PER IL «LETTORE PERSPICACE» – «Genesi e struttura» della tattica leniniana del disfattismo rivoluzionario – III

Dalla postfazione al testo di Roman Rosdolsky – STUDI SULLA TATTICA RIVOLUZIONARIA, Movimento Reale, Roma, giugno 2025, pubblicata anche in opuscolo.
Per quanto concerne le divergenze tra Lenin e Rosa Luxemburg riguardo alla tattica rivoluzionaria nella lotta contro la guerra, stando a Hal Draper la seconda avrebbe adottato in modo indipendente lo stesso approccio di Trotsky di fronte all’alternativa “vittoria o sconfitta”:
La “metodologia” della Luxemburg esclude lo slogan di augurare la sconfitta. E la sua metodologia è chiara: essa è, in termini contemporanei e quasi nei suoi stessi termini, la metodologia del Terzo Campo. Perché questa è davvero una metodologia nel senso che abbiamo usato; ed è ugualmente ostile sia al social-patriottismo che al suo opposto simmetrico, la palude del “disfattismo”.[1]
Nella sua Juniusbrochüre del 1916, ampiamente citata da Draper, Luxemburg, dopo aver ipotizzato un generale ed estremo esaurimento come conseguenza ineluttabile per tutti gli schieramenti contrapposti nel conflitto, sia quelli “vittoriosi” che quelli sconfitti[2], scrive
… il dilemma: vittoria o sconfitta, in queste circostanze si trasforma per la classe operaia europea tanto dal punto di vista politico, quanto da quello economico in una scelta disperata tra due carichi di bastonate. Perciò non è altro che una fatale follia quella dei socialisti francesi che pretendono con la sconfitta militare della Germania di dare il colpo decisivo al militarismo e persino allo imperialismo e di aprire la strada nel mondo alla pacifica democrazia. L’imperialismo, e al suo servizio il militarismo, in questa guerra, a chiunque tocchi la vittoria o la sconfitta, hanno il loro tornaconto, escluso un unico caso: che il proletariato internazionale col suo intervento rivoluzionario tiri un grosso frego su quel conto.[3] [grassetti redazionali]
È necessaria una notevole incapacità di comprensione o altrettanta malafede per non riconoscere che anche per Lenin «a chiunque tocchi la vittoria o la sconfitta», nella guerra mondiale in atto, l’imperialismo e il militarismo ne trarrebbero un tornaconto, a meno che – a prescindere da quale schieramento risulti vittorioso o sconfitto, ma proprio in virtù del fatto che qualcuno dovrà subire inevitabilmente delle sconfitte – l’«intervento rivoluzionario del proletariato internazionale» impedisca che di quel tornaconto si passi all’incasso.
Anche per Lenin «il dilemma: vittoria o sconfitta si trasforma per la classe operaia europea in una scelta disperata tra due carichi di bastonate», tra due mali, dei quali uno, la sconfitta, può essere però fecondo, perché rendendo possibile la rivoluzione può evitare che il dilemma sia risolto in termini puramente imperialistici. Ed è precisamente contro la vittoria o sconfitta «dal punto di vista dell’imperialismo» che si schierano entrambi i rivoluzionari, sebbene Lenin esplichi con maggiore chiarezza politica come quel punto di vista non rappresenti il solo modo di concepire quell’alternativa.
Ad ogni modo, nel passaggio citato Luxemburg sferra un attacco alla «fatale follia» dei fautori francesi della presunta guerra rivoluzionaria contro la Germania, che in caso di vittoria su quest’ultima dovrebbe affibbiare un «colpo decisivo» all’imperialismo ed inaugurare l’era della «pacifica democrazia». Non c’è qui alcun accenno critico alla tesi leniniana della disfatta.
