(Note su un passaggio del “Manifesto del Partito Comunista”)

R. Rosdolsky, The Workers and the Fatherland: A Note on a Passage in the “Communist Manifesto”, prima pubblicazione in Science and Society,n. 29 (estate 1965). Traduzione in italiano di Rostrum dell’aprile 2013 (riveduta nel febbraio 2025), pubblicata in appendice a R. Rosdolsky, Studi sulla tattica rivoluzionaria, Movimento Reale, maggio 2025.
I
Nel passaggio in questione si discute dell’atteggiamento dei lavoratori nei confronti della propria patria. Si legge:
I comunisti vengono inoltre accusati di voler sopprimere la patria e la nazionalità.
Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro ciò che non hanno. Ma, dato che il proletariato d’ogni paese deve innanzitutto conquistare il potere politico, deve elevarsi a classe nazionale e deve costituirsi in nazione, è anch’esso ancora nazionale, sebbene sia tale in un senso completamente diverso da quello della borghesia.
Le differenze nazionali e gli antagonismi tra i popoli vanno via via sparendo, con lo stesso sviluppo della borghesia, con la libertà del commercio, con il mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e con le condizioni d’esistenza che da essa derivano.
Quelle differenze e quegli antagonismi spariranno ancora di più per effetto del dominio del proletariato. L’azione combinata, per lo meno dei proletari dei paesi civilizzati, è una delle prime condizioni della liberazione del proletariato.
A misura che verrà abolito lo sfruttamento dell’individuo, verrà anche meno lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra.
Caduto il contrasto delle classi all’interno della nazione, finirà anche l’antagonismo fra le nazioni stesse.[1]
E in una pagina precedente, il Manifesto dice:
Sebbene non nel contenuto, ma di certo nella forma, la lotta del proletariato contro la borghesia assume dapprima un carattere nazionale. È naturale che in primo luogo il proletariato di ciascun paese la faccia finita con la sua propria borghesia.[2]
Questi passaggi sono stati citati infinite volte nella letteratura socialista, di solito per giustificare l’atteggiamento negativo del movimento operaio socialista verso il patriottismo borghese e lo sciovinismo. Spesso, comunque, è stato fatto il tentativo di stemperare il rigido linguaggio di questi passaggi e di dargli, al contrario, un significato nazionalista.
Ad esempio possiamo citare H. Cunow, il noto teorico socialdemocratico tedesco. Egli discute i passaggi di cui sopra nel suo libro La teoria marxista della storia, della società e dello Stato. Secondo Cunow, tutto ciò che Marx ed Engels volevano dire era che:
Oggi (1848) il lavoratore non ha patria, egli non prende parte alla vita della nazione, non condivide la sua ricchezza materiale e spirituale. Ma uno di questi giorni gli operai conquisteranno il potere politico e prenderanno una posizione dominante nello Stato e nella nazione, e poi, quando per così dire [?] essi si saranno costituiti in nazione, saranno anch’essi nazionali e si sentiranno nazionali, anche se il loro nazionalismo [!] sarà di un genere diverso che quello della borghesia.[3]
Questa interpretazione di Cunow[4] inciampa su una piccola parola, la parola “ancora” («dato che il proletariato d’ogni paese deve innanzitutto conquistare il potere politico, deve elevarsi a classe nazionale e deve costituirsi in nazione, è anch’esso ancora nazionale») la quale indica come Marx ed Engels non si aspettavano che il proletariato rimanesse “nazionale” per sempre…
L’interpretazione di Cunow divenne quella standard nella letteratura riformista; ma dopo la Seconda guerra mondiale, trovò un’accoglienza altrettanto buona nel campo comunista. Così, possiamo leggere nell’Introduzione all’edizione del Manifesto pubblicata dalla Stern-Verlag a Vienna nel 1946:
Quando Marx nel Manifesto Comunista dice: «dato che il proletario d’ogni paese deve innanzitutto conquistare il potere politico, deve elevarsi a classe nazionale e deve costituirsi in nazione, è anch’esso ancora nazionale», dobbiamo capire che è precisamente nella nostra epoca che la classe operaia agisce come una classe nazionale, come la spina dorsale della nazione nella lotta contro il fascismo e per la democrazia. La classe operaia dell’Austria sta lottando oggi per conquistare la sua patria austriaca creando un’Austria indipendente, libera e democratica.[5]
Ciò evidentemente non solo è l’equivalente dell’interpretazione di Cunow, ma si spinge addirittura oltre.
