La grande corsa alla fetta della torta della mobilitazione per Gaza è ufficialmente cominciata.
Il clima è decisamente cambiato. Persino il mondo artistico e culturale si è accorto di Gaza, e adesso si esprime con sdegno, fa dichiarazioni pubbliche, organizza concerti e kermesse… Con ogni probabilità dev’essere stata raggiunta la soglia psicologica necessaria per far scattare quel relais dell’indignazione che non è scattato a quota 5000, a 10.000, a 50.000 palestinesi trucidati, ma che evidentemente doveva pervenire – dopo due anni – alla soglia dei 65.000 e passa massacrati per attivarsi… Eppure, in passato, abbiamo visto eroi da palcoscenico battersi il petto in lacrime per un solo panda, per un singolo albero, o più realisticamente per un’indifesa cipolla ferita sotto i loro occhi. Non era “il momento”, avranno suggerito i loro agenti, di rischiare la carriera passando per “antisemiti”. C’è da comprenderli, tengono famiglia, contratti milionari, followers da conservare, qualcuno, negli USA, avrà persino perso nell’ultimo incendio a Beverly Hills la sua tredicesima villa con piscina … Oggi è diverso. Oggi è il momento di affrettarsi per non perdere il bus della rivolta morale contro il genocidio.
Che la narrazione sul conflitto in Medio Oriente sia sensibilmente mutata è sotto gli occhi di tutti. Non che siano mancate le informazioni, le “notizie” sul quotidiano sterminio di civili palestinesi a Gaza da parte dell’esercito israeliano, sui razzi lanciati contro ospedali e attendamenti di profughi, sui pogrom messi in atto dai coloni e sugli arresti indiscriminati in Cisgiordania, sulle torture e le sevizie inflitte agli arrestati, sulla fame usata come arma di guerra, sul tiro al bersaglio nelle code per il pane e per l’acqua. È cambiata la lettura, sono mutati i toni, l’atteggiamento complessivo dei media – quantomeno in Italia – nei confronti delle voci più apertamente critiche dell’operato dello Stato di Israele e del suo governo. Ritornano a fare capolino indisturbati persino vecchi concetti come quello della “colpa collettiva” e del “popolo criminale”, tipicamente e disgustosamente borghesi nel loro intenzionale occultamento del carattere di classe delle società che condannano e della natura inequivocabilmente borghese delle ideologie che la classe dominata subisce e assorbe ovunque sia priva di indipendenza.
Stiamo assistendo ad un tardivo adeguamento alla “spontanea” indignazione delle masse? Sì e no.
Tra le cause della consistente partecipazione alle mobilitazioni delle ultime settimane – al di là delle consuete e strumentali diatribe sui numeri – va sicuramente considerata un’ostilità nei confronti dell’arroganza e dell’impunità dei più forti, un’umanissima identificazione emotiva con quelle che ad oggi si caratterizzano come le più svantaggiate, oppresse, deboli e martoriate vittime della barbarie capitalistica, ma è anche vero che le vittime erano tali già più di un anno fa, ed è proprio il cambio del registro narrativo che ha trasformato una altrettanto umanamente comprensibile assuefazione all’orrore, somministrato con asettica quotidianità dai media, in indignazione, in solidarietà, in mobilitazione. Una diversa chiave interpretativa è diventata socialmente accettabile permettendo a sentimenti prima solo timidamente abbozzati di trovare espressione.
Non è la prima volta che l’aprirsi di fenditure nel muro compatto della rappresentazione ideologica borghese fornisce dei varchi ad un sentimento di protesta collettivo, in parte riconducibile ad intuitivi criteri di classe. Sono tutt’altro che estranee a queste “crepe” le dissonanze tra le frazioni della classe dominante, che si riflettono immancabilmente e trasversalmente nelle loro diverse espressioni politiche e mediatiche, pronte ad impiegare questo sentimento come strumento di pressione nello scontro interno ed internazionale, ampliandone l’estensione e stimolandone l’intensità.