Luxemburg aggiunge:
L’insegnamento più importante che risulta dalla guerra attuale per la politica del proletariato è perciò il fatto inconfutabile che né in Germania né in Francia, né in Inghilterra né in Russia, esso non può far eco senza critica alla parola d’ordine vittoria o sconfitta, parola d’ordine che ha un contenuto reale soltanto dal punto di vista dell’imperialismo e si identifica per ogni grande potenza con il problema: conquista o perdita della posizione di potere nella politica mondiale, delle annessioni, delle colonie e dell’egemonia militare.[4]
È sufficientemente chiaro che l’obiettivo polemico della Luxemburg non è qui tanto chi auspica la sconfitta in senso rivoluzionario, quanto coloro i quali, come i socialpatrioti tedeschi, con il dilemma: “vittoria o sconfitta” affermano esplicitamente che se non si vuole la vittoria, che è un bene, si avrà la sconfitta, che è un male. Ed è a costoro che risponde: il vostro “bene” si chiama potere mondiale, annessioni, colonie, egemonia militare, il vostro “male” è la perdita di questi “benefici”. Sia questo bene che questo male, sia questa vittoria che questa sconfitta, nella misura in cui rimangono una vittoria e una sconfitta interne al «punto di vista dell’imperialismo», rappresentano un danno dal punto di vista del proletariato internazionale.
In senso generale, quanto scritto da Luxemburg non è in contraddizione con la posizione di Lenin, che però rileva un errore di impostazione di Luxemburg
…sull’argomento: meglio la vittoria o la sconfitta. La sua conclusione: sono entrambe cattive (rovina sviluppo degli armamenti, ecc.). Questo non è il punto di vista del proletariato rivoluzionario, ma del piccolo borghese pacifista. Se si voleva parlare di «intervento rivoluzionario» del proletariato – e ne parlano, benché purtroppo in modo eccessivamente generico, sia Junius che le tesi del gruppo «Internazionale» – era necessario porre la questione da un altro punto di vista: 1) è possibile un «intervento rivoluzionario» senza incorrere nel rischio della sconfitta? 2) è possibile battere la borghesia e il governo del proprio paese senza correre lo stesso rischio? 3) non abbiamo forse sempre detto e l’esperienza storica delle guerre reazionarie non dice forse che le sconfitte facilitano la causa della classe rivoluzionaria?[5] [grassetti redazionali]
Nel suo opuscolo Luxemburg scrive:
Nella guerra attuale il proletariato dotato di coscienza di classe non può identificare la sua causa con nessun campo militare. Ne deriva forse che la politica proletaria richiede oggi il mantenimento dello status quo, che noi non abbiamo altro programma di azione che il desiderio che ogni cosa rimanga com’era prima della guerra? Ma il permanere della situazione immutata non è mai stato il nostro ideale […] La politica del proletariato del resto non può conoscere un «ritorno indietro», deve tendere in avanti, deve andare sempre al di là della realtà esistente e di quella nuovamente creata. Solo in questo senso essa può opporre la propria politica a entrambi i campi della guerra mondiale imperialista.[6] [grassetti redazionali]
Solo approfittando della crisi prodotta dalla guerra si può opporre la «politica proletaria» alla politica dell’imperialismo, ma la crisi – contrariamente a quanto erroneamente ritiene Luxemburg, per la quale vittoriosi e perdenti vengono a trovarsi nella medesima condizione – si manifesta con maggiore violenza laddove si è in presenza della sconfitta, e di quella sconfitta Lenin indica al proletariato di approfittare.
Solo chi non è in grado di andare «al di là della realtà esistente» può vedere nel disfattismo rivoluzionario una qualche «concessione alla metodologia socialimperialista», perché non è in grado di concepire la vittoria e la sconfitta se non dal punto di vista dell’imperialismo.
Come abbiamo già visto, Lenin – come Luxemburg – non identifica la causa del proletariato cosciente con nessuno dei blocchi contrapposti. Lenin non ritiene vantaggiosa per il socialismo la vittoria o la sconfitta di nessuno dei blocchi contrapposti. Di nessun campo, di nessuno schieramento imperialista. Per Lenin, qualora debba profilarsi uno schieramento vincente senza che la guerra si trasformi in guerra civile, il “minor male” è che la Russia risulti perdente; i blocchi contrapposti sono entrambi reazionari, dunque, i proletari di tutti i paesi occidentali in guerra devono augurarsi la sconfitta della propria borghesia imperialista e cooperare ad essa, esattamente come i proletari russi. L’unica differenza per i proletari europei e russi è che, se la guerra si conclude in Europa con vincitori e vinti dal «punto di vista dell’imperialismo» – ovvero senza aver prodotto una rivoluzione socialista – e la Russia risulta tra gli sconfitti, possono comunque aprirsi delle possibilità per una rivoluzione democratica russa; se invece la guerra si conclude in Europa con vincitori e vinti e senza aver prodotto una rivoluzione socialista, ma la Russia risulta tra i vincitori, al danno della mancata rivoluzione socialista in Europa si aggiungerebbe quello della mancata rivoluzione democratica in Russia.