In completo contrasto con queste interpretazioni nazionalistiche, si pone quello che Lenin scrisse nel suo famoso saggio su Karl Marx:
Le nazioni sono un inevitabile prodotto e una forma inevitabile dell’epoca borghese dello sviluppo sociale. La classe operaia stessa non poteva irrobustirsi, maturarsi, costituirsi, senza «costituirsi in nazione», senza essere «nazionale» («benché non nel senso della borghesia»). Ma lo sviluppo del capitalismo abbatte sempre più le barriere nazionali, sopprime il particolarismo nazionale, e, in luogo degli antagonismi nazionali, pone quelli di classe. È perciò assolutamente vero che, nei paesi capitalistici sviluppati, «gli operai non hanno patria», e che «l’azione unita» degli operai, almeno nei paesi civili, è «una delle prime condizioni dell’emancipazione del proletariato».[6]
Tuttavia, l’interpretazione di Lenin non è ancora soddisfacente, perché mentre secondo il Manifesto il proletariato, anche dopo aver conquistato la supremazia politica, sarà «anch’esso ancora nazionale», Lenin restringe questo “essere nazionale” solamente agli inizi del movimento operaio, prima della “maggiorità” della classe operaia. In una società capitalista pienamente sviluppata, dice Lenin, gli operai più che mai non avranno patria!…
Questo per quanto riguarda le varie interpretazioni dei passaggi citati del Manifesto. Non può apparire strano che molti autori socialisti abbiano tentato di trovare il loro vero significato. Assai più strano è che, nel corso del tempo, questi passaggi siano diventati una sorta di credo, che da essi siano derivati slogan programmatici di vasta portata, anche se le parole del Manifesto non furono pienamente comprese… Ci riferiamo in particolare all’asserzione che gli operai«non hanno patria». Era molto più facile ripeterlo continuamente piuttosto che spiegare questa frase apparentemente semplice e accordarla con la pratica quotidiana dei partiti socialisti (e in seguito comunisti). E, sfortunatamente, questa pratica sembrò sempre più smentire gli autori del Manifesto…
II
Qual è allora il reale significato delle affermazioni del Manifesto? In che senso gli operai «non hanno patria», e com’è che, ciononostante, anche dopo avere acquisito la supremazia, il proletariato rimarrà «ancora nazionale»? Per poter rispondere a questa domanda, dobbiamo innanzitutto esaminare la terminologia del Manifesto.
È risaputo che i termini “nazione” e “nazionalità” non sono sempre e dappertutto impiegati nel medesimo senso. In inglese ed in francese, ad esempio con “nazione” di solito si intende la popolazione di uno Stato sovrano, e la parola “nazionalità” può essere intesa sia come sinonimo di cittadinanza oppure designare una mera comunità di stirpe e di lingua (un “popolo” – il tedesco “Volk”) – mentre in Germania ed in Europa Orientale entrambi i termini si riferiscono primariamente alla comunità di stirpe e di lingua[7].