Il collegamento delle proteste con le vicende della Global Sumud Flottilla è stato in Italia più marcato che altrove, e non si può escludere dalla valutazione di questa dinamica la presenza in carica di un governo che si è caratterizzato per una notevole “sintonia” con un’amministrazione USA le cui decisioni in campo doganale non possono non danneggiare in qualche misura anche quelle frazioni borghesi italiane che finora hanno garantito la stabilità di un esecutivo composto da diverse anime. Un esecutivo che peraltro ha nettamente accentuato l’ormai pluridecennale tendenza della borghesia italiana a rinunciare al suo tradizionale atteggiamento opportunisticamente equilibrato in merito al conflitto mediorientale, in passato connotato semmai da un orientamento più vicino alle borghesie arabe. A ciò va collegato il tentativo dell’opposizione istituzionale “di sinistra” e dei suoi sindacati di riferimento – reduci da recenti e sonore batoste – di cavalcare il nuovo clima per mobilitare un’area politica che si vorrebbe capitalizzare sul medio periodo in chiave di consenso elettoralistico.
Se fino ad ora a mobilitarsi sono stati settori ristretti degli strati intermedi e della classe operaia, caratterizzati da una precisa connotazione politica in merito alla “questione palestinese”, ora la mobilitazione coinvolge, soprattutto nelle dimostrazioni di piazza, settori più ampi, sempre “politicizzati” in senso lato ma in forma più “moderata”, mentre il grosso della classe operaia, fatta la tara delle contrastanti e interessate dichiarazioni sulle adesioni agli scioperi, non sembra essere ancora smosso. Vedremo se lo sarà in futuro.
Ad ogni modo, un simile allargamento non potrà che ridimensionare ulteriormente quelle entità opportuniste, politico-sindacali che hanno puntato tutte le loro scadenti fiches politiche sulla carta della “resistenza” palestinese, spalmandosi sulla sua direzione militare borghese, clericale, reazionaria per cercare di uscire dalle secche della loro marginalità ed egemonizzare un’area. Nonostante il tentativo di minoranze campiste e socialscioviniste di imporre il proprio marchio alle mobilitazioni con slogan e striscioni inneggianti al 7 ottobre 2023, il prevalente sentimento umanitario che ha contraddistinto la stragrande maggioranza dei partecipanti alle manifestazioni del 22 settembre e del 4 ottobre male si coniuga con le lucide efferatezze di Hamas e con i suoi cinici calcoli fatti sulla pelle dei gazawi. Ed è proprio su questo scarto che possono operare con maggiore successo altre organizzazioni opportuniste, maggiormente strutturate, con un personale politico meno incapace e probabilmente in maggiore sintonia con le attuali opzioni delle frazioni del capitale in Italia e non solo. Un’offerta politica appiattita sull’appoggio ad Hamas, per quanto pseudorivoluzionaria nella forma e opportunistica nel contenuto, oggi infatti non può essere presa in seria considerazione da nessuna frazione borghese italiana di rilievo; tuttavia, da parte di queste organizzazioni – consapevolmente o meno non ha importanza – l’offerta c’è stata di fatto e, invece di egemonizzare un’area, l’operazione rischia al contrario di mettere a nudo divisioni interne che un personale politico grottescamente inadeguato non è in grado di gestire se non per mezzo di scomuniche, condanne, ostracismi e persino minacce che mettono a nudo un DNA stalinista slatentizzato.