Lenin è estremamente generoso nei confronti dello scritto di Luxemburg, che definisce «in complesso»
un eccellente scritto marxista; e può darsi benissimo che i suoi difetti siano, in una certa misura, accidentali.[7]
Tuttavia, i più importanti punti del dissenso tra i due internazionalisti rivoluzionari, oltre alla questione dell’autodeterminazione nazionale, risiedono in alcuni passaggi della Juniusbrochüre che gli acritici estimatori di Luxemburg – tali rigorosamente e sistematicamente in strumentale funzione antileniniana – citano assai raramente e con evidente imbarazzo, ovvero in quelli in cui è evidente la riproposizione luxemburghiana del programma delineato da Engels nel 1891[8] per la socialdemocrazia tedesca in caso di guerra con la Russia.
Luxemburg riconosce che, nel 1891
Engels aveva in mente una situazione completamente diversa da quella odierna. Aveva ancora davanti agli occhi il vecchio impero degli zar, mentre noi dopo di allora abbiamo vissuto la grande rivoluzione russa. Pensava inoltre a una reale guerra di difesa nazionale della Germania attaccata di sorpresa contro due aggressioni contemporanee da oriente e da occidente. Infine ha sopravvalutato la maturità della situazione in Germania e le prospettive della rivoluzione sociale, come i veri lottatori usano per lo più sopravvalutare il ritmo dello sviluppo. Ciò che risulta però con tutta chiarezza dalla sua esposizione è che Engels non intendeva per difesa nazionale nel senso della politica socialdemocratica il sostegno del regime militare prussiano-feudale e del suo stato maggiore, ma un’azione rivoluzionaria sul modello dei giacobini francesi.[9] [grassetti redazionali]
Eppure, nonostante nel 1891 esistesse «una situazione completamente diversa da quella odierna», Luxemburg ripropone per il 1914 esattamente lo stesso programma di Engels del 1891, ovvero: «un’azione rivoluzionaria sul modello dei giacobini francesi»:
Sì i socialdemocratici hanno il dovere di difendere il loro paese in una grande crisi storica. E perciò una grave colpa pesa sul gruppo socialdemocratico al Reichstag, perché esso annunciò solennemente nella sua dichiarazione del 4 agosto 1914: «Non piantiamo in asso la patria nell’ora del pericolo» ma nello stesso momento smentiva le sue parole. Esso ha veramente piantato in asso la patria nell’ora del massimo pericolo. Perché il primo dovere verso la patria in quell’ora era: dimostrare il vero sfondo di questa guerra imperialistica, strappare il tessuto di menzogne patriottiche e diplomatiche col quale era ammantato questo attentato contro la patria; dire ben forte e chiaro che per il popolo tedesco in questa guerra tanto la vittoria quanto la sconfitta sono ugualmente fatali; opporsi fino all’estremo all’imbavagliamento della patria per mezzo dello stato d’assedio; proclamare la necessità dell’immediato armamento popolare e della decisione del popolo sulla guerra e sulla pace; sollecitare energicamente la sessione permanente della rappresentanza popolare per la durata della guerra, per assicurare il vigile controllo del governo da parte della rappresentanza popolare e della rappresentanza popolare da parte del popolo; esigere l’abolizione immediata di tutte le privazioni di diritti politici, perché soltanto un popolo libero può difendere realmente il suo paese; infine opporre al programma imperialistico della guerra basato sulla conservazione dell’Austria e della Turchia, cioè della reazione in Europa e in Germania, il vecchio programma veramente nazionale, dei patrioti e dei democratici del 1848, il programma di Marx, Engels e Lassalle: la parola d’ordine di una unica grande repubblica tedesca. Questa era la bandiera che si sarebbe dovuto sventolare davanti al paese, la sola che sarebbe stata veramente nazionale, veramente liberale e in accordo tanto con le migliori tradizioni della Germania quanto con la politica internazionale di classe del proletariato.[10] [grassetti redazionali]
La tattica socialdemocratica elaborata da Engels per una guerra contro la Russia e la Francia alleate negli anni ’90 del XIX secolo, in considerazione del fatto che la Russia rappresentava ancora il gendarme d’Europa in funzione antiproletaria – e, in una certa misura, persino in funzione antiborghese –; che l’avanguardia rivoluzionaria francese era stata decapitata con la gravosa sconfitta della Comune di Parigi e che quindi il fulcro del movimento operaio europeo risiedeva essenzialmente in Germania, rappresenta storicamente l’unica proposta dotata di una qualche legittimità di “difensismo rivoluzionario” in una situazione nella quale il proletariato non abbia ancora conquistato il potere.