Marx ed Engels, specialmente nei loro primi scritti, quasi sempre seguirono l’uso inglese e francese. Usarono la parola “nazione” principalmente per designare la popolazione di uno Stato sovrano (in via eccezionale, essi applicarono questo termine anche a popoli “storici”, come i polacchi che erano stati – temporaneamente – privati di un loro proprio Stato). D’altra parte, con la parola “nazionalità” intendevano:
1) sia l’appartenenza ad uno Stato, ovvero, un popolo avente uno Stato[8]; oppure 2) una mera comunità etnica. Di conseguenza, questo è pressoché l’unico termine da loro impiegato in relazione ai cosiddetti “popoli senza storia”, come gli slavi austriaci (cechi, croati ecc.) e i rumeni, o alle rovine di popoli come celti, bretoni e baschi. E proprio questo concetto di “nazionalità” – in acuto contrasto con quello di “nazione” (con il quale essi intesero un popolo che possedesse un suo proprio Stato e perciò la sua propria storia politica) – era il più caratteristico della terminologia di Marx ed Engels! Ne citiamo alcuni esempi:
I gaeli delle Highlands e i gallesi [scrisse Engels su The Commonwealth nel 1866] sono, senza dubbio, diversi per nazionalità dagli inglesi, ma a nessuno è venuto in mente di definire nazioni questi resti di popoli da tempo scomparsi – o addirittura, in Francia, i celti che abitano la Bretagna…[9]
E nell’articolo La Germania e il Panslavismo (1855) afferma degli slavi austriaci:
Gli slavi austriaci si dividono così in due classi: una parte di essi è formata da miseri avanzi di nazionalità la cui storia appartiene al passato e il cui moderno sviluppo storico è legato a quello di nazioni di razza e lingua differente. […] Queste nazionalità quindi, benché vivano esclusivamente su suolo austriaco, non sono affatto costituite come riconosciute nazioni a sé stanti.[10]
In un altro luogo Engels dice:
Né la Boemia né la Croazia erano tanto forti da poter esistere come nazioni indipendenti. Le nazionalità rispettive, minate poco a poco dall’azione di cause storiche che portano inevitabilmente al loro assorbimento in un gruppo nazionale più forte, potevano sperare di recuperare qualcosa di simile a un’indipendenza soltanto per via di un’alleanza con altre nazioni slave [Engels si riferisce qui alla Russia].[11]
Quanta importanza Engels attribuiva alla differenziazione terminologica dei concetti di “nazione” e “nazionalità” può essere rilevato dall’articolo citato da The Commonwealth dove egli fa una distinzione netta fra le questioni “nazionali” e di “nazionalità”, tra i princìpi “nazionali” e quelli di “nazionalità”.
Egli approvò solamente il primo principio, respingendo vigorosamente il secondo. (Come è noto, Marx ed Engels negarono erroneamente un futuro politico ai “popoli senza storia” – cechi, slovacchi, serbi, croati, sloveni, ucraini, rumeni, ecc.[12])
III
Lo stesso Manifesto Comunista offre numerosi esempi di questo impiego della terminologia. Quando si parla, ad esempio, delle “industrie nazionali” minate dallo sviluppo del capitalismo[13], evidentemente ci si riferisce ad industrie confinate nel territorio di uno Stato determinato. Le “Nationalfabriken” (nella versione inglese “fabbriche possedute dallo Stato”) cui si fa riferimento alla fine della seconda sezione sono, chiaramente, intese nello stesso senso. E nella frase:
Province indipendenti, collegate appena fra loro da vincoli federali, e province con interessi differenti e con leggi, governi e dogane proprie, furono raccolte e ridotte a unica nazione, con un unico governo, con un’unica legge unitaria, con un unico interesse nazionale di classe, con un unico confine doganale.[14]
le parole “nazione” e “nazionale” si riferiscono evidentemente allo Stato, al popolo che ha uno Stato e non alla nazionalità nel senso di stirpe e di lingua. Infine, quando nel Manifesto Marx ed Engels parlano di una lotta “nazionale” del proletariato, questo significa qualcosa di piuttosto diverso dalle interpretazioni riformiste e del neo-riformiste. Ciò risulta evidente dal passaggio seguente, che offre un ritratto dell’origine della lotta di classe proletaria:
Dapprima lottano uno per uno i singoli operai, poi gli operai di una sola fabbrica, e in seguito tutti gli operai di un dato mestiere, in un dato luogo e contro quel singolo borghese che direttamente li sfrutta. […] Basta questo collegamento perché le molte e varie lotte locali, che hanno dappertutto lo stesso carattere, si concentrino in una sola lotta nazionale, di classe.[15]