Un’opzione opportunistica critica verso il sostegno dell’attuale governo italiano a Israele potrebbe invece sfruttare con maggiori riscontri il sentimento umanitario stimolato ed esteso dall’attuale narrazione del conflitto (in una certa misura persino riempiendo di contenuti socialdemocraticamente “solidaristici” un “internazionalismo formale”). Non conterà assolutamente nulla chi avrà indetto “prima” o in numero maggiore scioperi e manifestazioni per la Palestina se non si possiede il solo argomento che consente di vedersi riconosciuta ogni rivendicazione: la forza. Prive di forza e di intelligenza politica, queste organizzazioni potranno soltanto piagnucolare di fronte allo “scippo della bandierina”, accontentandosi di un misero ruolo di opposizione minoritaria “di sinistra” ad un movimento di cui denunceranno “deviazioni opportunistiche” parlamentari… diverse da quelle “extraparlamentari” – ma altrettanto opportunistiche – che avrebbero voluto imprimergli loro.
Ma a correre dietro alla torta non sono soltanto le botteghe politiche e sindacali borghesi e para-borghesi. Sgambettano anche quelle soggettività politiche più o meno afferenti all’internazionalismo (o quei singoli che espandono il proprio ego al punto di considerarlo soggettività politica) che ad ogni minima accelerazione sociale, con inesorabile e ricorrente puntualità, mollano gli ormeggi di un bagaglio teorico “granitico” (finché non c’è un alito di vento) per gettarsi nella corrente senza vele, senza motore, senza timone.
Perché, quando il “movimento” chiama, bisogna rispondere. Non prima, non dopo, ma solo nella grande “giornata campale” in cui è fondamentale “esserci” e, soprattutto essere visti. Uno striscione, un cartello, un volantino… ed è fatta. L’“intervento rivoluzionario” – le cui caratteristiche e modalità sono stabilite con infallibile ed autocertificata autorità pontificale – è compiuto… se ne riparlerà alla prossima manifestazione oceanica. Tra una settimana, tra un mese, tra dieci anni.
La prima cura di queste soggettività è coprirsi i fianchi operando una serie di arbitrari slittamenti semantici: analizzare i fenomeni sociali diventa “fare loro le pulci”; evidenziarne gli eventuali limiti diventa “starsene in finestra a guardare”, e via discorrendo. È legittimo a questo punto domandarsi quale sia per costoro il senso dell’“intervento rivoluzionario” in mobilitazioni che, seppure connotate dalla presenza di elementi proletari, sono ancora – inevitabilmente – prive di un chiaro orientamento classista; e in che cosa un “intervento” che rinunci ad analizzare ed evidenziare si distingua dall’accodarsi, dall’aderire “senza se e senza ma”?
Troppe volte, in questi due anni di sterminio e di pulizia etnica a Gaza, abbiamo letto e sentito queste parole: “appoggio incondizionato, senza se e senza ma”, scandite con ottusa arroganza da opportunisti che nel sostenere determinate fazioni politiche di una putrida borghesia nazionale, consustanziale all’imperialismo tanto quanto quella israeliana, hanno mostrato tutta la viscosità della materia sociale e politica di cui sono composti. Non è proprio il caso di infilare di soppiatto questi dardi avvelenati nell’arsenale concettuale dell’internazionalismo rivoluzionario.
