista nelle colonie non consisteva nel porsi al servizio politico dell’avversario borghese – per quanto più debole – della propria classe dominante.

Ad ogni modo, la sconfitta della metropoli in una guerra imperialista nelle colonie costituiva potenzialmente un fattore di indebolimento del proprio Stato e il proletariato rivoluzionario metropolitano era tenuto programmaticamente a condurre la propria azione politica per favorire tale esito, quantomeno per rafforzare le proprie posizioni, se non poteva ancora rovesciare il proprio Stato. La lotta del movimento di liberazione nazionale condotta dalla borghesia dei paesi dominati e la lotta del proletariato metropolitano contro il proprio Stato in guerra potevano dunque sostenersi oggettivamente a vicenda, senza alcuna necessità che il proletariato rivoluzionario delle metropoli stringesse alleanze politiche formali con i movimenti nazionalisti borghesi dei paesi dominati.

D’altra parte, nella misura in cui avessero avuto una seppur minima presenza politica, nemmeno le avanguardie rivoluzionarie del proletariato dei paesi dominati potevano “appoggiare incondizionatamente” i movimenti di liberazione nazionale nel proprio paese.

L’obiezione secondo cui un’opposizione alla propria borghesia da parte delle avanguardie del proletariato dei paesi dominati nel corso di una lotta di liberazione nazionale avrebbe indebolito il fronte della lotta, a vantaggio della potenza dell’imperialismo contro cui era condotta la guerra, non tiene in debito conto le specifiche caratteristiche della lotta di classe nella fase imperialistica del capitalismo. I movimenti di liberazione nazionale rivolti contro le potenze dell’imperialismo hanno dimostrato di non poter riuscire vittoriosi se non al prezzo del completo annientamento politico o dell’una o dell’altra delle classi fondamentali che ogni società capitalistica vede contrapposte: la borghesia o il proletariato.

Storicamente, infatti, se consideriamo rivoluzioni nazionali come quelle realizzatesi in Cina ed in Vietnam, osserviamo che il loro successo è stato reso possibile dalla precedente sconfitta di un proletariato il cui grado di maturità sociale e politica consentiva già di porsi il compito della rivoluzione in permanenza.

Nello scontro con le metropoli dell’imperialismo la forza della borghesia coloniale era inversamente proporzionale a quella del proletariato. Nella misura in cui la lotta del proletariato per i propri interessi di classe cresceva di intensità e si avvicinava minacciosamente a porre la questione del potere politico, la borghesia di queste aree, nata senescente, era costretta a sacrificare la lotta per l’indipendenza e l’unificazione del mercato nazionale e ad accontentarsi di un compromesso con le vecchie potenze imperialistiche per salvaguardare la propria posizione sociale. Un compromesso che doveva essere suggellato dalla distruzione del movimento operaio, perpetrata di comune accordo con le metropoli. Non dovendosi più preoccupare della repressione di un movimento operaio che era stato già stroncato, le frazioni “radical-populiste” della borghesia di questi paesi, anche grazie alla funzionalissima vernice ideologica pseudo-socialista dello stalinismo, si sono ritrovate successivamente ad avere le “mani libere” nell’egemonizzare vasti strati contadini, nel mobilitare ideologicamente e militarmente anche gran parte del proletariato e nel condurre con maggiore determinazione la lotta di liberazione nazionale – non senza l’ausilio interessato di potenze rivali della metropoli dominante – adottando spesso misure dirigistiche che concentravano nello Stato le principali leve economiche dei loro paesi.