Qui la lotta “nazionale” del proletariato, cioè la lotta intrapresa alla scala dell’intero Stato, è direttamente equiparata alla lotta di classe, poiché solo una tale centralizzazione delle lotte degli operai su scala statale poteva opporre gli operai come classe alla classe della borghesia e dare a queste lotte il carattere di lotte politiche[16]. Per tornare al passaggio citato all’inizio, quando Marx ed Engels parlano della lotta del proletariato contro la borghesia come di una lotta che possiede «dapprima un carattere nazionale», evidentemente hanno in mente una lotta condotta inizialmente nell’ambito di un singolo Stato, come è chiaro dalla ragione che viene fornita, ovvero che «il proletariato di ciascun paese la faccia finita con la sua propria borghesia». Ma da questo punto di vista l’affermazione a proposito dell’ascesa del proletariato fino a «elevarsi a classe nazionale», del suo costituirsi essa stessa «in nazione», assume anch’essa un significato ben preciso. Ciò significa che il proletariato deve essere guidato in un primo momento dai confini statali esistenti, deve elevarsi a classe nazionale all’interno degli Stati esistenti! Questo è il motivo per il quale all’inizio sarà «ancora nazionale» – «sebbene sia tale in un senso completamente diverso da quello della borghesia» – poiché la borghesia considera come suo scopo la separazione politica dei popoli l’uno dall’altro e lo sfruttamento delle nazioni straniere da parte della propria. D’altra parte, la classe operaia vittoriosa lavorerà fin dall’inizio per l’eliminazione delle ostilità nazionali e degli antagonismi tra i popoli. Con la sua egemonia creerà le condizioni nelle quali «caduto il contrasto delle classi all’interno della nazione, finirà anche l’antagonismo fra le nazioni stesse». Da questo, e soltanto da questo punto di vista, è possibile comprendere cosa intendeva il giovane Engels quando scrisse a proposito dell’“abolizione” o dell’“annientamento” della nazionalità: certamente non l’“abolizione” delle comunità etniche e linguistiche esistenti (ciò che sarebbe stato assurdo!), ma delle delimitazioni politiche dei popoli [17]. In una società nella quale (nelle parole del Manifesto) «il potere pubblico perderà ogni carattere politico» e nella quale lo Stato in quanto tale si estinguerà, non può esserci spazio per “Stati nazionali” separati!…
IV
Crediamo che la nostra analisi della terminologia del Manifesto sia qualcosa di più che una mera “pedanteria” filologica. È stato dimostrato che i passaggi in questione si riferiscono principalmente a “nazione” e “nazionalità” in senso politico e sono quindi in contraddizione con le interpretazioni precedenti. Ciò vale soprattutto per la spiegazione assolutamente arbitraria e sofistica di Cunow, che ha cercato di ricavare uno specifico “nazionalismo proletario” dal Manifesto e che ha ridotto l’internazionalismo del movimento della classe operaia al desiderio di cooperazione internazionale tra i popoli[18]. Tuttavia, il Manifesto non predicava neppure che il proletariato dovesse essere indifferente rispetto ai movimenti nazionali, né che dovesse mostrare una sorta di “nichilismo” in materia di nazionalità! Quando il Manifesto afferma che i lavoratori «non hanno patria», ciò si riferisce allo Stato nazionale borghese, non alla nazionalità in senso etnico. Gli operai «non hanno patria» perché, secondo Marx ed Engels, devono considerare lo Stato nazionale borghese come un meccanismo per la loro oppressione [19] – e anche dopo aver conquistato il potere “non avranno patria” nel senso politico, in quanto gli Stati nazionali socialisti separati costituiranno solamente una fase di transizione verso la società senza classi e senza Stati del futuro, poiché la costruzione di una tale società è possibile solo su scala internazionale! Pertanto, l’interpretazione “indifferentista” del Manifesto del partito comunista, che era consueta nei circoli marxisti “ortodossi”, non ha alcuna giustificazione. Il fatto che nel complesso questa interpretazione abbia fatto poco male al movimento socialista, e che in un certo senso lo abbia persino favorito, è dovuto alla circostanza che – sebbene in modo distorto – essa rifletteva l’intrinseca tendenza cosmopolita del movimento operaio [20], il suo sforzo di superare la ristrettezza mentale nazionale e le «differenze nazionali e gli antagonismi tra i popoli». In questo senso, tuttavia, essa era molto più vicina allo spirito del marxismo e a quello del Manifesto di quanto lo sia l’interpretazione nazionalistica di Bernstein, Cunow e altri.