Il metafisico «pensa per antitesi assolutamente immediate; il suo parlare è: sì, sì; no, no. Quello che c’è di più viene dal maligno. Per lui, una cosa esiste o non esiste; ugualmente è impossibile che una cosa nello stesso tempo sia sé stessa ed un’altra. Positivo e negativo si escludono reciprocamente in modo assoluto; causa ed effetto stanno del pari in rigida opposizione reciproca»[1]. Le antitesi assolutizzanti rientrano nell’armamentario prepolitico del pensiero religioso verso cui in questi anni abbiamo visto regredire larga parte di un opportunismo terzomondista già becero in partenza. Al contrario, i “se” e i “ma” costituiscono le basi azotate della dialettica materialistica. Come è possibile introdurre elementi di consapevolezza in mobilitazioni che coinvolgano elementi della classe operaia senza essere consapevoli di ciò che fa eventualmente loro difetto? Come è possibile “stare dentro” queste mobilitazioni, per condurvi presumibilmente un intervento rivoluzionario, negando il proprio ruolo, che consiste appunto nel delineare con la massima precisione le loro componenti, le loro istanze, le loro potenzialità ma anche e soprattutto i loro limiti? La risposta è semplice: non è possibile. Pretendere che lo sia esprime solamente il tentativo di depotenziare preventivamente le prevedibili, e spesso fondate, denunce di codismo o di nicodemismo. Non si lavora alla maturazione di un fenomeno sociale immaturo con la sorniona piaggeria dei “furbacchioni” della “politica rivoluzionaria”, che proprio nella loro insincera adulazione di quella che considerano la “spontaneità” delle mobilitazioni rivelano tutto il loro disprezzo nei confronti dei suoi componenti, che non ritengono all’altezza di esser posti di fronte alle contraddizioni del fenomeno. La maturazione di un fenomeno sociale composito passa per la definizione delle linee di classe che lo percorrono, per l’individuazione delle espressioni politiche che dietro ognuna di queste linee si manifestano in maniera più o meno corrispondente ai propri reali interessi di classe. È dunque una maturazione che non può evitare il momento della polarizzazione, della scissione, della rottura, a meno che non ci si proponga di mantenere il fenomeno nel suo stato aggregativo indifferenziato per salvaguardarne la mera dimensione quantitativa.
Ecco allora che l’accusa secondo cui la pretesa di analizzare i fenomeni sociali non rappresenta altro che una comoda scusa per non “sporcarsi le mani” palesa in maniera fin troppo evidente che dietro l’ostentato rifiuto dell’“analisi” si cela l’alibi per l’adesione incondizionata o per un “intervento” che nel sottacere le proprie valutazioni e i propri scopi – o modificandoli all’occorrenza – si priva di quei punti di riferimento che soli consentono di stabilire la direzione del moto relativo tra chi “interviene” e il fenomeno soggetto a “intervento”.
Le mobilitazioni in corso da qualche settimana rappresentano indubbiamente fenomeni di una certa rilevanza i cui sviluppi vanno seguiti con attenzione e serietà. Non esistono attualmente forze internazionaliste in grado di mutarne il segno predominante. Le modalità di intervento rivoluzionario in esse sono quindi giocoforza circoscritte, ma non assenti. Il marxismo ha una concezione precisa dei limiti della spontaneità delle masse (quando è realmente spontaneità e si tratta realmente di masse) sintetizzata nell’insegnamento materialistico secondo cui – chi è allergico alle “citazioni” si tenga il suo prurito – in ogni epoca le idee dominanti «non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio»[2]. Persino quando i rapporti materiali dominanti sono scossi, e non sembra essere il caso attuale, la loro espressione ideale mantiene una propria presa inerziale sulla classe rivoluzionaria, facendo sì che la sua azione spontanea, se priva di direzione, venga deviata, riassorbita. Non si tratta di un’illazione, ma della tragica storia di più di un secolo di sconfitte il cui loop sarebbe il caso di interrompere. Dal momento che oggi questa direzione manca e che non sorge da sé, va costruita, passo dopo passo, con ferrea determinazione, senza futili impazienze e a contatto con il movimento esistente. Ma la si costruisce considerando i fenomeni sociali del tipo delle attuali mobilitazioni come un campo di battaglia in cui cercare di strappare elementi di avanguardia alle diverse forme di influenza borghese, e non come se fossero già il proprio esercito in marcia. In questa battaglia rinunciare alle analisi, alle valutazioni, ai distinguo, significa presentarsi disarmati. Per i marxisti rinunciare all’“arma della critica” non è un’opzione.
Circolo internazionalista «coalizione operaia» – Prospettiva Marxista
NOTE
[1] F. Engels, Antidühring, Lotta comunista, Milano, 2003, p. 32.
[2] K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, in Opere scelte, Lotta comunista, Milano, 2023, p. 258.