Dunque, la posizione internazionale del proletariato rivoluzionario in una guerra imperialista che avesse per teatro una colonia o una semicolonia si configurava come l’applicazione di una comune strategia – basata da entrambi i lati sul medesimo principio già enunciato dal Manifesto del partito comunista: «È naturale che in primo luogo il proletariato di ciascun paese la faccia finita con la sua propria borghesia»[3] – e di una tattica differenziata in relazione alla sua diversa collocazione sui due fronti. Se la tattica del disfattismo rivoluzionario conservava la propria funzionalità per il proletariato rivoluzionario della metropoli nell’ottica dellastrategia della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, l’adempimento di questa medesima strategia da parte delle avanguardie rivoluzionarie del paese dominato, nella misura in cui il proletariato non fosse ancora in grado di assumere la direzione sociale e politica della lotta contro la metropoli dell’imperialismo, passava per un lavoro di costruzione o ricostruzione dell’indipendenza politica di classe, che, insieme alla doverosa denuncia presso le masse lavoratrici dell’oppressione imperialista, si ponesse l’obiettivo dell’organizzazione della difesa fisica del proletariato dagli eserciti imperialisti, rigettando al contempo qualsiasi alleanza strangolatoria con la propria borghesia nel contesto della guerra e promuovendo al contrario la più stretta sinergia con il proletariato della potenza dominante[4].

Pur nella diversa applicazione tattica, la comune strategia della trasformazione della guerra in guerra civile rappresentava nei paesi dominati l’unica prospettiva in grado di trasformare la “lotta di liberazione” in un’autentica lotta antimperialista, in una lotta che non risultasse vittoriosa solo al sanguinoso prezzo dell’indipendenza politica di classe, in una rivoluzione in permanenza capace eventualmente di condurre una vera e propria guerra rivoluzionaria.

Non poteva evidentemente esistere nello scontro tra metropoli e paesi dominati quell’uniformità tattica che caratterizza la guerra tra potenze dell’imperialismo, la guerra interimperialistica mondiale. Se, infatti, nel corso di una guerra imperialista mondiale, il prevalere di un qualsiasi blocco su di un altro che non si sia trasformato in una guerra civile rivoluzionaria almeno dietro le linee del blocco perdente non comporta alcun elemento di parziale compensazione per il movimento rivoluzionario internazionale, differente è il caso della sconfitta della metropoli nel corso di una guerra di liberazione coloniale.

Nei paesi arretrati nei quali il movimento operaio era stato preventivamente sconfitto o in cui esso non possedeva un grado di autoconsapevolezza tale da poter condurre una politica di classe indipendente, e nei quali conseguentemente una borghesia reazionaria era riuscita a portare a termine un processo di unificazione del mercato nazionale che avrebbe accelerato lo sviluppo delle forze produttive, per i comunisti la questione poteva configurarsi per alcuni aspetti in maniera analoga alla situazione realizzatasi in seguito all’unificazione “prussiana” della Germania nel 1866 – in un contesto quindi non ancora imperialistico –, a proposito della quale Engels scriveva:

Secondo la mia opinione non potremo dunque far nient’altro che accettare il fatto, senza approvarlo, e trar profitto, per quanto possiamo, delle facilitazioni che in ogni modo si offrono per l’organizzazione nazionale e l’unione del proletariato tedesco.[5]

I comunisti non potevano dunque non riconoscere il «fait accompli», il dato oggettivo di un proletariato che cresceva quantitativamente con l’industrializzazione delle aree arretrate, senza tuttavia approvarlo, senza nascondersi e nascondere che una simile vittoria della borghesia coloniale si era resa possibile solo come conseguenza o di un precedente schiacciamento del proletariato rivoluzionario o della sua insussistenza come soggetto politico, consapevoli che questa crescita quantitativa del proletariato industriale si inseriva in un contesto mondiale qualitativamente negativo nel suo complesso, rappresentando quindi una mera ricaduta che aveva per contropartita l’aumento esponenziale delle contraddizioni e delle capacità distruttive del capitalismo[6].

Lo sviluppo delle forze produttive localizzato ai paesi in cui aveva avuto successo una rivoluzione nazionale democratico-borghese assumeva infatti un carattere essenzialmente reazionario in considerazione del fatto che, al più tardi nel primo decennio del secolo scorso – il secolo dell’imperialismo –, si può ritenere che il capitalismo avesse già raggiunto il livello di condizioni materiali necessario per l’instaurazione del socialismo al livello mondiale.