NOTE
[1] K. Marx – F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, 1847, Lotta comunista, Milano, 1998, pp. 55-57.
[2] Ibidem, p. 37.
[3] H. Cunow, Die Marxsche Geschichts, Gesellschafts und Staatatheorie, Singer, Berlin, 1920, vol. 2, p. 30.
[4] Cunow non fu il primo ad interpretare il Manifesto in questo senso. Come molte altre innovazioni riformiste, anche questa ha origine dal fondatore del revisionismo, E. Bernstein. Egli dice, in un articolo su La Socialdemocrazia Tedesca ed il Groviglio turco (Neue Zeit, 1896-97 n. 4, pp. 111 ss.): «L’asserzione che il proletario non ha patria è emendata laddove, quando e nella misura in cui esso può partecipare pienamente come cittadino al governo e alla legislazione del suo paese, ed è in grado di modificarne le istituzioni secondo i propri desideri».
[5] L’idea che gli operai austriaci potessero voler lottare per il socialismo nel loro paese non è apparentemente nemmeno venuta in mente all’autore dell’Introduzione…
[6] Lenin, Karl Marx, 1914, in Opere, Lotta comunista, Milano, 2002, vol. 21, p. 64.
[7] K. Kautsky afferma a tal proposito: «Il concetto di nazione è altrettanto difficile da delimitare. La difficoltà non è diminuita dal fatto che due diverse formazioni sociali sono indicate dalla stessa parola, e la stessa formazione da due parole diverse. Nell’Europa Occidentale, con la sua antica cultura capitalista, i popoli di ogni Stato si sentono strettamente legati ad esso. Là, la popolazione di uno Stato è designata come nazione. In questo senso, per esempio, si parla di una nazione belga. Più ci spostiamo verso l’est dell’Europa, più numerose sono le porzioni della popolazione di uno Stato che non desiderano appartenere ad esso e che costituiscono comunità nazionali a sé stanti al suo interno. Anche queste sono chiamate “nazioni” o “nazionalità”. Sarebbe consigliabile usare solamente quest’ultimo termine per indicarle». K. Kautsky, Die materialistische Geschichtsauffassung, Verlag J.H.W. Dietz, Berlin, 1927, vol. 2, p. 441.
[8] Si confronti il discorso di Marx sulla Polonia del 22 febbraio 1848: «Le tre potenze [cioè Prussia, Austria e Russia] hanno camminato con la storia. Nel 1846, quando annetterono Cracovia all’Austria, e privarono i polacchi degli ultimi resti d’indipendenza nazionale…» (Discorsi sulla Polonia tenuti a Bruxelles il 22 febbraio 1848 per la celebrazione del secondo anniversario della rivoluzione polacca del 1846, K. Marx – F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1973, vol. VI, p. 557). Anche qui, come in molti altri passaggi di Marx ed Engels, la “nazionalità” non si riferisce a nient’altro che allo Stato.
[9] F. Engels, Cosa ha a che fare la classe operaia tedesca con la Polonia?, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1987, vol. XX, p. 157.
[10] F. Engels, La Germania e il Panslavismo, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1982, vol. XIV, p. 159.
[11] F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, 1851-52, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1982, vol. XI, p. 50.
[12] Si veda la mia monografia: Friedrich Engels und das Problem der “geschichtslosen” Völker (Die Nationalitätenfrage in der Revolution 1848/49 im Lichte der Neuen Rheinischen Zeitung), in Archiv für Sozialgeschichte vol. 4, pp. 87-282. [Engels e il problema dei popoli «senza storia». La questione nazionale nella rivoluzione del 1848-49 secondo la visione della «Neue Rheinische Zeitung», Graphos, Genova, 2005– N.d.R.]
[13] K. Marx – F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, 1847, Lotta comunista, Milano, 1998, p. 15.
[14] Ibidem, p. 17.