Nell’epoca attuale, risponde Lenin
Alla guerra borghese imperialista, alla guerra del capitalismo altamente sviluppato, obiettivamente si può soltanto contrapporre, dal punto di vista progressivo, dal punto di vista della classe d’avanguardia, la guerra contro la borghesia, vale a dire, innanzi tutto, la guerra civile del proletariato contro la borghesia per il potere, la guerra senza la quale non è possibile un serio movimento progressivo, e poi – solo in determinate circostanze particolari – una eventuale guerra in difesa dello Stato socialista contro gli Stati borghesi. […] La «repubblica grande-tedesca», se fosse esistita nel 1914-1916, avrebbe condotto la stessa guerra imperialista.
Junius è giunto a sfiorare la giusta soluzione del problema e la giusta parola d’ordine: guerra civile contro la borghesia per il socialismo; e, come se temesse di dire fino in fondo tutta la verità, ha fatto marcia indietro, verso la fantasia di una «guerra nazionale» negli anni 1914, 1915, 1916.[11]
Qualche mese dopo, in una lettera privata ad Ines Armand, Lenin fornisce un quadro sintetico ma esaustivo della questione:
Anno 1891. La politica coloniale della Francia e della Germania è di proporzioni insignificanti. L’Italia, il Giappone, gli Stati U. non hanno affatto colonie (adesso sì). Nell’Europa occidentale si è formato un sistema (NB questo!! pensateci!! non dimenticatelo!! Viviamo non solo in Stati singoli, ma anche in un determinato sistema di Stati; agli anarchici è permesso di ignorarlo, ma noi non siamo degli anarchici), un sistema di Stati in generale costituzionali, nazionali. Accanto ad essi sta il potente zarismo prerivoluzionario, non ancora scosso, che saccheggia e opprime tutti da centinaia di anni, che ha soffocato le rivoluzioni del 1849 e del 1863.
La Germania (del 1891) è il paese del socialismo avanzato. E questo paese è sotto la minaccia dello zarismo in alleanza con il boulangismo!
La situazione è proprio tutt’altra di quella del 1914-1917, quando lo zarismo è stato minato dal 1905 e la Germania fa la guerra per il dominio del mondo. È un altro paio di maniche!!
Identificare o anche solo paragonare le situazioni internazionali del 1891 e del 1914 è il colmo dell’astoricità. […]
Nella guerra imperialistica 1914-1917, combattuta tra due coalizioni imperialistiche, noi dobbiamo essere contro la «difesa della patria», giacché 1) l’imperialismo è la vigilia del socialismo; 2) la guerra imperialistica è una guerra tra ladri per il bottino; 3) in tutte e due le coalizioni c’è un proletariato avanzato; 4) in entrambe è maturata la rivoluzione socialista.[12]
Come abbiamo avuto modo di affermare in altre circostanze, la tattica elaborata da Engels si collocava storicamente all’interno di un’intersezione epocale che, pur manifestando elementi anticipatori del nuovo stadio del capitalismo, che sarebbe giunto a più avanzata maturazione di lì ad un decennio, manteneva comunque i tratti prevalenti della fase precedente a quella dell’imperialismo. Non può certamente dirsi lo stesso un quarto di secolo dopo, quando Luxemburg cercava evidentemente e meritoriamente di strappare la riflessione di Engels all’utilizzo proditorio che ne facevano i socialimperialisti tedeschi per giustificare “teoricamente” – avvalendosi di questo “autorevole precedente” – la propria cooperazione con l’imperialismo tedesco.