Già nel 1853 Marx riteneva che lo sviluppo capitalistico in atto non dovesse necessariamente attestarsi su un livello uniforme in ogni angolo del pianeta prima di poter considerare storicamente sufficienti le basi materiali del socialismo. È nota l’importanza che Marx attribuiva – forse persino anticipando eccessivamente i tempi – all’Inghilterra e a pochissimi altri paesi capitalistici per una rivoluzione europea e mondiale:

Quando una grande rivoluzione sociale si sarà impadronita delle conquiste dell’epoca borghese – il mercato del mondo e le forze di produzione moderne – e le avrà assoggettate al controllo comune dei popoli più civili [ovvero più maturi capitalisticamente, corsivo nostro], solo allora il progresso umano cesserà di assomigliare a quell’orribile idolo pagano, che non voleva bere il nettare se non dai teschi degli uccisi.[7]

Sottraendo all’anarchia capitalistica il controllo delle forze produttive e socializzandole, una rivoluzione proletaria nei paesi maggiormente sviluppati avrebbe potuto impiegarle per conferire un carattere umano al progresso in tutte quelle aree del pianeta che altrimenti avrebbero dovuto passare sotto le brutali “forche caudine” dello sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici.

Quasi trent’anni più tardi, ad un diverso stadio dello sviluppo capitalistico mondiale, Engels riaffermerà la prospettiva di Marx:

Quando l’Europa si sarà riorganizzata [socialisticamente], e l’America del Nord, la potenza risultante sarà talmente colossale, e rappresenterà un tale esempio, che i paesi semicivilizzati seguiranno praticamente da sé; ci penseranno i loro bisogni economici. Quali fasi sociali e politiche dovranno poi attraversare questi paesi prima di giungere anch’essi all’organizzazione socialista mi pare una questione sulla quale oggi possiamo fare soltanto delle ipotesi piuttosto oziose.[8]

Una prospettiva che diventerà programma politico dell’Internazionale comunista altri quarant’anni dopo:

Sotto il predominio capitalistico i paesi sottosviluppati non possono esser partecipi delle conquiste della tecnica e della cultura moderne senza pagare un enorme tributo al capitale delle grandi potenze che barbaramente le sfruttano e le opprimono. Il patto col proletariato dei paesi progrediti vien loro imposto non soltanto dagli interessi della battaglia comune antimperialista, ma anche dal fatto che i lavoratori d’Oriente potranno ottenere, con la vittoria del proletariato nei paesi progrediti, un aiuto disinteressato per lo sviluppo delle loro arretrate forze produttive.[9]

Lo sviluppo delle forze produttive nella fase imperialista del capitalismo non presenta perciò più nulla di progressivo, dal momento che le basi materiali del comunismo sono già date. È alla scala mondiale di un’epoca che inscrive all’ordine del giorno la rivoluzione proletaria mondiale che deve essere valutata la natura reazionaria o meno della borghesia. In questo senso, da almeno un secolo, la borghesia è reazionaria in ogni punto cardinale del pianeta, nel “Sud” come nel “Nord” del mondo, in Oriente come in Occidente.

In conclusione, se, con i processi di decolonizzazione, le forze del proletariato sono ulteriormente aumentate in tutto il mondo, il capitalismo è nel frattempo giunto al punto di poter annientare qualsiasi forma di vita sul pianeta. Nello stadio imperialista la proliferazione delle forze produttive ha assunto ormai il carattere incontrollato e scoordinato di una neoplasia tumorale capace di distruggere l’intero organismo sociale. Sarebbe reazionario – oltre che ozioso – credere che la ruota della storia possa girare all’indietro o postulare che si possa o si debba rinunciare al livello ormai raggiunto dalle forze produttive nella nostra epoca, è tuttavia innegabile che la fine del capitalismo avrebbe potuto compiersi ad esempio prima che la scoperta e l’impiego dell’energia atomica, con tutte le sue ambivalenti potenzialità, entrasse nella dotazione di un sistema sociale che ha già dato ampia prova della sua inaudita barbarie.

Nelle attuali condizioni dello sviluppo capitalistico al livello mondiale, non sussistendo aree significative del pianeta nelle quali predominino rapporti di produzione precapitalistici, avendo assunto la borghesia un carattere universalmente reazionario, e, non essendo purtroppo rilevabili nelle ormai estremamente marginali aree arretrate del mercato mondiale forze proletarie in grado di condurre processi di rivoluzione “doppia” o in permanenza, per i comunisti internazionalisti, pur permanendo l’obbligo politico della denuncia delle persistenti e sempre rinnovantesi condizioni di oppressione nazionale e del riconoscimento condizionato del diritto di autodeterminazione nazionale, non esiste alcuna necessità di accettare un implausibile “fatto compiuto” di natura borghese. Per i comunisti internazionalisti, questo sistema sociale non ha da tempo più nulla da compiere, nulla da dare, prima che la classe rivoluzionaria possa presentargli il dovuto conto storico.