[15] Ibidem, pp. 27-31.
[16] Cfr. L’ideologia tedesca: «Per il solo fatto che è una classe e non più un ordine, la borghesia è costretta a organizzarsi nazionalmente, non più localmente, e a dare una forma generale al suo interesse medio». (K. Marx – F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1972, vol. V, p. 76).
[17] In questo senso, Engels scrisse nel 1846: «Solo i proletari possono abolire la nazionalità; solo il proletariato che si sta risvegliando può permettere alle varie nazioni di fraternizzare» (MEGA, vol. 6, p. 460). Allo stesso modo, nell’Ideologia tedesca, il proletariato è indicato come una classe che è «già l’espressione del dissolvimento di tutte le classi, nazionalità, ecc… in seno alla società odierna… e per la quale la nazionalità è già annullata». (K. Marx – F. Engels, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1972, vol. V, pp. 38 e 60).
[18] Il culmine dell’errata interpretazione del Manifesto da parte di Cunow è forse nel seguente passaggio del suo libro: «Ed è altrettanto irragionevole concludere dall’appello “Proletari di tutti i paesi, unitevi!” … che Marx intendesse dire che l’operaio sia fuori della comunità nazionale. Non più di quanto l’appello, “Giornalisti medici, filologi ecc., riunitevi in sindacati internazionali per svolgere i vostri compiti!” stia a significare che i membri di queste associazioni professionali non dovrebbero sentirsi legati alla propria nazionalità…» (Op. cit., vol. 2, p. 29). Cfr. K. Marx, Critica del Programma di Gotha, 1875, programma in cui al punto 5 si legge: «La classe operaia opera per la propria liberazione anzitutto nell’ambito dell’odierno Stato nazionale, essendo consapevole che il necessario risultato del suo sforzo, che è comune agli operai di tutti i paesi civili, sarà l’affratellamento internazionale dei popoli». A proposito di questo passo, Marx affermò: «In opposizione al Manifesto comunista e a tutto il socialismo precedente, Lassalle aveva concepito il movimento operaio dal più angusto punto di vista nazionale. Lo si segue in questo – e ciò dopo l’azione dell’Internazionale! S’intende interamente da sé che, per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il teatro immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto Comunista, non per il contenuto, ma “per la forma”. Ma “l’ambito dell’odierno Stato nazionale”, per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente “nell’ambito del mercato mondiale”, politicamente “nell’ambito del sistema degli Stati”. Ogni buon commerciante sa che il commercio tedesco è al tempo stesso commercio estero, e la grandezza del signor Bismarck consiste appunto in una specie di politica internazionale. E a che cosa il Partito operaio tedesco riduce il suo internazionalismo? Alla coscienza che il risultato del suo sforzo “sarà l’affratellamento internazionale dei popoli” – frase presa a prestito dalla Lega borghese della libertà e della Pace, e che deve passare come equivalente dell’affratellamento internazionale delle classi operaie, nella lotta comune contro le classi dominanti e i loro governi. Nemmeno una parola, dunque, delle funzioni internazionali della classe operaia tedesca!» (Critica al Programma di Gotha, Massari editore, Bolsena, 2008, pp. 59-61).
[19] In uno dei suoi quaderni Marx estrasse il seguente passo di Brissot de Warville: «C’è una realtà di cui vi è solo il sospetto in chi formula piani di istruzione per il popolo – ovvero che esso non può essere virtuoso finché i tre quarti di esso non possiedono alcuna proprietà; che senza proprietà il popolo non ha patria, che senza una patria tutto gli è avverso, e che per parte sua deve essere armato contro tutti… Dal momento che questo è un lusso dei tre quarti della società borghese, ne consegue che questi tre quarti non possano avere né religione, né moralità, né affetto per lo Stato…» (Mega, vol. 6, p. 617).
[20] Nella sua lettera a Sorge del 12-17 settembre 1874, Engels scrisse dei «comuni interessi cosmopoliti del proletariato». Questo è un interessante contrasto con la connotazione spregiativa che la parola “cosmopolitismo” ha assunto nel vocabolario politico dell’Unione sovietica.


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