Tuttavia, il modo in cui Luxemburg tentava questa riappropriazione, nonostante le pur condivisibili intenzioni, per Lenin era sbagliato sia dal punto di vista teorico che da quello puramente pratico:
Tutta la società borghese, tutte le classi della Germania, compresi i contadini, erano per la guerra (anche in Russia, secondo ogni probabilità, almeno la maggioranza dei contadini ricchi e medi e una parte notevolissima dei contadini poveri si trovavano, evidentemente, sotto l’influenza dell’imperialismo borghese). La borghesia era armata fino ai denti. In una situazione simile, «proclamare» il programma della repubblica, del parlamento in permanenza, dell’elezione degli ufficiali da parte del popolo («armamento del popolo») ecc., significava in pratica «proclamare» la rivoluzione (con un programma rivoluzionario sbagliato!).[13]
In pratica, in un contesto del tutto sfavorevole, la socialdemocrazia rivoluzionaria tedesca sarebbe arrivata allo scontro con lo Stato borghese con un programma che non si sarebbe distanziato nettamente da quello socialimperialista e che non avrebbe dunque contribuito alla necessaria chiarezza tra le masse proletarie.
Lenin prova a comprendere le ragioni profonde di una simile impostazione:
Junius, a quanto pare, voleva applicare qualche cosa di simile alla «teoria» menscevica «delle fasi», di triste memoria, voleva presentare il programma rivoluzionario cominciando dalla parte «più accessibile», più «popolare», più accettabile per la piccola borghesia. Una specie di piano per «giocare d’astuzia con la storia», giocare d’astuzia i filistei. Si dice che nessuno può essere contro la miglior difesa della vera patria, e la vera patria è la repubblica grande-tedesca, la miglior difesa è la milizia popolare, il parlamento in permanenza e così via. Una volta accettato, questo programma condurrebbe di per sé, si dice, alla fase seguente, alla rivoluzione socialista.
È verosimile che simili ragionamenti abbiano determinato, coscientemente o semicoscientemente, la tattica di Junius. È inutile dire che siffatti ragionamenti sono sbagliati. Nell’opuscolo di Junius si sente l’isolato, che non ha compagni nell’organizzazione illegale, abituata a elaborare fino in fondo le parole d’ordine rivoluzionarie e a educare sistematicamente le masse secondo il loro spirito.[14] [grassetti redazionali]
A pieno suffragio dell’interpretazione di Lenin, Luxemburg scrive, mal celando un evidente senso d’impotenza:
Ma che cosa doveva fare il nostro partito per dare vigore a quella opposizione contro la guerra, a quelle richieste? Doveva proclamare lo sciopero generale? Oppure incitare i soldati al rifiuto del servizio? Così viene posto di solito il problema. Una risposta affermativa a tali domande sarebbe altrettanto ridicola come se il partito volesse decidere: «Se scoppia la guerra noi facciamo la rivoluzione». Le rivoluzioni non «si fanno» e i grandi movimenti popolari non vengono inscenati con le ricette tecniche tirate fuori dalla saccoccia delle istanze di partito.[15]
Ma nell’agosto del 1915, di fronte a tentativi analoghi di eludere la questione fondamentale, Lenin aveva già obiettato:
Il problema non consiste affatto nel sapere se la socialdemocrazia tedesca fosse in grado di impedire la guerra, o se, in generale, dei rivoluzionari possano garantire il successo della rivoluzione. Il problema consiste nel sapere se ci si debba comportare da socialisti o se si debba davvero «soffocare» nell’abbraccio della borghesia imperialista.[16] [grassetti redazionali]
Certamente il problema non era risolvibile attraverso l’escamotage tattico proposto da Luxemburg, che assomigliava precisamente alle «ricette tecniche tirate fuori dalla saccoccia delle istanze di partito» da lei stessa stigmatizzate. “Ricette” che presso una lunga serie di epigoni nella cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” hanno fatto scuola e sono da tempo diventate prassi politica, rivelando – proprio in chi troppo spesso esalta retoricamente la spontaneità delle masse e la loro presunta capacità di fare a meno di qualsiasi coscienza organizzata – un’implicita ma innegabile sfiducia nella capacità della classe operaia di comprendere e di aderire, sotto la spinta degli eventi, ad un programma tattico chiaro e senza infingimenti, intrepido ed attuabile.