NOTE

[1] «Finché in questo mercato [mondiale] sussisterà una vastissima zona, che comprende i due terzi della popolazione mondiale, in condizioni di arretratezza precapitalistica, la produzione dei paesi avanzati ivi troverà uno sbocco ed una soluzione alle proprie contraddizioni». A. Cervetto, Tesi sullo sviluppo capitalistico mondiale, durata della fase controrivoluzionaria e sviluppo del partito di classe, in L’imperialismo unitario, Lotta comunista, Milano, 1988, p. 526.

[2] «[…] entrando in una nuova fase economica e rompendo la vecchia stasi di immobilismo coloniale i paesi del settore arretrato allargano la capacità del mercato mondiale ed offrono all’imperialismo la possibilità di espansione economica». A. Cervetto, Ibidem, p. 528. Da notare come questa corretta considerazione sia in contraddizione con quella esposta nella nota precedente. In effetti, i paesi arretrati che si liberano dal dominio coloniale allargano la capacità del mercato mondiale solo dal momento e nella misura in cui escono dalle condizioni di arretratezza. Un’arretratezza peraltro non necessariamente “precapitalistica”.

[3] K. Marx – F. Engels, Manifesto del Partito comunista, Lotta comunista, Milano, 1998, p. 37.

[4] Un esempio storico in questa direzione può essere fornito dall’insurrezione operaia di Saigon. Nel settembre 1945, sulla scia della sconfitta delle forze di occupazione giapponesi nella Seconda guerra mondiale, i tranvieri del deposito di Gò Vấp organizzarono una milizia operaia. La milizia invitò i lavoratori della zona ad armarsi e a prepararsi al conflitto armato contro le forze coloniali francesi e britanniche che avrebbero di lì a poco cercato di rioccupare il Vietnam. Nel frattempo, il movimento indipendentista borghese-radicale, il Viet Minh di Ho Chi Minh, affiggeva manifesti che invitavano le masse ad “evitare lo scontro” ed a “mantenere la calma”, nella speranza di negoziare con le borghesie imperialiste europee e di poter formare un governo. Nella notte tra il 22 e il 23 settembre, le truppe francesi e britanniche rioccuparono punti chiave di Saigon e si scontrarono con un’insurrezione che venne domata nel sangue.

[5] F. Engels, Lettera a Marx del 25 luglio 1866, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1974, Vol. XLII, p. 266.

[6] Ben diverso, pur nel comune contesto imperialistico, è attribuire presunti «vantaggi oggettivi» o addirittura «decisivi» per il proletariato a tentativi di aggregazione sovranazionale o di «accentramento della borghesia» promossi – con maggiore o minore successo – dalle potenze dell’imperialismo in funzione della concorrenza predatoria – economica e militare – sul mercato mondiale. Tentativi ai quali, non verificandosi in una fase storicamente ascendente del capitalismo o nell’ambito dell’arretratezza capitalistica, in caso di successo non segue nemmeno la “ricaduta” di un significativo aumento quantitativo delle «sostanze infiammabili» della rivoluzione, e che solamente un vero e proprio opportunismo socialimperialista può considerare “favorevoli” o “vantaggiosi” per il proletariato.

[7] K. Marx, I risultati futuri della dominazione britannica in India, 8 agosto 1853, in K. Marx – F. Engels, India, Cina, Russia, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 109.

[8] F. Engels, Lettera a K. Kautsky, 12 settembre 1882, in K. Marx – F. Engels, Lettere 1880-1883, Lotta comunista, Milano, 2008, pp. 253-254.

[9] Tesi del IV Congresso sulla questione orientale, novembre 1922, in La Terza Internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, Roma, 1974, vol. 1, tomo II, p. 794.

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