Conclude Lenin nelle sue riflessioni sulla Juniusbrochüre:
Junius, proprio in quest’opuscolo, dice, del tutto giustamente, che la rivoluzione non si può «fare». Nel 1914-1916, la rivoluzione era all’ordine del giorno, annidata nelle viscere della guerra, sorgeva dalla guerra. Bisognava «proclamarlo» in nome della classe rivoluzionaria, di questa bisognava tracciare il programma intrepidamente, fino in fondo: il socialismo, in un periodo di guerra, è impossibile senza la guerra civile contro la borghesia arcireazionaria, criminale, che condanna il popolo a calamità inaudite. Bisognava determinare le azioni sistematiche, conseguenti, pratiche, assolutamente attuabili, qualunque fosse il ritmo di sviluppo della crisi rivoluzionaria, conformi alla linea della rivoluzione che va maturando. Queste azioni sono elencate nella risoluzione del nostro partito: 1) votare contro i crediti; 2) spezzare la «pace civile»; 3) creare un’organizzazione illegale; 4) realizzare la fraternizzazione dei soldati; 5) appoggiare tutti i movimenti rivoluzionari delle masse. Il successo di tutti questi passi conduce inevitabilmente alla guerra civile.[17]
La generica «lotta rivoluzionaria contro la guerra» di Trotsky e Luxemburg (o l’altisonante «terza via» di cui parla Draper) era stata già spazzata via allo scoppio della guerra, con il fallimento di quella Seconda Internazionale che pure l’aveva proclamata nei suoi congressi ufficiali. Dal momento che non aveva potuto impedire la guerra, questa “formula” non poteva nemmeno fermarla, se non abbandonando la propria indeterminatezza e passando per quell’indebolimento degli Stati belligeranti che soltanto la sconfitta può produrre. Il fatto della guerra era la dimostrazione che l’azione rivoluzionaria internazionale del proletariato non poteva esistere in quanto tale prima della guerra o quantomeno che non poteva essere sufficientemente forte da impedirla. Il disfattismo rivoluzionario poteva costruire e rafforzare questa azione proletaria internazionale. La vera “palude” era e rimane la retorica parolaia che si ritiene alta perché non si sporca nel fango di una realtà complessa e contraddittoria, che richiede l’assunzione di chiare responsabilità politiche.
Continua…
NOTE
[1] H. Draper, Op. cit.
[2] Innegabilmente, l’estremo esaurimento previsto dalla Luxemburg non si realizzò a livello generale, i vincitori, per quanto indeboliti, non lo furono tanto quanto gli sconfitti, sia economicamente che politicamente. A questo proposito, lo stesso Draper è costretto ad ammettere: «Nel corso di questa argomentazione, alcuni dei suoi punti polemici sono talvolta esagerati», ma aggiunge: «(col senno di poi)». Cfr. Op. cit. Non possiamo fare a meno di notare come per lo studioso americano il “senno di poi” abbia scarso valore soprattutto se si tratta di criticare una conclusione errata della Luxemburg o di convalidarne una corretta di Lenin. Peccato che, dal punto di vista dei fenomeni sociali, il verdetto storico – qualora non diventi sterile recriminazione – rappresenti un banco di prova della validità dell’analisi.
[3] R. Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia, gennaio 1916, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 539.
[4] Ibidem, pp. 539-540.
[5] Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius, luglio 1916, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 22, p. 317.
[6] R. Luxemburg, Op. cit., p. 540.
[7] Lenin, Op. cit., p. 305.
[8] Cfr. F. Engels, Il socialismo in Germania, 1891, in Marx-Engels, Opere, Lotta comunista, Milano, 2020, Vol. 27, pp. 301-316.
[9] R. Luxemburg, Op. cit., p. 528.
[10] Ibidem, pp. 528-529.
[11] Lenin, Op. cit., p. 315.
[12] Lenin, Lettera a Ines Armand, 19 gennaio 1917, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 35, pp. 194-195.
[13] Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius, luglio 1916, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 22, pp. 315-316.
[14] Ibidem, pp. 317-318.
[15] R. Luxemburg, Op. cit., p. 530.
[16] Lenin, Il socialismo e la guerra, luglio-agosto 1915, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 21, p. 309.
[17] Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius, luglio 1916, Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 22, p. 316.

